Mi consigli un film? – Vol. 35

Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.

Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se per caso sia disponibile su Netflix, Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagando per la pubblicità!).

Di seguito le recensioni di: La piscina, Naked, Rifkin’s Festival, Ran, Jurassic Park.

Via al volume 35! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)


La piscina (La piscine)

Jacques Deray, 1969

Un buon sottotitolo per questo film potrebbe essere semplicemente: “Sensualità ne abbiamo?”. Difficile infatti non individuare nel sex appeal dei protagonisti, e in particolare nella coppia principale Alain Delon-Romy Schneider (già insieme nella vita reale pochi anni prima) il principale motivo di interesse.

I due sono Jean-Paul e Marianne, intenti a godersi l’estate in una villa di Saint-Tropez dotata della rinfrescante piscina del titolo, attorno alla quale si lasciano frequentemente andare a manifestazioni di reciproco affetto. Aristocratici, belli e viziosi, un po’ eredi dei nobiluomini annoiati della Dolce vita, i due si ritrovano a sorpresa ad ospitare un vecchio amico (nonché ex amante di lei), Harry, che a bordo della sua Maserati porta anche sua figlia Penelope.

Quando alla fatidica domanda di Jean-Paul: “Quanti anni hai?”, l’apparentemente ingenua Penelope (Jane Birkin) risponde “Diciotto”, sembra che le danze possano aprirsi per un gioco di seduzioni multiple che ricorda un po’ Il coltello nell’acqua di Polanski (1962), poi rifà l’ennui dei personaggi di Antonioni e in seguito prende le pieghe più sinistre de I diabolici di Henri-Georges Clouzot (1955).

Corpi e volti bellissimi, colori brillanti, pelli baciate dal sole e dall’acqua: il film sa far cuocere così bene gli ingredienti che una prima sequenza d’amore a bordo piscina sembra apparentemente uscita da un film porno, prima che ci si renda conto che in realtà non abbiamo visto praticamente niente.

Il problema sorge quando il gioco si fa meno implicito, e lo stallo dei rapporti tra i quattro viene risolto con una trama da thriller che non porta da nessuna parte, un coitus interruptus la cui risoluzione non offre nulla di appagante, ma anzi fa domandare quale fosse il senso del resto.

Peccato: regia interessante con lente carrellate spesso mute sui personaggi persi nei loro sguardi, o con dialoghi teatrali che servono più a creare un’atmosfera che a portare avanti un intreccio, ma l’impressione complessiva è di un film che straripa di estetica senza trovare una trama all’altezza.

Ripreso molti anni dopo da Luca Guadagnino in A Bigger Splash (2015).

Naked

Mike Leigh, 1993

Preparatevi, perché non avete mai conosciuto nessuno come Johnny (David Thewlis), il protagonista di Naked. Dall’inizio alla fine del film non fa niente per farsi amare, eppure incredibilmente ci riesce: amorale, logorroico, cinico, violento, manipolatore, misogino, complottista… ma ha anche dei difetti.

Giusto per darci da subito un’idea di che tipo sarà, Mike Leigh ce lo mostra per la prima volta in un vicolo buio di Manchester mentre ha un rapporto sessuale non si capisce quanto consenziente con una donna, e subito dopo lo vediamo in fuga verso Londra a bordo di un’auto rubata.

Da quel momento, il film è un’odissea di incontri nella grande città, più grigia e ostile che mai: Johnny, trentenne senza apparente occupazione, è una sorta di filosofo senza fissa dimora, che conquista gli sconosciuti (e soprattutto le sconosciute) con la sua parlantina irresistibile, ma che poi si rivela irrimediabilmente incapace di affetto e sincerità.

Al contrario, sembra che non ne abbia per nessuno: per la sua ex, alla quale chiede un posto in cui stare; per la coinquilina di lei, che seduce e abbandona; per un guardiano notturno, al quale in una notte insonne esprime le sue teorie del complotto; per una donna sola che lo ospita a casa sua; per una coppia di svitati incontrati per strade poco raccomandabili. Tutti presi a male parole, ma con una tale arguzia nei suoi monologhi ironici che si capisce come in tanti si facciano abbindolare, imbambolati da una parlantina a metà tra Shakespeare e una di quelle sitcom irrealistiche in cui tutti hanno sempre la battuta pronta.

Thewlis dieci anni dopo si sarebbe fatto amare come Remus Lupin nella saga di Harry Potter, ma qui sa farsi odiare splendidamente in una prova da attorone teatrale (tipica del regista, che si ripeterà pochi anni dopo con Segreti e bugie), tra tirate da profeta biblico ribelle che si permette di dare del bastardo a Dio e un disturbante istinto violento e misogino.

