Leggere Anne Frank al tempo del coronavirus

Prendiamo subito il toro per le corna: prima di questi giorni, non avevo mai letto Il diario di Anne Frank. Certo, lo conoscevo di fama. Conoscevo piuttosto bene la storia dell’autrice. Ne conoscevo la faccia. Avevo visto il film da ragazzino. Sono passato davanti al museo che porta il suo nome. E poi ho letto Se questo è un uomo. Ho letto L’amico ritrovato, Maus, I sommersi e i salvati. Ho visto Schindler’s List, Il pianista, La vita è bella, Notte e nebbia. Ho visto le 10 ore di Shoah, il documentario-monstre di Claude Lanzmann fatto di sole interviste ai sopravvissuti dell’Olocausto. Ho letto Lo scrittore fantasma di Philip Roth, in cui oltraggiosamente si immagina un’Anne Frank adulta scampata ai campi, ma che come Elvis o Jim Morrison non si è più fatta trovare (“Ero l’incarnazione dei milioni di anni non vissuti rubati agli ebrei trucidati. Era ormai troppo tardi per essere vivi. Ero una santa”). Ho letto Di chi è Anne Frank? di Cynthia Ozick, influente saggio comparso nel 1997 che denunciava la continua manipolazione fatta nel tempo di questa figura ormai più iconica che reale.

Eppure, non avevo mai letto Il diario di Anne Frank. Forse perché non mi era capitato di leggerlo da studente, forse perché (molto stupidamente da parte mia) lo giudicavo troppo letto da chiunque, troppo femminile, troppo infantile o perfino troppo triste.

Francamente, anche il fatto di scrivere Anne invece di Anna mi sarebbe sembrato innaturale, visto che per tutta la vita l’ho chiamata col suo nome italianizzato, ma solo ora, dopo averne letto e riletto il nome reale decine di volte come firma alle sue pagine di diario, non mi sembra lezioso, ma anzi rispettoso usare la variante straniera.

La storia credo sia nota a tutti, nei dettagli o meno: Anne Frank, nata nel 1929 in Germania in una famiglia di fede ebraica, fu prima costretta ad emigrare in Olanda a pochi anni d’età, e poi, nel 1942, quando cominciarono le prime deportazioni di cittadini olandesi verso i campi di sterminio, si nascose insieme alla famiglia in un alloggio segreto di Amsterdam per sfuggire alla persecuzione nazista. In questo luogo, che ospitava in totale otto persone tra suoi famigliari e altri clandestini, rimase dall’estate del ’42 a quella del ’44, quando una soffiata anonima fece sì che le SS scoprissero il nascondiglio e deportassero i presenti. Anne morì di tifo a Bergen-Belsen nei primi mesi del 1945, e di quelle otto persone solo suo padre, Otto, tornò vivo.

La storia sarebbe tragica ma dimenticata se non fosse stato per l’abitudine di Anne di scrivere un minuzioso diario, cominciato pochi giorni prima dell’inizio della clandestinità e proseguito fino a tre giorni prima dell’arresto. Quel diario, scampato alla perquisizione dei nazisti, fu dapprima conservato da una conoscente di Anne, e poi restituito a suo padre alla fine della guerra, che nel 1947 decise di pubblicarlo.

Complice una pièce di Broadway andata in scena nel 1955, e un film del 1959, il libro divenne un bestseller internazionale, la figura di Anne Frank si trasformò in un simbolo della Shoah, e il testo divenne rapidamente una lettura molto frequente per gli scolari di tutto il mondo.

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Quello che mi ha spinto a leggere il Diario solo ora, dopo aver superato da un pezzo i giorni della scuola dell’obbligo, è il fatto che – com’è normale per chi è vissuto nell’agio della libertà tutta la vita – questo periodo di isolamento causa coronavirus è per molti una novità fonte di ansia e malumore, e volevo 1) confrontarmi con un’esperienza molto lontanamente affine seppur infinitamente più gravosa e 2) obbligarmi a rendermi conto di quanto le nostre lamentele, pur legittime, siano in realtà sproporzionate se messe in un contesto più ampio.

Certo, c’è chi ha perso dei cari, chi è in prima linea negli ospedali, chi è positivo e aspetta terrorizzato la guarigione, chi ha perso il lavoro o rischia di perderlo, ma non parlo di queste persone. Mi riferisco ai tantissimi che, per loro fortuna, del virus hanno colto solo un riflesso in forma psicologica, senza conseguenze dirette salvo l’isolamento in casa, e che sentono su di sé il peso della solitudine, della noia o dell’immobilità persistente.

Credo che per tutti loro, la lettura del Diario sia utile e benefica, e per tre ordini di ragioni. In primo luogo, per fare la conoscenza, grazie al miracolo della scrittura, della figura di Anne, che si rivela una compagna nella solitudine e una giovane donna stupefacente al di là della sua tragica fine.

La sua ironia precoce, la sua tenerezza adolescenziale, le sue osservazioni sull’ottusità degli adulti, le sue posizioni assolutamente moderne su matrimonio ed educazione sessuale, la sua consapevolezza nel voler essere una scrittrice per poter vivere oltre la propria esistenza terrena: tutto la rende un personaggio interessante al di là del suo destino. Philip Roth, nel suo Lo scrittore fantasma (1979), faceva dire al protagonista che se Anne Frank fosse sopravvissuta, il suo diario sarebbe stato una semplice lettura per ragazzi, mentre con la morte ha acquisito la forza necessaria per aprire gli occhi alla gente e diventare la martire di una religione senza santi.

