Mi consigli un film? – Vol. 2

Bene, visto che questo spazio è all’insegna dell’informalità e della libertà, ho già deciso di cambiargli nome. Quindi addio Diario di uno spettatore, benvenuto Mi consigli un film?. Perché magari i film visti in questi giorni con grande frequenza finiranno, ma anche un film visto parecchio tempo fa, e magari poco noto, si può consigliare, no? (Anche se, nel caso di oggi, si tratta di tutti film visti di recente durante la reclusione forzata)

Bene, come sempre ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicato in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.

Via al volume 2! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)


Schegge di follia (Heathers)

Michael Lehmann, 1988

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Il titolo italiano farebbe pensare a un thriller, ma evidentemente è un vizio degli adattatori italiani quello di associare alla pazzia le commedie adolescenziali, visti altri esempi come Fuori di testa (in originale Fast Times at Ridgemont High, 1982) e Fusi di testa (Wayne’s World, 1992).

Non che il titolo statunitense fosse più comprensibile: le “Heathers” sono infatti tre liceali chiamate Heather, che costituiscono la cricca più snob, arrogante e potente di una scuola d’élite, e che più di qualche compagno di classe vorrebbe vedere morte. Cosa che in effetti potrebbe succedere, grazie alla collaborazione di due ragazzi-immagine della gioventù bruciata anni Ottanta: Wynona Ryder e Christian Slater. Sì, li avete già visti da vecchiotti in Stranger Things e Mr. Robot, ma qui, agli esordi, erano davvero fighi, lei appena reduce dalla dark girl di Beetlejuice e lui intento a fare le prove generali da duro per Una vita al massimo.

La commedia è tutto fuorché banale, non risparmia sberleffi grotteschi né ai genitori, né ai professori né ai giovani protagonisti, il linguaggio è curatissimo a seconda di chi parla e i dialoghi in alcuni casi sono tuttora scioccanti nel loro prendersi libertà notevoli con humor nero e riferimenti spinti. Niente a che vedere con Maial College o simili, però: semmai è l’antesignano di epigoni successivi come Ragazze a Beverly Hills (1995) e Mean Girls (2004), inserendo ingredienti inaspettati in quella che poteva essere una banale commedia adolescenziale con due belli e dannati. Peccato si perda nel finale.

Dracula il vampiro (Dracula)

Terence Fisher, 1958

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Certo, c’era già stato il Dracula interpretato da Bela Lugosi (1931), e ci sarebbero poi stati il Nosferatu di Klaus Kinski (1979) e il Dracula di Gary Oldman (1992), ma è indubbio che per un’intera generazione il volto di Dracula sia stato uno: quello di Christopher Lee. Noto alle cronache nerd per i ruoli di Saruman nel Signore degli anelli e del Conte Dooku in Guerre stellari, Lee ha avuto una carriera sterminata, ma non è un caso se per ben dieci volte ha interpretato il famoso conte transilvano.

Questa è la sua prima apparizione nel ruolo, e fu il successo del film a rendere possibili i molti seguiti e spin-off che si trascinarono per una quindicina d’anni. Il film di per sé non è straordinario: agli occhi di uno spettatore contemporaneo c’è la bellissima fotografia, i costumi e le scenografie, ma la paura è davvero poca, e non per l’assenza di sangue. Il fatto è che abbiamo ormai visto davvero troppe parodie di questo Dracula che più classico non si può, con i canini, l’aglio e i paletti di frassino, e di fronte all’originale si fa fatica a prenderlo sul serio.

Detto questo, Lee è un perfetto mix tra nemico demoniaco per i suoi avversari e dongiovanni irresistibile per le sue vittime di sesso femminile, che sembrano non vedere l’ora di incontrarlo nel cuore della notte. Come spesso capita, in questo primo capitolo il suo ruolo è ancora solo secondario, e lo si vede piuttosto poco, ma quando si mostra, il magnetismo non manca. Per il resto, è un perfetto esempio di horror in technicolor della premiata scuderia Hammer, casa di produzione britannica che negli anni Sessanta fece la sua fortuna con riadattamenti gotici ricchi di colori saturi e fanciulle dai corsetti parecchio stretti. Qui una selezione fatta dal British Film Institute dei loro migliori film https://www.bfi.org.uk/news-opinion/news-bfi/lists/great-hammer-horror-film-every-year e qui l’ottima canzone che nel 1978 Kate Bush gli dedicò: “L’horror della Hammer non mi lascia in pace/Per la prima volta in vita mia lascio le luci accese”:

Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles

Chantal Akerman, 1975

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Si tratta di uno di quei film di cui bisognerebbe far attenzione a parlare solo dopo un po’ che lo si è fatto sedimentare, perché la sua radicalità è tale da spingere a reazioni che potrebbero includere l’interruzione dopo 20 minuti, la visione a velocità triplicata o il “Ma che motivo c’era di farci un film di tre ore e un quarto?” (Potrei aver fatto ricorso a una o più reazioni citate).

Il fatto è che, così come in arte ci sono opere contemporanee che valgono molto più per la loro forza dirompente a livello concettuale che come esempi di “bellezza” in senso classico, lo stesso si può dire di Jeanne Dielman…, che lo si ami o meno. E in quanto a forza dirompente ce n’è, visto che questo film è la cronaca dettagliatissima, spalmata in più di tre ore e con lunghissime inquadrature fisse, di tre giorni di vita di una casalinga vedova che… non fa niente. O almeno: non fa niente di quello che di solito i film raccontano. In realtà la vediamo cucinare, rassettare, lavarsi, apparecchiare, rifare il letto, uscire da sola per un caffè, e ogni gesto è rappresentato quasi nella sua interezza, in tempo reale. Fidatevi, l’attesa per un caffè che sale non sarà mai così lunga come può sembrarlo in un film, dove, come per stessa ammissione della regista, “un minuto vale come cinque nella vita reale”.

