Guida galattica al cinema di Nanni Moretti

Nanni Moretti (1953) è probabilmente la figura più “rinascimentale” del cinema italiano: attore, regista, produttore, sceneggiatore, attivista politico, personaggio fittizio dei suoi stessi film e ideatore di un’enorme quantità di frasi citabili pressoché in ogni situazione quotidiana (il sottotitolo di Coolturama ne sa qualcosa).

Dagli esordi in Super8 di Io sono un autarchico (1976) in poi, Moretti ha saputo intercettare un certo pubblico fino ad allora poco rappresentato sullo schermo, che scoprendo un alter ego amabile anche nell’essere snob, maniacale e attaccabrighe lo ha seguito per decenni come una sorta di capopopolo, ed è cresciuto con lui tra riflessioni private e impegno pubblico.

Un po’ come per Woody Allen, il cinema di Moretti sembra un’estensione della sua vita reale, e così come Woody Allen rimane sempre la figura stilizzata e iconica di Woody Allen nonostante cambi ruolo, anche Moretti è riuscito a dimostrare la personalità e il carattere necessari per essere sempre riconoscibile come fosse un personaggio dei fumetti, con i tratti caratteristici che ci piace ritrovare in lui.

Nella sua carriera ci sono stati momenti in cui l’identità tra cinema e vita è stata pressoché totale, come in Aprile (1998), in cui sullo schermo si mostrava come in un filmino di famiglia la nascita del figlio, oppure altre fasi in cui la storia e il personaggio si staccavano dalla realtà (vedi La stanza del figlio, 2001), ma in ogni frangente rivedere Moretti sullo schermo dà (quasi) sempre un senso di familiarità, un ritrovare un volto amico (anche quando insopportabile).

Se invece qualche volta ha deluso, soprattutto negli ultimi anni (con un po’ di amorevole cattiveria si potrebbe dire decenni), è stato probabilmente proprio quando le ambizioni come autore di drammi seri e ben presentati si sono separate dai tratti di anarchia e originalità che per tanto tempo ci aveva abituato a conoscere e amare.

Proprio per questo, di pochi autori come Moretti si può dire che guardare l’intera filmografia è utile e pressoché necessario: innanzitutto perché i titoli sono in numero limitato, e poi perché seguirne l’evoluzione è un po’ come seguire un unico personaggio dai vent’anni alla maturità, capitolo dopo capitolo, un’esperienza che solo il Truffaut del ciclo di Antoine Doinel e pochi altri ci hanno dato l’occasione di provare al cinema.

Ecco quindi una guida alla sua filmografia, sia come regista che come attore, divisa per fasce di merito, pensata per chi voglia sapere da dove iniziare a scoprirlo e anche per chi sia curioso di qualche capitolo dimenticato, con l’idea che poi con un autore come lui ogni “classifica” sia solo soggettiva.

Buona esplorazione, e soprattutto buone scoperte a chi dopo aver iniziato questo viaggio potrà dire finalmente dire agli altri: “Cioè, lei praticamente non ha mai visto un film di Nanni Moretti? Vabbè, continuiamo così: facciamoci del male”.


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Imperdibili

Caro diario (di Nanni Moretti, 1993)

Non è un caso che il logo della casa di distribuzione Sacher (di proprietà di Moretti) sia un uomo in sella a una Vespa. Non è un caso che il film che ha esteso la fama di Moretti perfino negli USA sia questo. Non è un caso che Moretti da anni giri l’Italia leggendo i diari di lavorazione di questo film. Caro diario è il film più iconico di Nanni Moretti, e nonostante sia il suo settimo da regista, è come se segnasse un nuovo inizio, libero da vecchi schemi personali e convenzioni stilistiche, creando di fatto un genere cinematografico a sé stante.

Innanzitutto non è un film con un’unica trama, ma è composto da tre episodi completamente slegati l’uno dall’altro; in secondo luogo, il protagonista non è un personaggio fittizio, bensì lo stesso Moretti, o almeno una versione immaginaria di sé; infine, lo stile è totalmente anomalo, come se invece di raccontarci storie Moretti ci parlasse direttamente di tutto quello che vuole, dalla sua passione per i giri in Vespa al resoconto del tumore che lo ha colpito, proprio come in un diario che la macchina da presa renda pubblico.

In Vespa è sicuramente l’episodio più celebre, una sorta di concentrato densissimo di morettismi: “Spinaceto, pensavo peggio”; “Mi troverò sempre con una minoranza”; “Saper ballare…”; l’odio per Henry pioggia di sangue; la musica di Leonard Cohen, Khaled e Keith Jarrett; l’ossessione per le case dei quartieri di Roma. Isole è la cronaca, più sceneggiata, di un viaggio alle Eolie in compagnia di un intellettuale che viene sedotto dalle telenovelas, con un indimenticabile balletto davanti alla tv. Medici, infine, è il racconto reale e tragicomico dell’odissea tra un dottore e l’altro per guarire un prurito inarrestabile, con un finale edificante che dà poesia anche a un semplice bicchiere d’acqua. Leggero, acuto, musicale, autoironico: è un Moretti che non schiaffeggia più nessuno, ma che ci mostra forse per la prima volta il lato più sorridente di sé. Premio per la regia a Cannes nell’anno che vide la Palma d’Oro a Pulp Fiction, con Clint Eastwood presidente (!).


