The Last Dance: l’ultimo valzer di Michael Jordan

Arrivato su Netflix il 20 aprile con la campagna promozionale delle grandi occasioni, il documentario in 10 episodi The Last Dance si propone di diventare il testo di riferimento sull’epopea di Michael Jordan, dei Chicago Bulls e in generale del basket statunitense degli anni ’80 e ’90.

Un po’ come per Better Call Saul, Netflix ha scelto la modalità di distribuzione scaglionata nel tempo, quindi chi spera di fare una scorpacciata di dieci episodi tutti insieme dovrà aspettare la fine di maggio, perché fino ad allora saranno solo due per volta gli episodi che usciranno ogni lunedì.

Per ora ho visto solo le prime due ore distribuite, ma si può già dire che il prodotto abbia tutte le carte in regola per soddisfare chi ama questo genere di documentari d’alta fascia, in cui i soldi per le riprese d’epoca non mancano e si hanno intervistati da niente come Barack Obama, che con un tocco di grande umorismo come didascalia sotto al suo nome non ha “ex presidente degli Stati Uniti”, ma “ex residente a Chicago”.

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Anche la narrazione, coi suoi andirivieni temporali e la creazione di una suspense da “ultima occasione”, più simile a un film di fiction che a un documentario, con buoni, cattivi e ostacoli apparentemente insuperabili, ha tutto il necessario per incollare allo schermo anche chi non ha idea di cosa sia un pivot, come le grandi storie di sfide e rivincite sanno fare.

La storia comincia nel 1997: i Chicago Bulls sono La squadra degli anni Novanta, e Michael Jordan è il loro profeta. In un’epoca in cui gli Stati Uniti cominciavano timidamente a fare la conoscenza del calcio, ospitando per la prima volta i Mondiali nel 1994, l’NBA era una macchina da soldi inarrestabile, e qualche congiunzione astrale aveva fatto sì che in campo giocassero contemporaneamente alcuni dei più grandi campioni di quello sport, tutti nella stessa epoca.

Non è un caso che la squadra statunitense alle Olimpiadi di Barcellona del 1992 non vinca, ma stravinca la medaglia d’oro, e sia ancora oggi ricordata con due parole in seguito forse abusate ma mai come allora appropriate: Dream Team. Michael Jordan, Scottie Pippen (Chicago Bulls), Magic Johnson (Los Angeles Lakers), Larry Bird (Boston Celtics), tra gli altri, formavano le colonne della squadra, e per gli appassionati l’occasione era ancora più rara perché si trattava della prima volta in cui partecipavano alle Olimpiadi i professionisti dell’NBA invece dei giocatori legati alle università.

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A livello di campionati, i Bulls vengono letteralmente trasformati dall’arrivo del novellino Jordan nel 1984: da mediocri poco considerati, senza nemmeno un titolo in bacheca e con giocatori a quanto pare più dediti alle droghe che agli allenamenti, nel corso degli anni Ottanta costruiscono la squadra attorno a lui e all’alba dei Novanta sono pronti al dominio assoluto.

Dal 1991 al 1997, cinque campionati in sette anni, una popolarità globale immensa che va oltre gli appassionati (vi dice niente Space Jam, 1996?), e arrivati all’ottobre 1997 l’inizio del campionato e la voglia di fare l’impresa conquistando il sesto titolo.

C’è però un problema: i giocatori dei Bulls, pur essendo campioni in carica, sono arrivati a fine ciclo per motivi anagrafici, cominciano a perdere partite su partite e i manager del Toro di Chicago fanno chiaramente capire che sarà l’ultima stagione sia per l’allenatore Phil Jackson che li aveva portati alla gloria sia per i campioni apparentemente intoccabili.

Il coach, arrivato ai ferri corti con la proprietà, viene informato sin dall’inizio che il suo contratto non verrà rinnovato nel 1998 (anche nel caso dovesse improbabilmente vincere il titolo), e decide quindi di informare i giocatori che la stagione 1997-’98 avrà un nome: sarà l’ultimo ballo, “The Last Dance”.

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Le vicende di quel campionato partito come sfida si intersecano con interviste recenti ai protagonisti, da Jordan in persona al presidente dell’epoca Bill Clinton, garantendo come solo i documentari danarosi sanno fare testimonianze gustose e apparentemente sincere da tutti i coinvolti. Non c’è solo questo, però: alle vicende del 1997, ben coperte da una troupe che ebbe accesso pressoché illimitato agli spostamenti dei Bulls, si aggiunge anche una parallela ricostruzione delle carriere dei giocatori, con filmati di quando erano agli albori, interviste ai parenti e agli allenatori del liceo, nonché sorprendenti rivelazioni sugli ambienti spesso poverissimi e senza speranza dai quali provenivano.

In alcuni momenti, quando Jordan da studente fa la lavatrice o scrive alla mamma, sembra infatti di rivedere Hoop Dreams, film documentario di Steve James presentato al Sundance Festival del 1994, da noi poco noto ma molto apprezzato e premiato negli USA.

In quel caso, come fosse un Boyhood del basket, venivano seguiti per alcuni anni i sogni e le speranze di due liceali reclutati dalle università a causa del loro talento come cestisti, e si mostrava sia la potenza salvifica del gioco per chi viene dai ghetti più poveri d’America, sia la bruciante delusione di tutti quelli che non diventano Michael Jordan ma sono costretti a tornare nell’anonimato dopo una fugace illusione.

Una storia di sconfitta che fa da perfetto contraltare a una storia di successo come quella di Jordan e dei Bulls. Per chi è interessato, il film è per intero su YouTube, in italiano:

Per il resto, aspettiamo le altre 8 puntate di The Last Dance: se manterranno le promesse, c’è tutto il necessario per una grande storia.

The Last Dance – La stagione finale dei Chicago Bulls di Michael Jordan è su Netflix. Foto: Netflix

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