Già di per sé, quindi, il concentrarsi su questi compiti fino a poco tempo fa considerati per sole donne è un atto politico femminista, nonché una realizzazione amplificata di quel “cinema fatto di niente” teorizzato da Cesare Zavattini, che solo in parte aveva preso vita nella sua collaborazione con De Sica. Inoltre, la protagonista è Delphine Seyrig, star del cinema francese, già attrice di Resnais e Buñuel, della quale si innamorava anche Antoine Doinel in Baci rubati, e a detta della regista la sua scelta è stata proprio dovuta al fatto di mettere al centro della scena qualcuno che notiamo mentre fa qualcosa di ordinario. Nel caso di una sconosciuta, lo spettatore avrebbe potuto ignorarla così può essere capitato di ignorare una casalinga nella nostra vita mentre svolge i lavori di casa, quasi fossero parte integrante di lei.

Ma non è tutto, perché 1) Jeanne, oltre a fare la massaia, fa anche la prostituta con un cliente al giorno tutti i giorni, e questo ci fa interrogare sulla sua personalità per il resto apparentemente invisibile; e 2) la sua vita basata sull’ordine, la banalità e la ripetizione ossessiva può essere sconvolta dal minimo cambiamento, con conseguenze enormi.

Che dire? Un film che invita a cercare approfondimenti online e interviste agli autori è sempre un film interessante, anche se (evito spoiler) si potrebbe obiettare al trattamento degli uomini, e anche se durante la visione uno avrebbe preferito morire. Ma la figura di Jeanne, con i suoi vestiti demodé, la sua casa tappezzata di orrenda carta da parati e il suo sguardo enigmatico, quasi robotico, è sicuramente un personaggio che resta nella memoria. E se avete bisogno di capire come si cucina una fettina panata, è validissimo come tutorial.

Miriam si sveglia a mezzanotte (The Hunger)

Tony Scott, 1983

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Restiamo in tema vampirismo, questa volta in salsa moderna: un po’ come in Intervista col vampiro, anche qui i protagonisti sono in grado di vivere per secoli, e non sorprende quindi che siano degli eleganti abitanti di New York assetati di sangue.

Eleganti forse non è la parola giusta, perché quando come terzetto di protagonisti si hanno David Bowie in piena era Let’s Dance, Catherine Deneuve in una delle sue rare sortite hollywoodiane e una giovanissima (e molto sexy) Susan Sarandon, sarebbe più corretto parlare di epitome del cool, di non plus ultra della classe. E classe da vendere come creatore di ambienti e inquadrature ha anche Tony Scott, fratello di Ridley che pur all’esordio si dimostra in grado di imbastire atmosfere horror eteree, tra colombe alla Blade Runner e scene lesbo-softcore.

Il film, da questo punto di vista, sembra il prototipo di tutto il patinato anni Ottanta, con sequenze (come quella, ottima, iniziale) che sembrano un videoclip e un generale senso di “leccato” e algido che permea ogni oggetto e ogni faccia.

Purtroppo la trama, pur nella sua riflessione sul tempo, la mortalità e il desiderio, perde d’interesse dopo poco, Bowie è in scena molto meno di quanto servirebbe, e il tutto si riduce più a un trionfo di bellezza superficiale (di corpi, luci, ambienti) che a una storia con un suo interesse.

West Side Story

Jerome Robbins e Robert Wise, 1961

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Che dire? Uno dei titoli più noti non solo della tradizione del musical, ma dell’intera storia di Hollywood, che a breve tornerà a far parlare di sé visto che Steven Spielberg in persona ne sta preparando un remake.

La trama, se fossimo obbligati a sintetizzarla in una frase a effetto come facevano ne I protagonisti di Robert Altman, sarebbe piuttosto semplice: Romeo e Giulietta tra le gang di New York negli anni ’60, con canzoni e balletti. Alla fine non c’è molto altro: ragazza ama ragazzo, ma lei è portoricana e sorella del leader degli Sharks, che si contendono il dominio delle strade con i Jets, e lui, pur riluttante, sta con i rivali: non può che finire in tragedia.

Quello che lo ha reso un film di grandissimo successo è il modo in cui tutto questo prende vita: innanzitutto con la musica di un grande genio del Novecento, Leonard Bernstein, perfetto anello di congiunzione tra musica classica, jazz e accessibilità pop; poi con le coreografie magniloquenti delle gang in azione, girate con modernissimo dinamismo; poi con la fotografia, che rende i vicoli luccicanti e sfrutta perfettamente l’ambientazione urbana per passare dalla realtà al sogno; infine con i testi di Stephen Sondheim, che non hanno nulla di scontato e manierista nell’infarcire una storia d’amore di politica e sociologia.

C’è solo un però… Non fa per me. Si può apprezzare un film a livello formale e non riuscire ad esserne affatto coinvolti, forse perché è troppo demodé, forse per una propria scarsa affinità col musical, e questo è un caso palese in cui arrivato all’intermezzo (sì, c’è l’intermezzo) ne avevo già abbastanza.

Mi consolo con questa versione di “Somewhere”, che non posso fare a meno di considerare infinitamente più emozionante rispetto a quella cantata dalle voci trillanti e perfette del film:

Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)

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