Titane: donne e motori | Recensione

Si sa: un festival di cinema, soprattutto se è quello di Cannes, non ha paura di premiare film inconsueti. A volte, l’inconsuetudine significa scandalo e choc, ed ecco che, per restare su Cannes, a vincere la Palma d’oro sono film ricchi di scene affini al pornografico come La vita di Adele (2013) di Abdellatif Kechiche, oppure di violenza estrema e gratuita come Cuore selvaggio (1990), di David Lynch.

Nonostante questi precedenti illustri, però, nel vedere il film vincitore dell’edizione 2021, ovvero Titane di Julia Ducournau, viene voglia di esprimere un’affettuosa solidarietà a Nanni Moretti, che ha ironicamente affermato di essere invecchiato di colpo nel sapersi sconfitto da un film “in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac”, proprio lui che aveva reso cult le stroncature di film fantascientifici come Strange Days o splatter come Henry, pioggia di sangue.

La solidarietà non è però dovuta al fatto che il film sia brutto, ma solo al suo essere decisamente fuori dai canoni del film d’autore, e sebbene ridurre Titane a un film “in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac” sia riduttivo, e non ne rappresenti nemmeno l’aspetto principale, è indubbio che come premessa non sia la più tipica per vincere una Palma d’oro.

Titane in francese significa titanio (anche se il doppio senso con “titano” non sfugge), ed è di titanio la placca applicata al cervello di una bambina francese, Alexia, per moderare i danni di un terribile incidente stradale. È così che conosciamo la protagonista del film, ma dopo questo breve prologo la vediamo subito trentenne, impegnata a lavorare come danzatrice erotica in un salone dell’automobile, accompagnata da un sinuoso, musicale e colorato piano sequenza che sembra mischiare Scorsese e Beyoncé.

Quello che però non ci è ancora noto è il fatto che quella placca di titanio, in combo con una coppia di genitori anaffettivi, abbia creato profondi squilibri psichici in Alexia (l’esordiente ed incredibilmente coraggiosa Agathe Rousselle), che in primis è una violentissima serial killer, e in secundis prova un’attrazione erotica per le automobili.

Tutto questo non ci viene chiarito con uno spiegone da qualche dottore o detective come negli horror di una volta: semplicemente, Ducournau (37 anni, due soli film e una grande immaginazione) mostra gli eventi, e sta a noi scegliere se accettarli o meno nella loro inverosimiglianza.

Se quindi vogliamo credere al mondo apparentemente realistico ma disturbato da qualche nota scordata che il film mette in scena, allora possiamo anche accettare il fatto che Alexia stia facendo una doccia e senta dei fortissimi “passi” fuori dalla porta di casa, esca ancora nuda, si trovi davanti una Cadillac vuota ma accesa ed entri nell’abitacolo per abbandonarsi a un folle amplesso umano-meccanico in cui l’auto rimbalza sulle sospensioni come nemmeno ai tempi di Pimp My Ride.

Evidentemente però il bolide non usa anticoncezionali, e così la donna-cyborg si ritrova incinta con tanto di perdite d’olio motore, di fronte alle quali non si sa se ridere o rimanere disgustati. Sicuramente, però, solo gli stomaci fortissimi avranno il coraggio di ridere di fronte ad altre scene di violenza inflitta e autoinflitta i cui unici scopi sembrano essere il record di svenimenti in sala e il recupero internazionale di Nessuno mi può giudicare: al di là di un ammiccamento a Tarantino e Lynch, un esercizio davvero stupidamente sadico.

Sì, perché il resto di Titane è molto più delle scene choc disseminate soprattutto nella sua prima parte, che a posteriori risultano di un’estrema gratuità, e prende una forma completamente diversa nel momento in cui fa la sua comparsa Vincent Lindon, già icona del cinema transalpino contemporaneo, che nell’accettare questo copione ha dimostrato un coraggio e una versatilità ammirevoli.

