Volendo usare un solo termine per definire La diseducazione di Cameron Post, la scelta sarebbe semplice: indipendente. Questa parola, soprattutto a partire dagli anni Novanta, apre tutto un immaginario unito da una serie di caratteristiche comuni, a volte presenti tutte insieme e a volte solo in parte, che però vedono di solito la presenza di protagonisti giovani, buona musica in colonna sonora, una certa attitudine progressista nei temi, recitazione poco hollywoodiana, sceneggiature brillanti, personaggi strambi o disadattati, stile personale e spesso artigianale, fotografia in bianco e nero/luce naturale o al contrario colori vivaci.
Per fare qualche nome di questa sottocultura cinematografica ormai riconoscibile a colpo d’occhio: Little Miss Susnshine, Frances Ha, Juno, Napoleon Dynamite, Giovani, carini e disoccupati, Clerks, Mummy, I Tenembaum, Ladybird, a dimostrazione che film anche diversissimi condividono un’attitudine di base che li riconduce a una categoria unitaria.
Il film di Desirée Akhavan (presentato – com’è ovvio – al Sundance 2018) da questo punto di vista non offre nulla di particolarmente originale: gli ingredienti citati in precedenza ci sono pressoché tutti, dai protagonisti reietti della società all’ambientazione adolescenziale, dai temi sensibili come la scoperta della sessualità allo humor nero, dall’illuminazione realistica alla colonna sonora scelta con cura.
Se però non si può parlare di un film particolarmente nuovo, va sicuramente detto che è un film ben fatto: tenero, delicato, ben scritto, commovente, comico, e ricco di una purezza che lo sguardo intimorito ma profondo di una bravissima Chloë Grace Moretz esprime alla perfezione.
Se nel 2007 l’eroina del cinema indipendente era stata la Juno di Ellen Page, teenager incinta e buffamente problematica, la Cameron Post di Moretz, adolescente gay spedita dalla famiglia in un centro di riabilitazione sessuale cristiano, si candida ad essere la sua erede nel 2018.
La storia, per quanto assurda, è tristemente verosimile, e vede la sedicenne orfana Cameron sorpresa in effusioni intime con la sua compagna di scuola Corey, e per questo costretta dalla zia fondamentalista a seguire un percorso di “conversione” a God’s Promise, una sorta di campo scuola dove altri ragazzi e ragazze come lei vengono indottrinati affinché tornino sulla via dell’eterosessualità.
Il personaggio di Chloë Grace Moretz non offre nessun facile stereotipo a partire da questo tema: Cameron non è mascolina, non è una ribelle dalla faccia tosta e solo brevemente la vediamo impegnata in scene di sesso come ne La vita di Adèle. In lei albergano ancora tutta la timidezza, la sincerità, la dolcezza di un’adolescente qualunque, con l’unica colpa di provare un’attrazione per il proprio stesso sesso.
Il campo è un circo degli orrori fondamentalista: dalla “preside” inflessibile al gay convertito che fa da animatore, tutti intenti con strategie educative da pelle d’oca a inculcare nei giovani, alcuni più e altri molto meno convinti, l’innaturale voglia di andare contro la propria natura.
Una pecca del film è forse da trovare nel fatto che le storie di Cameron e dei suoi nuovi compagni di strada rimangano piuttosto sospese, senza che nella maggior parte dei casi il cosiddetto “arco narrativo” dei personaggi riservi particolari sorprese o che i conflitti si risolvano in modo compiuto come probabilmente sarebbe successo in un film di matrice più hollywoodiana.
A metà tra il dramma e la commedia, il film è il Ladybird di quest’anno: piccolo, irrisolto, senza una linea narrativa forte, ma capace di lasciare una traccia positiva e di forte compassione e amore per i suoi strambi personaggi. Ah, e c’è una scena musicale basata sul superclassico anni Novanta What’s Up dei 4 Non Blondes che è una delle migliori cose viste quest’anno.
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