Aprile (di Nanni Moretti, 1998)

È l’aprile 1996, e nella vita del Moretti reale si susseguono a brevissima distanza due eventi di non poco conto: prima, la nascita del primo (e unico) figlio, Pietro, e poi la vittoria, per la prima volta in cinquant’anni di repubblica, di una coalizione di sinistra alle elezioni politiche.

Il film parte memorabilmente da due anni prima, quando Silvio Berlusconi era salito al governo, e Moretti si era “per la prima volta fumato una canna” per sfuggire alla cocente delusione; in seguito, fa la cronaca degli anni tra il ’94 e il ’97 mantenendosi costantemente sul doppio binario tra vita pubblica del Paese e vita privata di Nanni, tra campagne elettorali (“D’Alema, di’ qualcosa di sinistra!”) e pannolini, tra la voglia di fare un documentario impegnato sulla politica e il rifugiarsi nel disimpegno di un “musical su un pasticcere trotzkista nell’Italia degli anni Cinquanta”.

Sin dalle musiche a base di mambo sudamericano e dall’oggi imperdonabile font Comic Sans dei titoli di testa, capiamo che quello di Aprile è un Nanni sulla scia di In vespa, allegro, autobiograficissimo e più leggero che mai. Forse fin troppo, col rischio di sfociare nell’inconsistenza, e a dimostrarlo ci sarebbero la durata fin troppo breve (un’ora e diciotto), la scelta di dare un titolo a ogni piccola sequenza del film, come fosse solo una raccolta di scenette, e una regressione a un infantilismo autocompiaciuto che dopo poco risulta irritante. “Che credete, che sia il primo figlio del mondo?”, predicava bene ne La messa è finita dieci anni prima, finendo ora per razzolare malissimo nel campo in questione.

E però, nonostante questi difetti, Aprile è anche una vetta del morettismo, sorta di Caro diario 2 in cui l’autobiografismo, l’uso della voce off, il ritorno della Vespa e il rimando al pasticcere trotzkista rendono i due film un’unica opera divisa a metà. Stavolta, per essere l’ottavo film “e mezzo” di Moretti (dove il mezzo può essere La cosa), è fellinianamente anche un film sulla voglia di fuga dalle responsabilità come regista e come uomo adulto. Nel misurare la sua vita con un metro e decidendo di concentrarsi sulle cose “che gli piacciono”, gettando metaforicamente via tutti i ritagli di giornale che lo hanno irritato negli anni, Moretti è anche incredibilmente commovente nell’insegnarci a inseguire, anche egoisticamente, la nostra felicità, magari cantando a squarciagola Ragazzo fortunato di Jovanotti.


Palombella rossa (di Nanni Moretti, 1989)

Uno dei film più coraggiosamente anomali dell’intero cinema italiano, più vicino nella sua unicità a una pièce di teatro sperimentale o alle fantasie di un Buñuel e di un Fellini che a una delle tante storie così simili e fin troppo realistiche che i registi nostrani amano raccontare.

A dimostrarlo basterebbe l’ambientazione, che per la maggior parte del film è soltanto quella inedita di una piscina durante una partita di pallanuoto, sport che Moretti ha praticato a livello agonistico per molti anni, e che all’epoca si dispiaceva di non aver ancora inserito nei suoi film tanto autobiografici.

Michele (Apicella, per l’ultima volta), però, non è solo un giocatore di pallanuoto impegnato in una partita in trasferta, ma anche un dirigente del Partito comunista degli anni Ottanta che ha metaforicamente perso la memoria. A loro volta, i personaggi che lo circondano sembrano essere ognuno un simbolo per rappresentare l’amnesia di un intero partito politico dopo la morte del padre Berlinguer e appena prima del crollo del Muro di Berlino.

Una trama che più anti-realistica non si può, di fatto la rappresentazione su un palco di un uomo che rimpiange insieme il vecchio PCI, la mamma, le merendine e i pomeriggi di maggio di quand’era bambino, e che si chiede in una sorta di seduta di psicanalisi pubblica: “Ma quanti anni sono che parlo da solo?”.

A distanza di tutto questo tempo, con il PCI che solo pochi mesi dopo avrebbe avviato il processo per cambiare nome, e con una cultura politica ormai scomparsa, i temi di attualità possono anche essere solo la testimonianza di un tempo lontano, ma rimane comunque potentissimo tutto quello che c’è intorno: l’attacco allo scadimento del linguaggio (“Ma come parla! Le parole sono importanti!”, e giù schiaffi), i momenti inaspettati di lirismo (I’m On Fire di Springsteen, E ti vengo a cercare di Battiato), e le dolorose domande esistenziali sul “cos’altro dobbiamo fare” per essere accettati dagli altri anche se diversi.

La “palombella” (rossa come la Sinistra) è il termine con cui si indica il tiro a pallonetto nella pallanuoto, e Moretti ha sempre dichiarato che fosse il gesto atletico in cui si distingueva.