Lindon interpreta il comandante di una stazione dei pompieri sulla sessantina, il cui presente vede una difficoltà ad accettare l’invecchiamento, combattuto attraverso continue iniezioni di steroidi che lo fanno somigliare all’Harvey Keitel del Cattivo tenente, e il cui passato vede un segreto luttuoso che non lo abbandona. L’incontro e l’unione, di cui non riveleremo i dettagli, tra Vincent e Alexia, è il vero fulcro di Titane, e non ha a che fare con scene choc o sangue a fiotti, bensì con un sentimento malato e cieco ma non per questo meno toccante, che a ogni scena ci mette in imbarazzo costringendoci a guardare contemporaneamente le cose in due modi diversi.

I rapporti paterni, materni e filiali che sono al centro del film sono malati ma profondi, e potrebbero ricordare La donna che visse due volte di Hitchcock nell’ossessione per il resuscitare ciò che non può tornare, e Rosemary’s Baby di Polanski nell’accettare con amore genitoriale perfino ciò che non è umano.

Rousselle si trasforma fisicamente, maltratta il suo corpo, fa dell’androginia la norma, recita senza parlare e colpisce lo spettatore allo stomaco con il suo solo aspetto come fanno certe immagini dei deportati nei campi di concentramento, de-umanizzati e de-sessualizzati, confondendoci rispetto al suo genere, alle sue intenzioni, alle sue motivazioni e alla sua innocuità.

Guardando Titane siamo obbligati a guardare per due ore un corpo respingente, che esclude ogni idea classica di divismo e bellezza femminile camuffandosi e martoriandosi, così come a osservare relazioni che generano disagio per il loro essere troppo intime e troppo diverse da quelle che siamo abituati a vedere al cinema. Nel farlo, Ducournau da una parte provoca e insegue l’estetica del brutto e dello scioccante da puro horror, dall’altra ci costringe a trovare un’inattesa bellezza interiore fatta di cura e compassione.

Si è spesso parlato di David Cronenberg nel recensire Titane, solitamente tirando in ballo Crash, che già nel 1996 univa sesso e automobili, ma con quel film freddo ed erotico il film di Ducournau non ha nulla in comune: semmai, il riferimento è alla “nuova carne” di Videodrome (1983), ma ancora di più alla sofferenza fisica e al corpo malato de La mosca (1986), con un amour fou che si deve scontrare con l’orrore.

Titane è un film che non può lasciare indifferenti, e la prima reazione quando si riaccendono le luci in sala è quella di derubricarlo a film sopravvalutato e sovrappremiato, che in fondo unisce troppi temi e troppi generi per dire davvero qualcosa al di là dell’innegabile originalità del soggetto. Col passare del tempo, però, le figure di Alexia e di Vincent non possono non rimanere impresse nel profondo, col loro carico di disperazione e di diversità, coi loro balli troppo intimi e la loro cura reciproca che sconfina nella patologia.

Quello che dispiace, a quel punto, è che il film abbia dovuto far ricorso allo choc e all’ultraviolenza per farsi notare, che si sia abbassato a confondersi con un gore qualunque per catturare la nostra attenzione, quando la stessa storia si sarebbe potuta raccontare levigandone gli eccessi e concentrandosi sulle relazioni umane e sulle dinamiche di genere, che annullano l’erotismo e la spettacolarità per ridurre tutto alla carne e alla sua concretezza brutale. Ecco così che la Cadillac, il concepimento umano-meccanico e le gravidanze bioniche che tanto hanno contribuito al gossip, potrebbero essere tranquillamente escluse dal film, e la sua essenza rimarrebbe intatta.

Per come è stato realizzato, Titane garantirà sicuramente alla regista molti spettatori incuriositi dalla fama scioccante del film, e oltre alla già citata Palma le farà guadagnare un posto sicuro nel pantheon dei giovani provocautori senza paura, ma tutto questo va solo a discapito del film, che nel suo intimo è una storia d’amore e illusione tra le più crudamente sincere della storia del cinema.

Titane di Julia Ducournau è nei cinema italiani dal 1 ottobre 2021

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