Un film a metà tra Ken Loach, Tarantino e Lynch, crudo e violento, che ha probabilmente insegnato diverse cose a Closer (2004) di Mike Nichols in quanto a dialoghi, con musiche opprimenti in stile Philip Glass e una fotografia cupa e povera che lo fa sembrare distante anni luce dai fasti brillanti del quasi coevo Trainspotting.

Purtroppo a un certo punto il protagonista riduce le sue farneticazioni e tutto diventa un po’ troppo grottesco, tra pianti, botte e squallore, e si avvia verso un finale incompiuto. In ogni caso, per quanto imperfetto e sicuramente non per tutti i palati, il livello della scrittura è tale che sembra assurdo che sia un film sconosciutissimo, praticamente mai citato in liste, manuali e documentari sui grandi film degli anni Novanta.

Rifkin’s Festival

Woody Allen, 2020

Salvo conversioni collettive sulla via dell’uncancel culture, Woody Allen è ormai destinato a una malinconica damnatio memoriae, che lo vedrà probabilmente insultato da chi gli sopravvivrà così come al momento viene mal sopportata la sua ostinazione a rimanere in vita e – orrore – a fare ancora film.

È il caso di Rifkin’s Festival, la sua ultima prova da regista, che vede al centro l’alter ego Wallace Shawn (già grande co-protagonista de La mia cena con André), di fatto una copia carbone della tipica maschera alleniana dell’intellettuale ebreo pieno di complessi, solo in un corpo più tarchiato.

Evidentemente, vista l’impossibilità di convincere i suoi detrattori del fatto che non sia un pedofilo, Allen si è convinto che a questo punto, alla sua età non propriamente giovanile, valga la pena ironizzare sul mondo contemporaneo a colpi di battute, di fatto esaltando ogni Grande Vecchio del passato e sminuendo con mezza frase certi fragili miti d’oggi.

Per farlo, ha spedito il suo protagonista in trasferta a San Sebastián (Spagna), alle prese con una moglie fedifraga che si lascia sedurre da un giovane regista francese impegnato (Louis Garrel, bravo a giocare di autoironia sulla sua fama di bello e dannato), del quale lei dice: “L’hai sentito parlare del suo prossimo film: cercherà di riconciliare gli arabi e Israele”, e lui commenta con un laconico: “Ah, mi fa piacere questa svolta sulla fantascienza”.

La lotta tra due uomini, due generazioni e due modi di guardare la vita è però anche un’occasione per Allen per tornare su uno dei suoi giochi preferiti, quello della parodia del film d’autore, che aveva già toccato in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chiedere) (1972), in cui rifaceva Antonioni; Stardust Memories (1980), che era di fatto un remake di 8 ½ di Fellini, o Harry a pezzi (1997), chiaro omaggio al Posto delle fragole di Bergman.

In questo caso le citazioni sono più esplicite che mai, perché il protagonista è un ex insegnante di storia del cinema, e le sue fantasie ad occhi aperti o chiusi lo vedono sostituirsi di volta in volta ai personaggi di Quarto potere, Jules e Jim, Fino all’ultimo respiro, 8 ½, Un uomo, una donna, Persona, Il posto delle fragole, L’angelo sterminatore e Il settimo sigillo: insomma, la top ten dei classici del DAMS.

L’espediente di citare questi film è gustosissimo per i cinefili, ma forse le citazioni sono eccessivamente palesi e un po’ scontate, e il continuo andirivieni interrompe un po’ il flusso del film, che per il resto è un Allen in buona forma, molto più scorrevole e sonoramente divertente che in altre prove recenti.

Purtroppo, però, nella seconda parte il film finisce per buttarsi come spesso capita all’autore su storie d’amore improbabilissime e personaggi scialbi che spariscono dalla storia senza motivo, e nonostante un grande Christoph Waltz nel ruolo della Morte del Settimo sigillo, al film manca una zampata finale che lo renda più di un discreto passatempo.

Ran (乱)

Akira Kurosawa, 1985

Ran” in giapponese significa (in linea di massima) “caos”, e di caos questo film, che fu uno degli ultimi e dei più sontuosi del venerato maestro Kurosawa, è sicuramente ricco.