Bianca (di Nanni Moretti, 1984)

Volendo dividere la carriera di Moretti in fasi, si potrebbe dire che ce n’è una generazionale e tendente al comico amaro formata da Io sono un autarchico, Ecce bombo e Sogni d’oro (1976-1981), una dell’autobiografismo puro e gioioso comprendente Caro diario e Aprile (1993-’98), e poi una matura della cupezza e della crisi costituita da La stanza del figlio, Il caimano, Habemus Papam, Mia madre e l’imminente Tre piani (2001-’21).

Bianca si può invece inscrivere nella fase di un cinema più strutturato che in passato ma allo stesso tempo originalissimo, che include La messa è finita e Palombella rossa (1984-’89), ed è una svolta importante perché per la prima volta Moretti si distacca dalle sue strisce fumettistiche di vita giovanile, e perché insieme fa capire di essere altro dai “nuovi comici” come Verdone e Troisi ai quali fino ad allora era stato accomunato.

Qui il clima infatti è piuttosto tetro, malato, da thriller, e nonostante tante situazioni e battute siano riuscite (l’istituto scolastico ultramoderno che è un monumento all’era del Riflusso, il “Facciamoci del male” rispetto all’ignoranza della Sachertorte), il personaggio di Moretti ricorda pericolosamente da vicino il De Niro alienato e ossessivo di Taxi Driver.

Come Travis Bickle in quel film, Michele Apicella è sì inserito nella società (fa il professore di matematica in un liceo), ma nasconde una curiosità morbosa per le vite degli altri, un’incapacità di creare legami (“Quando c’è un legame non puoi solo osservare, devi metterti in gioco”), e un’ignoranza quasi infantile delle convenzioni sentimentali, come quando in spiaggia si getta su una sconosciuta visto che intorno a lui è pieno di coppiette amoreggianti.

Il suo è un bisogno insopprimibile di conoscere le vite altrui (perché “io non divento amico del primo che incontro: scelgo, e quando scelgo è per sempre”) e di influenzarla a causa della propria incapacità di vivere la propria. L’arrivo di una donna, la Bianca del titolo interpretata da una magnetica Laura Morante, metterà però in crisi i suoi rituali di voyeur e il suo rifiuto del sesso affogato in enormi barattoli di materna Nutella.

Bianca è un po’ la versione più estrema e patologica di Moretti, quella in cui il suo moralismo ha un che di fastidiosamente cattolico, sessuofobo, conservatore, ma è anche un’ottima prova di equilibrio tra le risate del passato e una rarissima rappresentazione a tinte psicoanalitiche di un personaggio tutt’altro che rassicurante.


Quasi fondamentali

Ecce bombo (di Nanni Moretti, 1978)

Se questa classificazione dell’opera morettiana (in ogni caso arbitraria e discutibile) si basasse sulla notorietà e sull’importanza storica dei film trattati, sicuramente Ecce bombo rientrerebbe nella schiera dei fondamentali. Umberto Eco ha infatti scritto che “per trasformare un’opera in un oggetto di culto bisogna essere capaci di smembrarla, smontarla, scardinarla in modo da poter ricordare solo parti di essa”, e allora Ecce bombo è l’opera cult per definizione, destinata ad essere citata per decenni in mille conversazioni anche da chi non l’ha mai vista.

I film, però, non sono solo l’insieme delle loro scene più famose (“Faccio cose, vedo gente”, “Te lo meriti, Alberto Sordi!”, “Mi si nota di più se vengo e sto in disparte…?”, “Silvia, non ‘la Silvia’”…), ed Ecce bombo rivisto oggi, pur essendo straripante di inventiva, soffre anche molto della sua struttura ripetitiva e della sua povertà di mezzi.

Non si tratta infatti di una storia in senso stretto, ma di un insieme di “strisce”, sequenze spesso interlocutorie e ricche di non sequitur, che raccontano la vita dei ventenni romani del ’77, eredi svogliati dei vitelloni di Fellini persi tra autocoscienza, comuni, contestazione generazionale e fancazzismo al massimo grado.

Nanni di fatto fa Io sono un autarchico 2: il gruppetto di amici è lo stesso (con un Fabio Traversa icona sempiterna), e lo spirito pure, e non stupiscono le dichiarazioni del regista secondo cui credeva di aver fatto un film drammatico, perché sotto la patina degli sketch, è davvero così. “Stare male” è una delle frasi più usate nel film: stanno tutti male questi ventenni, e le loro case desolanti e male illuminate con dentro le loro famiglie infelici non migliorano le cose.

Ovviamente però spicca la forza del personaggio-Moretti/Michele, che seppure nel suo narcisismo esasperato (parla continuamente da solo), crea una maschera nuova nel cinema italiano che prima non esisteva.


La stanza del figlio (di Nanni Moretti, 2001)

Film spartiacque come pochi, è probabilmente l’opera più celebrata di Moretti in Italia: ha fatto piangere milioni di persone, ha riportato in auge un brano minimalista di Brian Eno, ha lanciato Jasmine Trinca come attrice, ha ricongiunto la coppia d’assi del cinema d’autore Moretti-Morante, e si è guadagnato una invidiatissima Palma d’Oro a Cannes.

