Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.
Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.
Via al volume 4! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Luna di fiele (Bitter Moon)
Roman Polanski, 1992
La carriera di Roman Polanski è un’alternanza piuttosto puntuale di piccoli e grandi film, trionfi e cadute di stile: negli anni Settanta, per un successo come Chinatown (1974), c’è un pasticcio come Che? (1972); negli anni Ottanta, per un Frantic (1988) c’è un Pirati (1986); a cavallo del millennio, per un Pianista (2002) c’è una Nona porta (1999). Secondo questa classificazione arbitraria, negli anni Novanta il “grande” film di Polanski sarebbe La morte e la fanciulla (1994), serio dramma di impianto teatrale con echi di dittatura, e il “piccolo” film Luna di fiele (1992).
In realtà le cose forse sono meno banali, e Luna di fiele si dimostra un ibrido interessante tra melodramma erotico che sfiora il ridicolo involontario e racconto intrigante volutamente spinto al di là del buon gusto. La trama vede due coppie su una nave da crociera che casualmente fanno conoscenza, fino a che tra loro non si instaura un legame perverso. La prima è formata da due giovanissimi e impeccabilmente british Hugh Grant e Kristin Scott Thomas pre-Quattro matrimoni e un funerale, noiosetti e dalla vita sentimentale poco movimentata. La seconda è invece molto più rock’n’roll, ed è formata da un Peter Coyote paralizzato in carrozzella (bravissimo) e una Emmanuelle Seigner che oltre ad essere altrettanto brava interpreta probabilmente uno dei ruoli più sensuali della storia del cinema (affermazione forte, ma sfido a smentirmi).
Il marito della seconda coppia prende Grant come confidente, e gli racconta in flashback tutte le vicissitudini del rapporto di passione e sottomissione (a ruoli alternati a seconda delle circostanze) che ha sviluppato con la moglie parigina, mentre il giovane bravo ragazzo ascolta sperando di sedurla a sua volta. Non andrà benissimo.
Sadomasochismo, crudeltà gratuita, esibizionismo, umiliazione, esagerazioni varie: c’è di tutto e tutto all’insegna della poca eleganza, ma non è affatto male e tiene incollati fino alla fine.
Saludos Amigos/I tre caballeros (Saludos Amigos/The Three Caballeros)
Jackson, J. Kinney, H. Luske, B. Roberts, 1942/N. Ferguson, C. Geronimi, J. Kinney, B. Roberts, H. Young, 1944
L’ispirazione per la visione di questi due film (qui riuniti viste le grandi similitudini tra loro) è venuta dall’avvento di Disney+, la nuova piattaforma di streaming dell’Impero del Topo, ormai titolare di un semi-monopolio in quanto a produzioni cinematografiche.
Basti pensare che al momento la Disney detiene i diritti su: tutta la sua produzione, ovviamente (cartoon e film); la saga di Guerre stellari; l’universo Marvel; i film Pixar; la National Geographic; le serie tv di Disney Channel; la serie di X-Men; i Muppet; l’intera produzione della Twentieth Century Fox.
Questi due film fanno chiaramente parte della lista, e rientrano tra i primi esperimenti che, negli anni Quaranta, Walt Disney e i suoi animatori effettuarono per mischiare cartoon e realtà, una tecnica che in seguito avrebbe dato vita a classici quali Mary Poppins o Chi ha incastrato Roger Rabbit?.
In entrambi i casi l’ambientazione è l’America Latina, e i motivi che spinsero lo zio Walt a fare questa scelta fu di natura politica ed economica: il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti gli aveva regalato un tour di quei luoghi per promuovere una politica di buon vicinato, e gli fece avere dei prestiti per favorire la realizzazione di film che si facessero apprezzare sia dagli stessi abitanti locali che dai cittadini statunitensi.
Il risultato, in entrambi i casi, è un pot-pourri un po’ noioso e ripetitivo – superati gli 8 anni d’età – di balli brasiliani, gauchos argentini, tucani colombiani, aeroplanini cileni e lama peruviani, con l’inserto di personaggi già notissimi quali Pippo e Paperino accolti da nuove creazioni come José Carioca.
La trama è solo una collezione di scenette, ma i colori vividi dell’animazione evocano ancora un mondo paradisiaco, e Aquarela do Brasil in colonna sonora già qui è una bellissima fantasia di evasione sognante quarant’anni prima che Terry Gilliam la usasse in Brazil.
L’ora del lupo (Vargtimmen)
Ingmar Bergman, 1968
Nel 1968 lo svedese Ingmar Bergman è all’apice della sua fama di venerato maestro, parte di una sorta di tridente d’attacco del Cinema d’autore anti-hollywoodiano formato da lui, Fellini e Kurosawa come campioni dell’arte contrapposta al vile commercio, in staffetta con altri bomber dell’aggrovigliato quali Antonioni, Resnais e Buñuel.