Per quanto sia innegabile la potenza che il “finale non scritto”, ovvero la deportazione e la morte, abbia nel gettare su ogni pagina, anche la più frivola, un’ombra di gravità, si potrebbe comunque dissentire sul fatto che Anne Frank, per come la sua memoria è giunta a noi, fosse una ragazza come tante.

In secondo luogo, leggere il Diario in questi giorni vuol dire toccare con mano il sacrificio di una clausura vera, che in caso di violazione non prevede una multa ma la morte, e che non dura un mese ma due lunghi anni. Confrontare questa “guerra” con quella Guerra, al tempo non casuale ma voluta, non naturale ma frutto dei peggiori istinti umani, è probabilmente una buona maniera per ridimensionare i nostri attuali sacrifici e goderci la possibilità di affacciarci al balcone, cucinare una pizza artigianale, fare tutto il rumore che si vuole e sapere che questa volta l’intera umanità è coalizzata con noi, non contro di noi.

Certo, la paura non manca anche ora, e sicuramente colpisce leggere passaggi come questo, tristemente attuale: “La gente fa la fila per comperare la verdura e un sacco di altri articoli. I dottori sono pieni di lavoro, nelle strade rubano i loro mezzi di trasporto, negli ospedali non ci sono più posti per i malati contagiosi, le ricette per lo sciroppo te le danno per telefono”, o questo: “non voglio rinfacciare niente ai dottori, in fondo abbiamo tutti due sole mani e di questi tempi ci sono troppi pazienti e pochi medici. […] I pazienti dell’ente assistenziale non vengono più guardati dall’alto in basso, ma a quelli che non hanno niente di grave si dice: ‘Che cosa sei venuto a fare qui, mettiti in fondo alla fila, precedenza ai malati veri!’”.

Ma poi, subito dopo, si parla di bombe da mezzo milione di chili, di Gestapo, di telefoni pubblici smontati per essere rivenduti, di surrogati del caffè, di scarpe rotte e ciabattini che fanno attendere quattro mesi. E questo basterebbe a rassicurarci sul nostro privilegio.

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In ultimo, leggere il Diario oggi è utile per lasciarsi trasportare dall’incredibile forza d’animo, dalla capacità di resistenza e perfino dall’umorismo della narratrice e protagonista, che se, come è più che normale, affronta dei momenti di disperazione, lascia anche trasparire un entusiasmo, un’empatia e un’ironia che sarebbe bello prendere a esempio.

Come scrive lei stessa, “non penso alla miseria, ma alle belle cose che restano ancora oggi. E’ qui, soprattutto, la differenza tra me e la mamma. Il suo suggerimento contro la depressione è ‘Pensa a tutta la miseria del mondo, e sii contenta che non sia toccata a te’. Io invece dico: ‘Esci nei campi, nella natura, al sole. Esci e cerca di ritrovare la fortuna dentro di te; pensa a tutte le belle cose che crescono dentro e attorno a te e sii felice’”.

E’ chiaro che la questione di Anne Frank come innocente fanciulla che crede nella bontà intrinseca dell’uomo sia stata più volte sviscerata e decostruita, frutto di una semplificazione del suo carattere complesso soprattutto a opera di che ne ha tramandato la voce, ma anche leggendo il libro (possibilmente nella sua versione integrale) con sguardo consapevole, non si può non notare quanto eroismo ci possa essere anche nel buonumore e nell’ottimismo.

Come è stato fatto notare, quel buonumore può durare solo fino alla fine delle pagine del Diario, a cui manca un finale omesso per necessità ma a noi purtroppo noto. Questo non vuol dire, però, che proprio con la consapevolezza di una “guerra” che ci richiede sacrifici molto minori, per quanto apparentemente durissimi, possiamo fare tesoro dell’esortazione a cercare una nota positiva anche in giornate che sembrano tutte uguali, e confidare in una risoluzione vicina.

Nel caso di Anne Frank, pur con tutte le cautele prese, pur dopo due anni di sacrifici e privazioni e pur con tutto l’ottimismo e la resilienza, non è servito a nulla. La sua fine tragica è stata dovuta a un informatore e a un regime folle, contro i quali ogni precauzione fu inutile. Nel nostro caso, abbiamo la fortuna innanzitutto di vivere una versione infinitamente più leggera dell’isolamento, e l’ulteriore fortuna di sapere che il nostro “sacrificio” avrà un effetto diretto sulle probabilità di tornare presto a una vita quanto più normale. Non disdegniamo questo privilegio, e se ci viene la tentazione, rileggiamo o (come me) leggiamo Anne Frank: quantomeno saremo meno soli.

“Che cosa dovrebbe fare uno a cui sia capitata tutta la miseria? E’ perduto. Al contrario trovo che dopo ogni conflitto resta qualcosa di bello, a ben guardare si vede sempre più felicità e si torna a essere equilibrati. E chi è felice renderà felici gli altri, chi ha coraggio e fiducia non dovrà mai sprofondare nella miseria”.


Immagine di copertina: Eduardo Kobra, murale, Amsterdam.

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