Il pubblico finora aveva visto Nanni Moretti urlare nevroticamente contro chiunque per vent’anni, spesso per il puro gusto di farlo, ed ecco che la prima novità di questo film è che stavolta la sua aggressività è (quasi) scomparsa, e le nevrosi sono quelle dei pazienti del suo protagonista psicoterapeuta.

Altri segni di un cambio di passo vedono lo spostamento dell’ambientazione ad Ancona, l’abbandono dell’autobiografismo per una storia di pura finzione, e il ritorno inatteso, dopo la leggerezza di Cario diario e Aprile, a una drammaticità che si era vista forse solo ne La messa è finita.

La storia, tenendosi sul vago nel caso qualcuno non l’abbia visto, è quella di una famiglia borghese, colta e unita che viene colpita da un lutto inatteso e dolorosissimo, che spazza via ogni certezza e rischia di dividere i sopravvissuti invece che avvicinarli. Il tutto viene raccontato con un’asciuttezza rigorosa, che commuove non grazie a trucchetti da melodramma hollywoodiano, ma al contrario con la rappresentazione impietosa del dolore mai sguaiato di questa famiglia dignitosa e composta, che rifiuta ogni facile consolazione.

Personaggi di contorno finalmente veri (non solo “delle funzioni”, ma “con una loro autonomia”, come ha detto Moretti), attori famosi, un’accennata scena di sesso, imprecazioni prima mai sentite, ma anche una delicatezza inattesa per il Grande Cattivo che conoscevamo. Se però si guarda oltre la commozione inevitabile (che diventa un po’ ricattatoria se è l’unico fulcro della storia), il film è piuttosto irrisolto e privo di trama, con molti fili che rimangono sospesi, come se il regista fosse spiazzato nel costruire una classica storia “da film vero”.


La messa è finita (di Nanni Moretti, 1985)

Se Moretti (con suo grande fastidio) era stato per anni inserito nella schiera della comicità giovane degli anni Ottanta, dopo Bianca, questo film sembra essere la dimostrazione definitiva che la comicità è solo una delle sue corde, e che anzi, quando vuole essere desolante, sa esserlo di brutto.

A inizio film, sono subito tre gli choc che ci riserva: innanzitutto è per la prima e ultima volta sbarbato; poi non si chiama Michele Apicella come l’alter ego sempre usato dal 1977 all’89; e dulcis in fundo, l’ex giovane contestatore capellone adesso è un prete, con tanto di tonaca lunga stile Don Camillo.

Don Giulio, questo il suo nome, viene chiamato dopo diversi anni a gestire una parrocchia di Roma, sua città natale, perché il sacerdote precedente ha lasciato l’abito talare per mettere su famiglia, ma il ritorno tra i conoscenti di un tempo sarà una rassegna deprimente di delusioni.

Dei suoi vecchi amici con i quali faceva politica prima di scegliere la fede, uno è in carcere perché ha scelto la lotta armata, un altro è depresso dopo una delusione d’amore e si è isolato dal mondo, un altro ancora vuole convertirsi al cattolicesimo, un altro viene malmenato perché omosessuale.

Come se non bastasse, il ritorno in famiglia è ancora peggiore, con la sorella che vuole abortire e il padre che vuole lasciare il tetto coniugale per fuggire con una ragazza, e stavolta più che mai Moretti è un uomo solo contro tutti, un angelo custode con un complesso messianico che vuole portare a termine una missione salvifica non richiesta e un po’ velleitaria. D’altronde, come disse l’autore, “I miei personaggi sono tutti individui che si interessano profondamente del prossimo, entrando nel merito delle loro scelte; ho voluto un sacerdote per dare legalità Istituzionale a questo desiderio di occuparsi degli altri”, e Don Giulio come critico intransigente non è secondo a nessuno.

È la stessa insofferenza al mondo imperfetto vista in altri suoi film, ma stavolta a smorzarla mancano sia la comicità che una storia d’amore, quindi rimane solo il dramma, e non è proprio un bene: è un film dolente, pesante nel suo grigiore, nella sua desolazione, nei suoi eccessi patetici, che calca la mano con musicacce da poliziesco e dialoghi sempre sul filo tra il sincero e l’imbarazzante. Il sorriso finale davanti a un ballo felliniano sulla musica di Ritornerai, però, è sicuramente tra le cose più belle del suo cinema.


Sogni d’oro (di Nanni Moretti, 1981)

È stata attribuita a Sergio Leone la seguente dichiarazione rispetto a Sogni d’oro, terzo lungometraggio del Nostro: “Fellini 8 ½ m’interessa, Moretti 1 ¼ no”. Che sia veritiera o meno, è certo che già dopo mezzo minuto di questo film se ne intuisce la natura totalmente autoreferenziale, in cui Moretti, come Philip Roth in letteratura con Zuckerman scatenato (anche quello dell’81), usa un alter ego per raccontare una storia che è riconoscibilissima come la sua.

Come Fellini (e Bob Fosse, e Woody Allen, e altri…) aveva fatto con 8 ½, Moretti si racconta nel suo ruolo di regista che ha raggiunto il successo, che è invitato ovunque a parlare dei giovani d’oggi, che viene accusato di fare film che non parlano alle masse (vedi un bracciante lucano o un pastore abruzzese), e che dietro le pose megalomani è il nevrotico insicuro di sempre.

