Lo spettacolo della zona grigia: perché guardiamo Squid Game

Da quando è uscita il 17 settembre 2021, Squid Game, l’ormai notissima serie sudcoreana in nove episodi scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk, ha battuto ufficialmente Bridgerton come prodotto audiovisivo più visto di sempre su Netflix nei primi 28 giorni di programmazione.

Il successo della serie ha qualcosa di ancor più stupefacente rispetto ad altre hit passate, visto che parte da premesse tutt’altro che sicure: innanzitutto è una serie coreana, un mercato in grandissima espansione negli ultimi anni (dal K-pop in musica all’incetta di Oscar a Parasite nel 2020), ma ancora poco avvezzo a una diffusione dalle proporzioni hollywoodiane; in secondo luogo, la serie sta avendo un successo globale nonostante sia disponibile doppiata in pochissime lingue, e in molti pur di vederla abbiano quindi scelto di superare quella “barriera alta due centimetri chiamata sottotitoli”, come la definì Bong Joon Ho; è poi noto che la serie non ha avuto pressoché alcuna promozione al di fuori della Corea del Sud, se si esclude un semplice trailer internazionale, basando quindi il suo successo sul passaparola e soprattutto sulle menzioni online; infine, non è l’adattamento di un testo pre-esistente, ma il frutto della dedizione di un solo uomo, Hwang Dong-hyuk, che l’ha ideata nel lontano 2008, ha visto innumerevoli rifiuti e ha finito per scriverne e dirigerne tutti e nove gli episodi solo quando nel 2019 Netflix si è interessata al progetto.

Questa anomala combinazione di premesse non ha impedito il fatto che la serie sia attualmente al numero uno dei contenuti più visti su Netflix in 94 Paesi; che sia la prima serie coreana ad essere arrivata in cima alla Top Ten negli Stati Uniti; che si vociferi già di una seconda stagione; che si parli addirittura di trarne un videogioco; che l’attrice Jung Ho-yeon sia passata da 400mila a 21 milioni di follower e sia stata assunta da Louis Vuitton; che un numero di telefono coreano intravisto nella serie sia stato bombardato da 4mila chiamate al giorno.

Soprattutto, perfino chi non ne abbia guardato una singola scena ne ha sentito parlare, visto che le home page dei social sono ormai intasate di meme, e che uno dei discorsi da macchinetta del caffè più affrontati in questi giorni sia proprio “Avete visto Squid Game?”.

Ma cos’è Squid Game? Innanzitutto il titolo (“Il gioco del calamaro”), come viene spiegato fin dalle prime immagini della serie, si rifà a un gioco per bambini coreano popolare negli anni Settanta, una sorta di mix tra “campana” e “rialzo”, in cui i giocatori si sfidano su un campo da gioco che ricorderebbe un calamaro, anche se bisogna avere davvero molta fantasia per individuarlo.

La trama, però, ha ben poco di infantile, e descrive l’odissea di 456 persone, tutte disperate in quanto a situazione economica, che vengono convinte a radunarsi in un luogo misterioso che somiglia a un campo di concentramento, ma con un arredamento che rimanda in modo perturbante ad un asilo, tra colori pastello, scivoli, scale che ricordano Escher ed effetti sonori in stile Super Mario.

Tutti vestiti in tuta, tutti identificati con un numero, e tutti sorvegliati da guardie armate e mascherate, i 456 reietti della società scoprono di poter partecipare a un “gioco” a eliminazione il cui montepremi è strepitoso: 45,6 miliardi di ₩, ovvero circa 33 milioni di euro (probabilmente la conversione di valuta più cercata nell’intera storia di Google). Il problema sorge quando i prigionieri realizzano con orrore che il “gioco” a cui hanno scelto di partecipare altro non è che una gara di sopravvivenza in vari round, e che chi non supera una prova viene barbaramente ucciso sul posto dalle guardie senza volto.

Per aggiungere orrore ad orrore, le prove che dovranno superare consistono nei tipici giochi da bambini, da un agghiacciante “Un, due, tre, stella!” a un letale tiro alla fune.

Dire di più significherebbe togliere il gusto della visione, che poi nei fatti si incentra proprio sul voyeurismo di noi spettatori (specchio di quello degli organizzatori del gioco), che dal nostro divano scommettiamo idealmente sull’uno o l’altro concorrente, e su quanto in là si spingeranno pur di vincere la partita.

Escludendo questo pur fondamentale aspetto, Squid Game si rivela come una serie tutt’altro che perfetta.