Castelli in fiamme? Epiche battaglie tra migliaia di samurai a cavallo? Sangue, frecce, eserciti? Tutto questo fa sicuramente parte delle tre ore di visione, ma sarebbe disonesto affermare che la polpa del film sia fatta di azione e scene spettacolari.

In realtà Ran è un’esperienza molto più ardua, che prende il Re Lear di Shakespeare e lo adatta all’epoca del Giappone feudale, con il valoroso ma anziano regnante Hidetora che lascia il potere in eredità ai tre figli, col risultato di scatenare faide famigliari, centinaia di morti e la sua stessa follia.

Come nel Padrino, sembra che la vecchia guardia abbia ancora in sé un pantheon di valori, mentre i giovani rampanti, che si chiamino Michael Corleone o brandiscano una katana, siano pronti a tradire famiglia e amici pur di regnare senza rivali. In realtà, la morale del nuovo che avanza qui è piuttosto flebile, perché lo stesso Hidetora non è particolarmente saggio, ha fatto la sua fortuna uccidendo i propri nemici senza alcuna pietà e i suoi valori non sembrano così nobili.

Il film è quindi una sorta di lunghissimo incrocio tra uno spettacolare film di guerra, con epiche scene di battaglia e scorci naturali impressionanti del Monte Fuji, e un lento e (si può osare?) decisamente tedioso dramma teatrale, in cui Kurosawa si rifà alla tradizione del teatro Nō con attori che recitano sopra le righe, enfatizzando in modo irrealistico ogni sentimento.

Kurosawa non badò a spese per realizzare il film (all’epoca fu il più costoso della storia del cinema giapponese), e basta dare un’occhiata a A.K. di Chris Marker (1985), documentario che funge da making of, per rendersene conto, ma le sue scelte sembrano perlopiù concentrarsi su scene che rinunciano all’azione per sottoporre lo spettatore a un’ardua sequenza di dialoghi funerei, che rendono difficile empatizzare con i personaggi. Non per me, mi dispiace.

Jurassic Park

Steven Spielberg, 1993

Com’è noto, Jurassic Park non è “un film”: per un’intera generazione è “il” film, quello che si è visto mille volte in VHS, quello che ha aperto gli occhi sulle possibilità del cinema, quello che ha dato vita a migliaia di iscrizioni alla facoltà di Paleontologia, quello che per anni è stato il film più redditizio di sempre.

Riguardando alla Storia senza il senno di poi, si può però dire che in realtà Jurassic Park fosse per il suo autore Steven Spielberg una scommessa precisa, un “all in” per dimostrare che a quasi vent’anni dal suo primo campione d’incassi Lo squalo (1975), il re del botteghino fosse ancora lui. Allora, le cose non stavano esattamente così: Spielberg veniva da dieci anni in cui aveva sì regnato come produttore, ma in cui, come regista, aveva infilato diverse delusioni economiche: Il colore viola (1985), L’impero del sole (1987), Always – Per sempre (1989) e perfino l’apparentemente imbattibile Hook – Capitan Uncino (1991).

Jurassic Park fu quindi un prodotto costruito al dettaglio per vincere, una macchina da intrattenimento puro, e riguardandolo si nota come in effetti sia un’opera in cui pressoché ogni approfondimento psicologico, ambizione di serietà e sviluppo narrativo siano ridotti all’osso. Al loro posto, una storia già bestseller come romanzo di Michael Crichton, l’unità di tempo di una storia in diretta, l’unità di spazio di un’isola, cattivi poco carismatici, protagonisti un po’ indefiniti di cui sappiamo poco e niente (ma abbastanza per farceli amare)… e dinosauri, tanti dinosauri.

Il fatto che a partire da ingredienti così ridotti il film tenga incollati allo schermo per due ore è la dimostrazione della magia spielberghiana, che mischia con estro i suoi due poli fondamentali: lo sguardo sognante del fanciullino di fronte al brachiosauro, accompagnato dalla musica maestosa di John Williams, che lo rende un erede di Walt Disney e David Lean; e poi la maestria sadica del regista horror che ama l’urlo dei suoi spettatori davanti al bicchiere d’acqua del T-Rex o alle cucine infestate dai Velociraptor, che lo incorona successore di Alfred Hitchcock.

A Jurassic Park non va chiesto il dramma adulto de Lo squalo, il carisma personale di Indiana Jones o la commozione sincera di E.T.: come un hamburger fatto di additivi chimici e calorie in eccesso, non sarà il massimo dell’alta cucina, ma è gustosissimo dal primo morso alla fine.

Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.

Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)

3 risposte a "Mi consigli un film? – Vol. 35"

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