Basti pensare che il suo film è dedicato alla “mamma di Freud” (quest’ultimo un irrefrenabile Remo Remotti), e che il cineasta vive ancora con sua madre, maltrattata senza pietà, mentre riesce a ipotizzare un rapporto sentimentale solo quando sogna, e anche lì la vicenda finirà con una trasformazione in licantropo che cita un vecchio film di Renoir (Il testamento del mostro, 1959).

Nonostante alcuni inserti che raccontano di un’irrimediabile solitudine, con il gruppetto di amici dei due film d’esordio ormai sciolto, si tratta probabilmente del film più comico in senso stretto di Moretti, con scene da antologia come quella in cui sfida un regista rivale in un becero show televisivo stile Ciao Darwin condotto da un giovane Giampiero Mughini.

Il ragazzo col Super8 dei primi due film ora ha un budget discreto e una sceneggiatura un po’ più strutturata, e si nota: le scene sono impostante con maggiore professionalità, la cameretta stavolta è ricreata in studio, e le scene sono sì rapide, ma non quanto in passato.

Certo, è vero che tutto il film è un esercizio di presa in giro di se stesso e dei propri difetti, ma il confine tra autoironia e cedere davvero a certi narcisismi è labile, e a volte verrebbe da pensarla come Leone di fronte a un certo vittimismo da genio incompreso. Se però si passa sopra l’autoreferenzialità di chi è appena al terzo film e vuole già fare il Maestro in crisi, quella che fece dire a Dino Risi “scansati e fammi vedere il film”, le risate sono parecchie.


Non per tutti i gusti

Io sono un autarchico (di Nanni Moretti, 1976)

Tutto inizia da qui: un ventitreenne romano con una telecamerina Super8, un gruppo di amici, la Roma post-sessantottina e una storia che è più che altro una serie di sketch a metà tra autoironia e autocommiserazione.

La squadra è pressoché la stessa che farà il bis con Ecce bombo, e anche se è così giovane da avere ancora l’acne, Moretti dalle primissime battute è già il personaggio che amiamo odiare, o che odiamo amare, da quarant’anni e più. Semmai è strano vederlo, nella finzione della trama, con un figlio e una moglie, cosa che fino ad Aprile non si ripeterà né nella vita né al cinema.

Io sono un autarchico è già tra i Moretti più cattivi e senza peli sulla lingua, con stroncature spietate di Visconti e Lina Wertmuller, e allo stesso tempo un esercizio di presa in giro di sé e della propria generazione persa tra teatro sperimentale, (dis)impegno politico e poca voglia di lavorare.

L’opprimente interno delle case piccolo-borghesi è di una bruttezza unica, aiutato dalla mancanza di illuminazione scenica, e tutto è quanto di più rudimentale, lento, ripetitivo e fai-da-te si possa immaginare, ma il fatto che ci si affezioni comunque ai protagonisti (tra cui il futuro giornalista musicale Paolo Zaccagnini) e che battute come “No, il dibattito no!” o “Forse ho sbagliato ideologia” siano rimaste nel tempo, dimostra che l’originalità non mancava già allora.

Nota a margine: incredibile al giorno d’oggi sentire un idolo del progressismo come Moretti che invece de “l’uomo nero”, al figlio piccolo dice: “Quant’è brutto il negro!”.


Il portaborse (di Daniele Luchetti, 1991)

Se si escludono due parti minori in Padre padrone (1977) dei fratelli Taviani e in Domani accadrà (1988) di Daniele Luchetti, si tratta del primo film, nonché uno dei pochi, in cui Nanni Moretti appare come attore senza firmare la regia, e bisogna dire che se la cava egregiamente.

Soprattutto, si sceglie una parte che, come quindici anni dopo quando nel Caimano interpreterà in prima persona l’arcinemico Berlusconi, è decisamente inattesa rispetto alle aspettative: un odioso ministro socialista arrivista e corrotto, della stessa stirpe che nel giro di un anno sarebbe stata la causa di Tangentopoli.

Il ministro in questione è colui che assume come autore di discorsi l’idealista professore di liceo Silvio Orlando, che in quanto a valori ed etica professionale è agli antipodi, ma che in fondo si lascia anche lui conquistare da regali e favori garantiti dalla Casta.

Un film profetico in senso stretto, visto quanto sarebbe successo nel giro di pochi mesi dall’uscita, ma anche già in grado di raccontare un’Italia ancora oggi pericolosamente viva, che dileggia “le anime belle”, si vanta di non aver mai letto un libro intero, attacca il grigiore e sostiene che “i fessi dicono grazie”.

Moretti è a briglia sciolta con un personaggio che è il perfetto fascino del Male, amichevole e seducente anche quando se ne conoscono le colpe; la colonna sonora stile Elio Petri anni Settanta funziona; i movimenti di macchina sono più eleganti che nei film con Moretti alla regia, e la sceneggiatura di Rulli e Petraglia parla senza censure di RAI o DC.

Purtroppo il film si rovina da solo con una certa schematicità e una poca voglia di volare alto, e certe ingenuità buoniste come l’auto ricevuta in regalo e poi simbolicamente distrutta a mazzate appaiono di cattivo gusto.


