I Rolling Stones e l’estate in cui nacque il “sesso, droga e rock ‘n’ roll”

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È l’agosto 1972, e sul canale televisivo statunitense ABC va in onda uno speciale del Dick Cavett Show, un leggendario talk show che quella sera non ha ospiti in studio, bensì un lungo servizio in esterna registrato pochi giorni prima al Madison Square Garden di New York. L’occasione è un evento tra i più chiacchierati e attesi di quell’estate: il concerto finale del tour americano dei Rolling Stones.

Nelle immagini dell’epoca, reperibili su YouTube, Dick Cavett, conduttore sempre ironico benché molto elegante e composto, si ritrova divertito e fuori posto nel mezzo del backstage del Garden, tra guardie del corpo, groupie e musicisti che fumano erba davanti alla telecamera. A un certo punto, intercettato Mick Jagger, cantante del gruppo, pone la terribile domanda: “Ti ci vedi a sessant’anni a fare quello che fai oggi?”. Jagger risponde senza scomporsi: “Sì, tranquillamente.” “Davvero? Andrai sul palco col bastone?”. Seguono risate, ma Mick non sembra affatto preoccupato all’idea, anche se quel giorno, il 26 luglio, festeggia soltanto il suo ventinovesimo compleanno.

Era l’estate del 1972, sono passati cinquant’anni e il 26 luglio Mick Jagger ha compiuto un altro compleanno, il suo settantanovesimo. Il giorno dopo era su un palco di uno stadio in Germania davanti a circa 50.000 spettatori, oltre il doppio di quelli del Madison Square Garden all’epoca, e come è noto a chiunque, continua imperterrito a cantare e ballare le canzoni dei Rolling Stones senza l’aiuto di alcun bastone.

Al giorno d’oggi, i Rolling Stones si fanno pagare bene per offrire a un pubblico sempre rinnovato il miracolo dell’Eternità, l’illusione per cui, pur con tre quinti della formazione non appartenenti alla band di cinquant’anni fa, e pur tra infinite liti e accuse di perdita d’ispirazione e avidità, qualcosa nella vita può davvero durare per sempre. In questo articolo raccontiamo di quando quel mito è nato, e di come, nel momento in cui ha creato la leggenda per tutti i decenni a venire, ha toccato anche il suo apice, diventando poi spesso ripetizione e autoparodia. Parliamo dei Rolling Stones, di Exile on Main Street e dell’estate in cui nacque la mitologia del sesso, droga e rock and roll.

Secondo alcuni, e anche secondo una docuserie intitolata 1971: l’anno in cui la musica ha cambiato tutto, distribuita su Apple TV+ nel 2021, quell’anno fu probabilmente il più ricco per l’epopea del classic rock, che nel corso di quella stagione vide il suo apice e la produzione di innumerevoli classici del genere.

Nel 1971, i Rolling Stones erano sulla cresta dell’onda da almeno otto anni, e in un periodo in cui le band duravano il tempo di una stagione o due, sembravano già dei veterani che non volessero rinunciare al gioco della musica nonostante si avvicinassero ai trent’anni. Quello fu un anno decisamente importante per gli Stones: innanzitutto ad aprile avevano pubblicato uno dei loro album più gloriosi, Sticky Fingers, con la scandalosa copertina ideata da Andy Warhol raffigurante la zip di un paio di jeans da uomo, e singoli di grandissimo successo come Brown Sugar; sempre in quell’occasione avevano per la prima volta lanciato il loro simbolo, il loro logo, la linguaccia rossa che ne sarebbe diventata l’icona sempiterna; e infine, braccati dal fisco, avevano lasciato le loro residenze inglese per trasferirsi collettivamente in Francia.

Gli Stones all’arrivo in Francia

All’epoca infatti, per il genere di guadagni che un gruppo già sul tetto del mondo come gli Stones poteva generare, il fisco britannico applicava una tassazione del 93%, e il gruppo si trovava quindi in debito di centinaia di migliaia di sterline. Piuttosto che pagare decisero di diventare esiliati di lusso, una nazione pirata del rock, e così Mick Jagger, cantante, Keith Richards, chitarrista, Bill Wyman, bassista, Charlie Watts, batterista, e Mick Taylor, chitarrista, nell’estate del ’71 si insediarono a Villa Nellcôte. Si trattava di una residenza da 16 stanze in stile Belle Époque costruita intorno al 1890 nella cittadina di Villefranche-sur-Mer, a due passi da Nizza, Costa Azzurra.