Tra loro, Bergman è probabilmente il più implacabile nel rappresentare senza ritegno ogni possibile luogo comune del “film d’autore palloso”, variando tra un reverendo depresso in crisi mistica (Luci d’inverno, 1963), un’attrice che ha smesso di parlare (Persona, 1966), una donna moribonda assistita dalle sorelle (Sussurri e grida, 1972) e un cavaliere medievale che ha perso la fede (Il settimo sigillo, 1957). In realtà si può dire che non abbia colpe, perché è lui stesso che ha inventato questo “genere” prima che diventasse un cliché, ed è indubbio che l’abbia esplorato con vette di maestria e grande forza emotiva.
In questo caso, però, forse perché sotto pressione per il successo dei film precedenti (un po’ come Fellini nello stesso periodo con Giulietta degli spiriti), realizza un film che sembra quasi auto-caricaturale nello spingere troppo su malessere interiore, visioni da incubo, dialoghi surreali e paesaggi spettrali.
La storia è quella di una coppia che si ritira a vivere su un’isola poco abitata (guarda caso, come aveva fatto Bergman stesso): lui è un pittore che sta pian piano diventando vittima delle sue allucinazioni, e la moglie incinta cerca di assisterlo con poca fortuna.
Alcune scene sembrano anticipare il Lynch più onirico, o echeggiare il Resnais de L’anno scorso a Marienbad, e prese singolarmente hanno una grande forza visuale (il direttore della fotografia è il grande Sven Nykvist), ma l’insieme è troppo sfilacciato e irreale per coinvolgere davvero. Grandi (come sempre) Max von Sydow e Liv Ullmann, in ogni caso.
Il diario di Anna Frank (The Diary of Anne Frank)
George Stevens, 1959
Ho affrontato l’argomento della lettura del Diario di Anna Frank in questi giorni di isolamento forzato in un altro post recente, ma per dovere di completezza ho pensato di riguardare anche il film che ne fu tratto nel 1959.
All’epoca i fatti narrati erano distanti 15 anni, e i testi scritti dalla giovane Anne, rinchiusa per due anni in un nascondiglio segreto perché ebrea nella Amsterdam occupata dai nazisti, erano già molto noti al grande pubblico. Nel 1947 c’era stata la prima edizione olandese grazie all’impegno del padre di Anne, Otto, e nel 1955 l’opera aveva avuto un boom di notorietà grazie a una versione teatrale che aveva commosso Broadway.
Il film, più che un adattamento del Diario, è una trasposizione cinematografica del testo teatrale, e la differenza non è da poco, perché ne riprende tutta l’attitudine zuccherosa e fin troppo sognante che contribuì a distorcere parzialmente l’immagine dell’autrice nel corso degli anni.
Basti pensare che dell’orrore successivo alla scoperta del nascondiglio da parte dei nazisti – la deportazione nei campi di sterminio e la morte in condizioni disperate di sette degli otto rifugiati – non viene mostrato nulla, come a voler mantenere il messaggio più universale possibile e a rendere il film potenzialmente adatto a un pubblico più giovane e sensibile. Gli attori si salvano, ma tre ore sono veramente troppe.
Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line (Walk the Line)
James Mangold, 2005
Film che per molti è stato la porta d’ingresso per conoscere una figura mitica della musica americana come Johnny Cash, e che invece personalmente non avevo mai visto fino a questi giorni pur essendo un grande ammiratore del personaggio di cui si narra la vita.
Cash, però, in realtà ha vissuto più vite come musicista: prima gli esordi insieme ad Elvis e Jerry Lee Lewis negli anni Cinquanta, quando diventò protagonista del country infarcendolo di testi su fuorilegge e peccatori; poi il rilancio di mezz’età a fine anni Sessanta con il live At Folsom Prison registrato in prigione, i duetti con Bob Dylan e uno show televisivo tutto suo; in seguito, un lunghissimo periodo da dimenticato, ridotto a beniamino di un pubblico di anziani repubblicani; e infine, a partire dal 1993, il grande ritorno sulle scene con una serie di album rigorosi e acustici che lo decretarono idolo dei giovani alternativi e Padre nobile del rock.
Di queste vite, questo film biografico interpretato da Joaquin Phoenix nel ruolo principale esplora purtroppo solo le prime due, e sceglie di farlo mettendo al centro della scena la vita sentimentale di Cash, che negli anni Sessanta instaurò una complicata storia d’amore con la cantante June Carter (qui una Reese Whiterspoon premiata con l’Oscar) finendo per sposarla e restarle accanto tutta la vita.
Il risultato fa sì che purtroppo Cash ne esca come una sorta di ingenuotto poco capace, tenuto a galla dal potere salvifico dell’amore ma altrimenti privo di apparente talento al di là della grande voce. Certo, Phoenix in alcuni momenti lo imita alla perfezione, e il rapporto sentimentale non è affatto smielato, ma il focus sulla love story e sui difetti del protagonista (le droghe, l’adulterio) fa sì che rimanga poco del suo talento e del suo carisma. Peccato: in ogni caso, un ascolto di American IV: The Man Comes Around rimedierà.
Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)