La seconda volta (Mimmo Calopresti, 1995)

Un’altra eccezione, quattro anni dopo Il portaborse, della regola non scritta che vede Moretti recitare solo nei film di cui è regista: stavolta a girare c’è Mimmo Calopresti, e la storia è un interessante studio sul tema politico del terrorismo italiano e sui temi psicologici della vendetta e della riconciliazione.

Moretti è serio e misurato, ma comunque intrigante, nelle giacche a costine di un professore universitario quarantenne che un giorno per caso nota dall’autobus una donna trentenne (Valeria Bruni Tedeschi), donna che dodici anni prima gli aveva sparato un colpo non mortale in nome della lotta armata di sinistra.

La ragazza è infatti in carcere, ma ha il permesso di recarsi a lavoro in un ufficio di giorno, e quando Moretti comincia a pedinarla e poi ad attaccare bottone con lei come fosse un ammiratore, lei non si rende conto di avere davanti la sua ex vittima, e gli sviluppi tra i due si svelano pian piano senza svolte facilmente prevedibili.

Lui rilegge passaggi dagli scritti di Renato Curcio sulla sconfitta della generazione combattente e si lamenta che i brigatisti “sono tutti a spasso che scrivono libri”, e sembra non voler avere intenzione di perdonare: anzi, in maniera tipicamente morettiana afferma: “Non voglio fare la vittima, voglio fare il nemico”, e “Dove sono i cento che avete educato per colpire me?”.

Una bella tensione da giallo si mischia con la storia politica d’Italia, senza contare il rapporto anomalo tra ex vittima ed ex carnefice come già in La morte e la fanciulla o Il portiere di notte, in cui hanno eguale merito un Moretti molto credibile e una Bruni Tedeschi troppo innocente per il suo ruolo ma per questo capace di creare un bel gioco di ruoli per lo spettatore, che a un certo punto vede Moretti come un arrogante rancoroso e lei come una brava ragazza.

Peccato per il finale letteralmente irrisolto: gli americani in questo genere di film sono più bravi a stupirci con colpi di scena soddisfacenti.


La cosa (di Nanni Moretti, 1990)

“Champagne e caviale, spero che riuscirete a trovarmi/Perché sapete chi siamo: quelli che meritano il meglio dalla vita/E sanno quanto valgono i soldi/E quelli la cui unica disgrazia è stata avere montagne di niente quando sono nati”. Sono versi di Mountains O’ Things di Tracy Chapman, che Moretti piazza non a caso sui titoli di testa di un film che parla proprio di quel popolo degli ultimi, o dei difensori degli ultimi, che almeno idealmente era il Partito Comunista Italiano.

È il novembre 1989 e Achille Occhetto, all’epoca segretario del PCI, ha da pochissimo annunciato che il partito dovrà rinnovarsi profondamente, e che c’è addirittura la possibilità che cambi nome, come infatti accadrà nel 1991 diventando Partito dei Democratici di Sinistra.

La svolta provoca un sisma all’interno delle sezioni, e Moretti decide di girare un documentario in otto città puntando una telecamera silenziosa sui militanti che prendono la parola durante i dibattiti in sezione, i quali esprimono le loro ragioni per continuare a credere all’utopia rivoluzionaria oppure adeguarsi ai tempi.

Moretti non appare e non fa altro che montare gli interventi che più ha apprezzato, ma basta anche solo questo, perché si tratta di un ritratto – asciuttissimo e discreto – che commuove nell’offrire la testimonianza di un’epoca scomparsa, con uomini e donne normali (non c’è nessun dirigente) che credono col cuore al “bisogno di comunismo” e operai che rivendicano che “il 50% di una vettura è fatto con le mani di chi quando va a votare vota in alto a sinistra”.

Da antologia certi passaggi della sezione di Testaccio che sembrano scene tagliate di Ecce bombo: “Io mi ricordo che ero ragazzo e si diceva che l’Unione Sovietica doveva lentamente passare dal socialismo al comunismo. Ma manco er socialismo hanno raggiunto!”.


Santiago, Italia (di Nanni Moretti, 2018)

Quasi vent’anni dopo La cosa, Moretti torna eccezionalmente al documentario, e anche stavolta è un documentario politico. Si tratta infatti di un’opera che ricostruisce una storia avvenuta nel Cile degli anni Settanta, e che per una volta vede l’Italia come protagonista positiva.

A parlare sono infatti dei cittadini cileni, molti intorno ai sessant’anni o più, che nel 1973 videro il proprio Paese cadere nelle mani del sanguinario dittatore Augusto Pinochet dopo la breve parentesi del governo socialista guidato da Salvador Allende. Chiunque fosse sospettato di essere contrario al regime rischiava la tortura e la morte, e così molti militanti di sinistra, spesso ventenni, cominciarono a chiedere asilo presso l’ambasciata italiana a Santiago, sul cui territorio il governo locale non aveva potere.

La cosa divenne talmente organizzata che molti di loro furono trasportati in Italia e accolti “nell’Emilia rossa dove il 70% votava PCI”, e molti finirono per rimanere esuli in Italia per tutta la vita.