I suoi personaggi, ancora più che ne La casa di carta o in altre produzioni tendenti al pacchiano, sembrano di un’estrema bidimensionalità e teatralità, e l’idea che si possa essere sottili nel tratteggiare una figura, un dialogo o un evento sembra aliena alla serie: basti pensare al criminale tatuato senza sentimenti, alla rompiscatole arrivista e volgare, o alla dark girl dal passato oscuro che non accenna mai un sorriso. Alcune trame (come quella del poliziotto o del medico) sembrano non andare da nessuna parte, facendoci chiedere se nel budget fosse previsto un supervisore alla sceneggiatura, e altre fanno capire con qualche episodio di anticipo le rivelazioni successive. Lo stesso finale, irrisolto, fa chiedere vendetta per le nove ore trascorse davanti alla tv.

Infine, ma questo potrebbe rientrare tra i motivi che ne hanno decretato il successo, c’è una gratuita tendenza a mostrare immagini splatter che in altre serie sarebbero ingentilite, o a scene evitabili come quella dell’inatteso nascondiglio usato per le sigarette. Dulcis in fundo, quella tinta di capelli verso la fine è probabilmente la cosa più inquietante di nove episodi a base di orribili efferatezze.

Soprattutto, però, Squid Game è davvero un concentrato di stereotipi e cliché senza fine, roba che Netflix dovrebbe immediatamente inserirlo di diritto nel suo recente special Attack of the Hollywood Clichés! – L’imprevedibile classifica dei momenti più prevedibili del cinema.

C’è il reclutatore che dal nulla si presenta e sa tutto di te fino al numero di scarpe, e ti lascia un biglietto da visita che il protagonista nella notte si girerà tra le mani chiedendosi se chiamarlo; c’è l’amico d’infanzia che sembra avere una vita perfetta e poi si rivela nei guai; ci sono gli strozzini che minacciano di tagliare il naso al protagonista come al Jack Nicholson di Chinatown; c’è Sul bel Danubio blu usata con effetto straniante come per il Kubrick di 2001: Odissea nello spazio; ci sono le prove fisiche come in Indiana Jones e l’ultima crociata (1989) o Tomb Raider; ci sono cattivi mascherati e inquietanti come in Eyes Wide Shut (1999), La notte del giudizio (2013), Shining (1980) e ovviamente Guerre stellari (1977); ci sono le dinamiche di gruppo già viste ne La casa di carta o Lost, con personaggi costretti in un luogo scomodo, spesso incapaci di stare alle regole; c’è l’ambiente robotizzato, spietato e inquietante che ricorda molto da vicino l’episodio di Black Mirror “15 milioni di celebrità” (2011).

In generale, l’intera serie sembra un episodio di Black Mirror esteso a dismisura, e volendo poi rimanere nell’ambito del “gioco mortale”, la sfilza di riferimenti è infinita, partendo dai più recenti Hunger Games (2012, 2013, 2014 e 2015) o, più in senso lato, La notte del giudizio (2013, 2014, 2016, 2018, 2021), proseguendo con il giapponese Battle Royale (2000), The Game di David Fincher (1997), Senza tregua (1993) con Jean-Claude Van Damme, L’implacabile con Schwarzenegger (1987, recensito qui), via via fino al racconto del 1924 La partita più pericolosa (The Most Dangerous Game) di Richard Connell, originatore di tutto il filone.

Ma allora cosa ha fatto sì che Squid Game, nonostante tutto, riscuotesse tutto questo successo?

Sicuramente c’è, come già detto, il voyeurismo inevitabile nel voler sapere come va a finire, che in un gioco a eliminazione, sia esso all’ultimo sangue oppure Chi vuol essere milionario?, garantisce di tenere incollati allo schermo. E su questo, nell’inventare prove sempre più sadiche, mostrate senza censure, e scenari sempre più opprimenti, Squid Game non scherza. Poi, la genialità delle scenografie e del tema dei giochi, che prendono ciò che più associamo alla sicurezza e alla bontà, ovvero l’infanzia, e con toni alla Arancia meccanica li fanno scontrare con una violenza spietata, sporcando di sangue il nostro immaginario infantile e costringendoci a non guardare più con gli stessi occhi una partita di “Un, due, tre, stella!”.

C’è poi un aspetto sociologico e politico, rivendicato anche dall’autore Hwang Dong-hyuk su Variety e The Hollywood Reporter: “Volevo scrivere una storia che fosse un’allegoria o una favola sulla moderna società capitalista, qualcosa che descrivesse una competizione estrema, un po’ come è estrema la competizione nella vita”. Dunque, la rappresentazione di un disagio economico reale che si trasforma in disagio etico, soprattutto in quei Paesi come la Corea del Sud che hanno visto una crescita enorme per alcune fasce di popolazione e una scarsissima attenzione a chi è rimasto indietro nella scala sociale.