L’inquilino ufficiale della villa è Keith Richards, con Jagger che invece preferisce fare avanti e indietro con Parigi dove sua moglie Bianca è incinta, ma ben presto la casa si trasforma in una sorta di comune in cui tutti entrano, escono e si stabiliscono a proprio piacimento, diventando nel frattempo uno dei luoghi mitici del rock. Richards infatti in questo periodo è nel pieno della sua dipendenza da eroina, e come spesso capita quando di mezzo c’è un tossico con parecchi soldi, si crea rapidamente una corte di spacciatori e parassiti che, oltre alla band e a qualche moglie, fidanzata e groupie, rende il posto un ritrovo in cui non esistono regole.

Visto che si tratta dei Rolling Stones, però, e non solo di un gruppetto di ricchi edonisti, c’è anche l’esigenza di scrivere e registrare canzoni. Gli Stones quindi chiamano a raccolta un ingegnere del suono, il pianista Nicky Hopkins e il sassofonista Bobby Keys, e fanno venire dall’Inghilterra uno studio di registrazione mobile, nei fatti un camion parcheggiato nel giardino da cui escono dei lunghi cavi fino al seminterrato della villa.

Come racconta lo stesso Keith nel documentario Stones in Exile, del 2010, gli orari di lavoro, se così si può dire, erano dalle 10 di sera alle 7 di mattina: “Conducevamo un’esistenza da trogloditi. L’idea di suonare anche solo una nota prima del calare del sole ci sembrava assurda. Avevamo i ritmi di Dracula”. Il clima è decadente, le foto e i video che documentano quel periodo sanno di Decameron, di edonismo, droga e muffa, quella delle cantine labirintiche in cui l’album che sta prendendo forma viene registrato notte dopo notte.

Le foto del soggiorno francese (©Dominique Tarlé):

Alla fine il disco, che sarà un doppio con ben diciotto canzoni, viene intitolato con grande autoironia Exile on Main Street, che potremmo tradurre come “Esilio sulla via principale del centro”. Si tratta del loro decimo album, oggi il quarto più venduto della loro discografia, e si differenzia da molti altri loro dischi perché, escludendo un pezzone come Tumbling Dice, si può dire che non ci siano singoli, non ci siano hit. È un disco fatto quasi esclusivamente di atmosfera: un’atmosfera grezza, cruda, non patinata, non ripulita, con le chitarre bene in evidenza e la voce sepolta nel mix, tra rigurgiti di vecchi blues esoterici, pezzi proto-punk tiratissimi e gospel che sembrano usciti da una chiesa di Harlem.

Per contribuire a questa nuova faccia da guerriglieri di strada o vampiri decadenti, la copertina viene affidata al grande fotografo Robert Frank, ed è uno scatto in bianco e nero del 1958 intitolato Tattoo Parlor, un collage di circensi e freak piuttosto inquietanti fotografati lungo la Route 66.

Villa Nellcôte viene lasciata, soprattutto dopo che la polizia nizzarda comincia a insospettirsi per il baccano e le frequentazioni con la malavita marsigliese, e per l’estate 1972 gli Stones sono pronti a tornare a suonare dal vivo. E qui le cose si fanno interessanti, perché non si tratterà solo dell’ennesimo tour dei Rolling Stones, come se ne sono susseguiti diversi nel decennio precedente: si tratta probabilmente del loro apice come spettacolo dal vivo e insieme di un momento fondativo della storia della musica, il momento in cui il mito della rockstar e della tournée di una rock band si definisce in modo compiuto.

Qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte a questa affermazione: d’altronde se parliamo di tour sensazionali, già a metà anni Sessanta i Beatles avevano mandato in visibilio le quindicenni di mezzo mondo; già nel 1969 c’era stata Woodstock, con i suoi quattrocentomila spettatori e le sue decine di artisti già pienamente corrispondenti all’iconografia della rockstar; e nel 1972 il mondo era già pieno di chitarristi capelloni che intrattenevano folle adoranti tra teatri, palazzetti e festival.

Tutto vero, ma il tour americano del ’72 fu tutto questo e insieme qualcosa di più: fu il momento in cui quella che ormai veniva annunciata ovunque come “la più grande rock and roll band del mondo” incarnava meglio di sempre lo spirito ribelle, decadente, pericoloso e dionisiaco del rock, riuscendo allo stesso tempo a fare di tutto questo uno spettacolo da copertina dei rotocalchi. Gli Stones stavano di fatto portando il rock da fenomeno di controcultura a fenomeno di cultura, un evento dell’estate a cui tutti vogliono partecipare, proprio come succede ancora oggi a qualsiasi concerto dello stesso gruppo a cinquant’anni di distanza.