La differenza tra un prodotto televisivo e un film è probabilmente nelle piccole ma significative scelte stilistiche e morali, come quando la camera rimane fissa sugli intervistati che si commuovono (e commuovono anche noi), o quando Moretti stesso come intervistatore di un ex aguzzino dichiara: “Io non sono imparziale”.

Le immagini di repertorio con i raduni giovanili dedicati al Cile nei palazzetti dello sport dell’Italia degli anni Settanta testimoniano di un tempo di enorme partecipazione e solidarietà vera, ed è inevitabile confrontarlo con l’accoglienza contemporanea nei confronti dei migranti, tanto che uno degli intervistati dichiara tristemente che oggi l’Italia assomiglia sempre di più al Cile peggiore nel suo individualismo.

Non un documentario epocale, né qualcosa di tipicamente morettiano, ma sicuramente una bella storia che meritava di essere resa nuovamente nota.


Per completisti

Il caimano (di Nanni Moretti, 2006)

Qualcuno forse ricorderà un programma televisivo della MTV di fine anni Novanta, Celebrity Deathmatch, in cui pupazzi di plastilina con le fattezze di personaggi famosi in qualche modo rivali si sfidavano su un ring senza esclusione di colpi. Ecco: se c’è un match che almeno dalla canna fumata in Aprile in poi il pubblico italiano ha sempre immaginato, è quello tra il magnate ed ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il regista di sinistra e radical chic per eccellenza Nanni Moretti.

Moretti nel 2006 non fa film da cinque anni, ma di mezzo c’è stata l’esperienza politica dei “girotondi”, che ha riscosso una notevole partecipazione popolare, e il suo ritorno al cinema sembra essere una sfida diretta proprio alla sua nemesi a pochi giorni dalle elezioni (che Berlusconi perderà contro Prodi).

Non è però una biografia di parte sul tycoon milanese, né un ritratto dell’Italia dell’epoca: semmai, è un anomalo e malriuscito frullato di tre film diversi: la storia di un produttore di filmacci di serie C (Silvio Orlando) che accetta di finanziare un film su Berlusconi; il racconto della vita famigliare a pezzi del suddetto produttore; il film nel film, con lo stesso Moretti che interpreta Berlusconi.

Le parti tendenti alla commedia grottesca, con i dibattiti sul trash splendidamente moderati da Tatti Sanguineti, attori che si prendono magnificamente in giro come Michele Placido o spezzoni di film immaginari dai titoli quali Cataratte, sono molto divertenti e ironiche, ma poi nella storia si insinua l’elemento B., e il film cambia atmosfera.

Si parla di soldi sporchi portati in Svizzera, si vedono le immagini di Berlusconi che dà del kapò a un europarlamentare, si crea un clima quasi brechtiano e surreale che ricorda il (più volte citato) Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

Come se non bastasse, poi, segretamente Nanni parla ancora di sé pur non presente, affrontando il tema del divorzio da lui vissuto, e in fondo è anche un film sulla gelosia bruciante, sul dolore dei sentimenti, cosa inedita visto che Moretti non si era mai visto soffrire seriamente per amore.

Musiche fuori tempo, usi impropri di canzoni di Damien Rice, una fotografia che lo fa sembrare una fiction, e in generale un valore che è quasi solo quello di oggetto politico, perché cinematograficamente non è abbastanza comico da essere rivisto col sorriso né abbastanza coinvolgente da commuovere. Sicuramente entrato nella storia della cultura civile del Paese, ma ci si chiede cosa ne penseremmo se fossimo stranieri.


Habemus Papam (di Nanni Moretti, 2011)

Se del Moretti fino a La stanza del figlio (2001) si può dire che non abbia davvero mai sbagliato un colpo, gli anni Duemila (e Duemiladieci, e Duemilaventi) sono un periodo ormai piuttosto lungo in cui l’autore sembra essere decisamente cambiato, e aver perso molti aspetti tradizionali del suo cinema.

Come incantato dalle sirene della Maturità, Moretti sembra aver inseguito un’idea di cinema serio, borghese, ricco, spesso tendente al tradizionale, che è un po’ il contrario di quanto abbia fatto nel resto della sua carriera.

Ecco quindi questo film profetico (è uscito nel 2011, due anni prima delle dimissioni di Ratzinger) in cui si immagina un conclave che elegge un papa dubbioso, talmente bloccato di fronte alla responsabilità che decide di non mostrarsi alla folla ma anzi di scappare in giro per Roma per schiarirsi le idee.

Idea sicuramente brillante, come convincente è l’interpretazione del gigante del cinema francese Michel Piccoli, ma lo sviluppo della storia a partire da questo colpo di genio è quantomai piatto, in un film che sembra sempre rimanere sul bordo dei suoi temi senza andare fino in fondo.

Ecco quindi il confronto tra psicanalisi secolarizzata (nelle vesti proprio di Moretti, che evidentemente si vede bene nel ruolo) e tradizione ecclesiastica, che però si risolve bonariamente in una partita di pallavolo; ecco i rimpianti del neo-papa su una vita alternativa da attore, che però rimangono a mezz’aria; ecco la comparsa di Margherita Buy come psicanalista, che però fa appena in tempo a parlare di deficit da accudimento per poi tornare da dov’è venuta.