Non è un caso che l’idea sia venuta all’autore proprio quando egli stesso, nel 2008, si ritrovò al verde, e che nella trama vi sia un riferimento alla vicenda reale della lunga occupazione di una fabbrica da parte dei lavoratori della Ssangyong Motor, che si concluse in modo fallimentare nel 2009.

Un altro aspetto citato più volte parlando di Squid Game e delle ragioni del suo successo, è quello della critica spietata ai concetti di meritocrazia e di etica calvinista. Caitlin Clark, sulla rivista Jacobin, ha dichiarato che la serie “fa a pezzi il mito capitalista secondo cui il duro lavoro garantisca la prosperità”, e come argomenta il ricercatore Mark Johnson sul Guardian, si contesta l’“idea centrale implicita del mondo tardo-capitalista per cui tutto è duro lavoro, tutto è competenza, ognuno arriva dove merita in una società globale perfetta”.

In Squid Game, verrebbe da aggiungere, l’idea della meritocrazia viene sbeffeggiata due volte: prima, perché i protagonisti nonostante i loro sforzi non sono riusciti nella vita ad emergere dalla povertà; e poi, perché perfino all’interno del gioco, non esiste “un mondo giusto”, come titola un episodio. Se la voce dei cattivi, che come un Grande Fratello controlla lo svolgimento corretto delle prove, ci informa che “questo gioco è un’opportunità di giocare equamente per persone che dalla vita non hanno avuto eguaglianza”, basta poco per scoprire che non è così, e che l’abilità nel passare una prova non è abbastanza.

Innanzitutto c’è una questione di alleanze e di fortuna, e anche di genere: spesso le donne si trovano costrette a elemosinare l’aiuto di un uomo, arrivando alla prostituzione, per avere più speranze di successo in giochi di forza; in secondo luogo, alcune prove (come quello del caramello), si basano in larga parte sulla buona sorte più che sull’abilità; e infine, i prigionieri scoprono presto di potersi eliminare a vicenda senza conseguenze, e questo ripropone anche nel “mondo giusto” l’eterna legge del più forte, la legge della giungla.

Il tutto ricorda tristemente, e in modo inquietante, le dinamiche dei lager nazisti, sia nella rappresentazione concreta di un luogo chiuso con guardie assassine e centinaia di prigionieri inermi trattati come oggetti, ma anche nella riproposizione di una “zona grigia”, così come l’aveva descritta Primo Levi ne I sommersi e salvati (1986), suo ultimo libro.

“L’ascesa dei privilegiati – dice Levi –, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie”. Homo homini lupus, e la cattività innesca meccanismi di perversione degli animi che porta anche i più puri a sporcarsi, a confondersi coi carnefici, pur di sopravvivere.

Come nel “Problema del carrello ferroviario” usato in ambito filosofico, è meglio lasciare che il destino faccia il suo corso e porti all’eliminazione degli avversari, o di fronte alla mors tua, vita mea si può decidere di agire direttamente e diventare corresponsabili di un delitto? Conta più la fermezza morale e la fedeltà ai propri principi, oppure il raggiungimento di un obiettivo con qualsiasi mezzo?

Sempre rimanendo in un ambito legato all’Olocausto, forse troppo grande per una banale serie tv, il saggio di Jonathan Safran-Foer Se niente importa (2009) raccontava proprio questo dilemma, con l’aneddoto reale vissuto dalla nonna dell’autore, che da ebrea consumata dalla fame rifiutò l’offerta di un pezzo di carne perché di maiale. Davanti allo stupore del nipote di fronte a questo racconto di stoicismo, che obiettò: “Ma neppure per salvarti la vita?”, la donna rispose: “Se niente importa, non c’è niente da salvare”.

Squid Game, in fondo, nonostante i suoi tratti grossolani e la sua povertà di scrittura, è una delle opere recenti che più ci permette di metterci di fronte alla domanda “Ma neppure per salvarti la vita?” senza obbligarci a viverne personalmente le conseguenze, offrendo invece in pasto al nostro voyeurismo le conseguenze delle scelte altrui. Il suo successo in ambito di storia della televisione è sicuramente più di quantità che di qualità, ma chissà: forse un giorno potrà tornare utile nei corsi universitari di Filosofia morale.


Squid Game è disponibile in nove episodi su Netflix dal 17 settembre 2021.

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