Per dire: è la prima volta che gli Stones viaggiano in aereo privato, con tanto di enorme logo della lingua stampato sulla fiancata; è la prima volta che non esistono più i Beatles, e gli Stones sono quindi ormai la massima autorità del rock, i resistenti che ancora non si sono sciolti; è la prima volta, o quasi, in cui prenotano interi piani degli hotel per poter fare il loro comodo, e l’ironia sta nel fatto che solo gli Holiday Inn li accettano perché i più lussuosi non intendono avere a che fare con i loro eccessi; è la prima volta in cui non solo le riviste specializzate di musica, ma anche giornali generalisti come Time, Life, Newsweek o Esquire dedicano copertine e lunghi servizi a un fenomeno come il rock; è la prima volta in cui personalità rispettate del calibro di Truman Capote e Andy Warhol vengono invitate dai giornali a scrivere reportage su cinque ventenni che suonano chitarre; insomma, è la prima volta in cui il rock diventa mainstream, se non addirittura radical chic, secondo l’espressione che viene coniata proprio l’anno prima sempre da Tom Wolfe.

Per capire il livello, a un certo punto si accoda al tour perfino la principessa Lee Radziwill, sorella di Jackie Kennedy, e il party finale si tiene all’hotel St. Regis, con invitati quali Bob Dylan, Woody Allen, Oscar de la Renta, Tennessee Williams e ogni genere di divo prima poco associato alla musica del diavolo.

Nel frattempo, il successo di pubblico è clamoroso: file infinite davanti ai botteghini, biglietti da 6 dollari che i bagarini rivendono a 100, centinaia di migliaia di cartoline spedite per sperare di essere tra i fortunati acquirenti, addirittura concorsi radiofonici in cui, come informa il Guardian, si invitano i lettori a dichiarare cosa sono disposti a fare per un biglietto. Il vincitore? Un tizio che promette di radersi tutti i peli del corpo e poi fumarseli.

Il tour si snoda in 48 spettacoli e 32 città, partendo il 3 giugno dal Canada per poi attraversare tutti gli Stati Uniti fino al gran finale di New York nel giorno del ventinovesimo compleanno di Jagger, il 26 luglio. Ufficialmente si chiamerà solo “1972 North American Tour”, ma ufficiosamente verrà ricordato anche come “Cocaine and Tequila Sunrise tour”, o “Stones Touring Party”, la festa mobile degli Stones, per dirla alla Hemingway. Il concerto dura solo un’ora e quindici, la scaletta è piuttosto fissa e mancano ancora tutto il gigantismo e le diavolerie spettacolari che negli anni diventeranno parte integrante di uno show degli Stones: guardando i filmati dell’epoca fa impressione vederli su un palco così piccolo, tutti vicini come una cover band a una sagra di provincia.

La musica, però, è fenomenale: dentro ci sono tutti gli Stones del periodo tardi Sessanta-primi Settanta, brutti, sporchi e cattivi, senza più nessun accenno del beat degli esordi né cadute nelle svenevolezze pop come potrà succedere in seguito (qui uno show integrale).

La band aveva terminato il suo ultimo tour americano tre anni prima, nel 1969, e da allora il mondo sembrava cambiato: l’era hippie e i suoi sogni, per quanto appena dietro le spalle, sembravano già tramontate da tempo: si dava il benvenuto a quella che pochi anni dopo lo scrittore Tom Wolfe avrebbe definito la “me decade”, Il “decennio dell’Io”.

Come scrisse Robert Greenfield, giornalista e autore di un libro reportage fondamentale su quel tour, i giorni delle star di Hollywood sembravano essere finiti per fare posto a un nuovo tipo di star, la rockstar, e visto che i musicisti erano da sempre stati considerati meno raccomandabili di qualsiasi idolo del grande schermo, questo nuovo genere di celebrità poteva essenzialmente fare apertamente ciò che i divi del cinema fino ad allora avevano dovuto fare segretamente. Nello specifico, c’è la droga: ecco quindi un giovane medico che viene reclutato appositamente per girare con una valigetta al seguito e distribuire sostanze illegali ai musicisti quando gli venga richiesto.

C’è lo scontro con la legge, con Keith e Mick che poco prima di una tappa a Boston vengono arrestati per aver malmenato un fotografo, e per evitare rivolte il sindaco della città Kevin White chiama la prigione per tirarli fuori e farli arrivare in tempo allo show. Ci sono poi decine di arresti e di feriti in varie città, negli scontri tra una polizia statunitense molto poco tollerante dei fan del rock e i suddetti fan che vorrebbero sfondare le cancellate.