Ci sono sicuramente più stile, più soldi, più eleganza nella grammatica cinematografica che in tutta l’austera e spartana carriera morettiana, e certe zampate nel creare momenti magici ci sono ancora, come i cardinali che volteggiano su Todo cambia, la guardia svizzera che fuma nelle stanze del papa o Moretti che fa Moretti indispettendo i porporati col suo fare irrispettoso.

Il film, però, è un film “vero”, serio, un compitino ben realizzato, un film che potrebbe essere firmato da tanti altri registi, e questi sono forse i peggiori complimenti che si possano fare a un film di Nanni Moretti.


Caos calmo (di Antonello Grimaldi, 2008)

È il 2008 e sono passati tredici anni dall’ultima volta in cui Moretti ha deciso di recitare in un film che non fosse suo. Cosa lo abbia spinto, tra le mille proposte pervenutegli, a fare questa scelta sciagurata, è ancora un mistero.

La risposta sta probabilmente nel fatto che il film, per la regia di Antonello Grimaldi, sia tratto dall’omonimo romanzo vincitore del Premio Strega di Sandro Veronesi, il quale dev’essere tra gli autori preferiti di Moretti se è vero che a breve lo vedremo nuovamente impegnato come attore in un adattamento de Il colibrì.

Tornando a Caos calmo, gli va riconosciuto il fatto di essere un film decisamente anomalo, visto che ha un 80% di ingredienti da classica tragedia all’italiana perbene (cast altisonante, famiglie disastrate, pianti, buoni sentimenti, Ivano Fossati in colonna sonora), ma poi a sorpresa butta in mezzo una bestemmia, una donna affetta da una sorta di sindrome di Tourette, Moretti che fuma oppio, interi dialoghi (inutilmente) in francese, e una lunga scena di sesso tra Moretti e Isabella Ferrari talmente di cattivo gusto che sembra una profanazione.

La storia è quella di un dirigente d’azienda che, dopo l’improvvisa morte della moglie, sente il bisogno di stare vicino a sua figlia in età scolare, e in una mossa a metà tra The Terminal e Ricomincio da capo, per farlo si piazza ogni mattina su una panchina davanti alla sua scuola, dove come fosse un ufficio si alternano a consultarlo parenti, amici, colleghi e sconosciuti.

I duetti con attori inaspettati quali Alessandro Gassmann e Valeria Golino, così come quelli con un compare affiatato come Silvio Orlando, sono molto godibili, e fanno rimpiangere un Moretti un po’ più integrato nel cinema italiano, e anche il personaggio ha modi di dire e di fare che si staccano in modo interessante dai morettismi di sempre. Il tutto però è talmente distante dal rigore e dalla diversità a cui siamo abituati che segna quasi la rottura di un rapporto di fiducia, come se da Moretti non ci aspettassimo certe cadute nella melassa e nella volgarità che situano il film a metà tra Miracolo sulla 34ma Strada e Gola profonda.

Come sia stato convinto perfino Roman Polanski a fare un cameo è un mistero.


Mia madre (di Nanni Moretti, 2015)

Ultimo film di finzione di Moretti prima dell’atteso Tre piani (che pare annunciarsi sulla stessa linea), Mia madre è probabilmente la summa (in negativo) di quello stile “adulto” che da La stanza del figlio in poi sembra essere l’inattesa cifra stilistica del regista dopo decenni di libera e iconoclasta gioventù cinematografica.

È veramente sgradevole criticare la scelta personale di un regista che, come nel caso di Moretti, dopo la morte della propria madre voglia trasporre quell’esperienza nella sua arte, ma è anche inevitabile chiedersi se un lutto privato debba necessariamente farsi pubblico quando non è affatto in grado di elevarlo a qualcosa di universale.

Evitando l’autobiografia totale, Moretti usa Margherita Buy come alter ego, e ne fa una regista impegnata nella realizzazione di un film che si scontra con la sua vita privata, e in particolare con la malattia dell’anziana madre, un evento che sembra vivere senza mai riuscire davvero ad esprimere i suoi sentimenti in merito.

Il film è molto realistico nel rappresentare situazioni famigliari in cui tutti possono ritrovarsi, con persone normali poco avvezze ai grandi gesti melodrammatici, così come è realistica la figura della Buy, ma non se ne capisce davvero il fine ultimo se non nella trasposizione narcisistica di un proprio dolore personale, condito dalle solite famiglie divise (un tic, ormai), dalle solite autoaccuse di snobismo ed egoismo, dal solito film nel film come già in Sogni d’oro, Aprile e Il caimano.

I violini drammatici come sottofondo, la fotografia piatta da fiction di RaiUno, i dialoghi da soap opera radical chic sui libri di Lucrezio e Tacito, i dettagli macabri: tutto quello che uno non vorrebbe in un film di Moretti è qui, ed è un peccato, soprattutto visto che per anni il suo più grande merito è stato quello di farci specchiare nelle sue ossessioni.

Unico faro che brilla di luce propria: un John Turturro esilarante, che nel ruolo di una star americana compagnona porta una nota di allegria necessaria.


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