Beautiful Boy: l’altra faccia di Trainspotting

“La vita è quello che ti capita mentre sei impegnato a fare altri progetti”: le parole di Beautiful Boy, canzone composta da John Lennon per suo figlio Sean, sembrano descrivere bene la storia di questo film tratto dall’omonimo libro di David Sheff diventato un bestseller nel 2008.

I progetti sconvolti dalla vita sono quelli dello stesso Sheff, giornalista di successo su diversi magazine statunitensi, dal New York Times Magazine a Rolling Stone, che nonostante un’esistenza apparentemente perfetta ha visto suo figlio Nic, diciottenne, diventare un tossicodipendente apparentemente irrecuperabile.

Il film di Felix van Groeningen racconta questa storia vera col giusto mix di realismo e pathos, e per farlo può contare sull’apporto di due protagonisti eccezionali, Steve Carell e Timothée Chalamet, rispettivamente nella parte del padre sconfortato e del figlio preda di demoni più forti di lui.

Chalamet, dopo il successo globale di Chiamami col tuo nome, si dimostra il giovane attore del momento, e la sua interpretazione è inappuntabile nel rappresentare un giovane uomo diviso tra due anime, un Jekill/Hyde che da figlio e fratello modello può trasformarsi in un concentrato di autodistruzione senza soluzione di continuità.

Steve Carell, da parte sua, regge benissimo la sfida proponendo un padre fin troppo ideale, pressoché perfetto nel rapporto con suo figlio ma mostrato in tutta la sua impotenza nel capire e salvare chi non è più un bambino ma un uomo libero dal suo controllo parentale.

Una casa da ricchi, due adorabili bambini avuti dal secondo matrimonio con un’artista, un talento per la scrittura, i college migliori per suo figlio: tutto sembra a portata di mano per David Sheff, ma il film fa onestamente la sua parte nel descrivere come tutto possa essere spazzato via senza una ragione apparente, senza colpe specifiche che possano dare un motivo d’essere al vuoto incolmabile di suo figlio.

Beautiful-Boy-poster-with-Carell-and-Chalamet

Seppur con un’impronta chiaramente più hollywoodiana, il David Sheff di Steve Carell ricorda in qualche modo il Nanni Moretti de La stanza del figlio: entrambi uomini razionali, di successo, senza macchia, che vengono messi alla prova dalla vita nella sfera emotiva, quella degli affetti più cari. Lo strappalacrime è tenuto a bada, controllato come controllato è Sheff padre nei suoi rapporti con gli altri, e non si fa della facile psicologia per cercare di spiegare i motivi che spingono il figlio a gettarsi su eroina e metanfetamine.

Un film del genere rientra tra quelli che fin dalla sinossi risultano prevedibili nel loro sviluppo, e sicuramente non ci si può aspettare una commedia nera né un caleidoscopio d’azione come poteva essere Trainspotting vent’anni fa: il massimo che gli si può chiedere, una volta accettate le premesse, è non trascendere nel sentimentale eccessivo.

Nel complesso un film che affronta un tema spinoso – le morti per droga sono la prima causa di decesso per sotto i 50 anni negli Stati Uniti – senza lacrime facili: vederlo significa sapere a che tipo di film si va incontro, non gli si chieda di essere qualcos’altro.

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