C’è il sesso, con il fenomeno recente delle groupies, ragazze che sperando di arrivare al letto di Mick Jagger accettano di diventare donne di corte, per così dire, dell’intero staff che segue il gruppo. Come dice molto brutalmente il produttore Marshall Chess nel libro di Greenfield, “Quando 35 ragazze vengono al concerto per scoparsi gli Stones, e ci sono solo cinque Stones, vuol dire che ne rimangono 30, e così chiunque sia coinvolto nel tour viene accontentato”. Lo stesso Jagger, uno che si è fatto i suoi buoni sessant’anni di tournée in vita sua, ripensandoci commenta: “Sì, fu un tour piuttosto selvaggio. Ragazze, alcool, qualsiasi cosa. Perfino un po’ di rock ‘n’ roll”.

Alcune foto del tour (©Jim Marshall, Ethan Russell, Annie Leibovitz):

Non è un caso che oggi del tour rimangano due documenti cinematografici molto diversi: da una parte il film- concerto Ladies & Gentlemen, registrazione pura e semplice di una performance, e dall’altra un film underground mai uscito ufficialmente e diventato materia di culto, dal titolo molto poco commerciale di Cocksucker Blues.

Lo realizzò il fotografo Robert Frank filmando la band nei backstage e durante gli spostamenti, e perfino gli Stones furono talmente impauriti dal danno che poteva fare alla loro reputazione da impedirne la diffusione dopo averlo inizialmente commissionato. Il documentario, in un bianco e nero sgranato, viene citato anche da Don DeLillo nel suo fondamentale romanzo Underground, del 1997, e nel libro viene usato per descrivere la scena di un ritrovo di alternativi negli anni Settanta che, come in una sorta di rituale carbonaro, guarda una copia clandestina del film.

A guardarlo oggi sono soprattutto le scene con le groupies a risultare molto sgradevoli, con una ragazza che a un certo punto viene denudata sull’aereo privato degli Stones di fronte alla macchina da presa e poi si fa convincere ad avere un rapporto sessuale. Il resto è un concentrato di decadenza che vede Keith arrotolare amorevolmente una banconota per sniffare a Mick, e dice che quelle da un dollaro sono le migliori, oppure Keith e il suo compare Bobby Keys che gettano un televisore dal balcone di un albergo, o stanze in cui donne nude si iniettano eroina. Insomma, come titolò il quotidiano italiano La Stampa il 31 luglio ricapitolando la tournée, “Come gli Unni i Rolling Stones”.

Come ha detto Jagger nel fondamentale documentario Crossfire Hurricane di Brett Morgen, “Divenne non più un tour, ma un grande evento. E divenne la moda dei tour, quella di comportarsi male e indugiare nell’edonismo in giro per l’America”. Gli Stones avevano dato il la: grazie alla loro immensa popolarità, dovuta all’essere già allora tra i pochi superstiti dei gloriosi anni Sessanta, avevano creato un immaginario che poi sarebbe diventato l’immaginario per eccellenza di quell’ambiente: sesso, droga e rock’n’roll.

Non è un caso che l’anno successivo, il 1973, sarebbe stato il turno dei Led Zeppelin al Madison Square Garden, anche loro nel massimo momento di gloria, e anche loro pronti ad alzare l’asticella della decadenza in tour; non è un caso che nel 1974, dopo otto anni di assenza dai palchi, anche Bob Dylan si imbarcò in un tour nazionale che fece ovunque il tutto esaurito, ovviamente con aereo privato. Da quel momento in poi, per i concerti rock dai palazzetti si sarebbe passati molto frequentemente agli stadi, gli spettacoli (con i Pink Floyd a fare da capofila) sarebbero diventati sempre più visivi, e la controcultura del pace e amore di un tempo sarebbe stata sommersa in un mare di Jack Daniels, cocaina e incassi milionari.

Gli Stones lo avevano fatto per primi, e nel farlo avevano suonato probabilmente la loro musica migliore di sempre, riuscendo a camminare in equilibrio sul delicatissimo filo tra adorazione di massa e qualità artistica. Dal seminterrato ammuffito di una villa in Francia erano arrivati sulla copertina di Life, e da allora è capitato spesso che campassero di rendita per quel salto di popolarità fatto l’estate di cinquant’anni fa, dimenticando le cantine ma godendosi un successo sempre più ampio ed eterogeneo.

Nel farlo si sono guadagnati la gloria eterna nell’Olimpo del rock, sono diventati straricchi e hanno creato l’immaginario dissoluto e senza regole che da allora ogni ragazzino con una chitarra sogna di incarnare.

Che dire: non male per una sola vita.

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