Nel 1977, la NASA lanciò le sonde Voyager 1 e 2, che tuttora vagano nello spazio profondo dopo aver superato Urano. Rispetto ai lanci spaziali precedenti, però, gli astronomi statunitensi guidati da Carl Sagan si premurarono di inserire nella navicella dei piccoli “messaggi in bottiglia”: due dischi di rame placcati in oro contenenti immagini e suoni terrestri provenienti da ogni parte del pianeta, e perfino da epoche passate, che avrebbero fatto da “biglietti da visita” per eventuali incontri con civiltà aliene.
Un messaggio del presidente americano Jimmy Carter, come nota d’accompagnamento, recitava: “Questo è un regalo da parte di un piccolo e distante pianeta, un frammento dei nostri suoni, della nostra scienza, delle nostre immagini, della nostra musica, dei nostri pensieri e sentimenti. Stiamo cercando di sopravvivere ai nostri tempi, così da poter vivere fino ai vostri”.
E’ un peccato che la sonda Voyager e i suoi “Golden records” abbiano lasciato l’atmosfera nel 1977, perché se avessero aspettato solo cinque anni, agli scienziati della NASA non sarebbe stato necessario fare una selezione di immagini e suoni, e avrebbero potuto semplicemente includere un VHS di Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio.

Nato a New Orleans nel 1940, Reggio ebbe un avvio professionale sicuramente singolare: dai 14 ai 28 anni fu infatti un confratello della Congregazione dei Fratelli Cristiani di Santa Fe, e passò questo tempo tra digiuno, silenzio e preghiera. Negli anni Settanta fu tra i fondatori di una ONG con scopi educativi, e fu in questa fase che collaborò per la prima volta con il filmmaker Ron Fricke, realizzando insieme una campagna televisiva di sensibilizzazione sulla tutela della privacy rispetto alle nuove tecnologie.
Dopo la campagna, Reggio e Fricke, rimasti con 40mila dollari da investire, decisero quindi di passare i successivi sette anni a cercare in diversi luoghi degli Stati Uniti immagini “che avessero un bell’aspetto” e a montarle, fino a completare nel 1982 un film di 83 minuti completamente senza dialoghi, impreziosito in colonna sonora da una serie di composizioni cicliche e ipnotiche firmate dal mago dell’avanguardia minimalista Philip Glass: Koyaanisqatsi.
Koyaanisqatsi potrebbe apparentemente essere definito un documentario, ma sarebbe una parola riduttiva, perché non ha l’intento di mostrare un luogo preciso, un fenomeno naturale o un contesto umano, bensì fonde tutto questo in una sorta di sinfonia visuale, in cui naturale e artificiale, movimento e stasi, si confrontano continuamente tra somiglianze e contrasti.
Il titolo è una parola nella lingua degli indiani d’America della tribù Hopi, e significa “vita senza equilibrio”, “vita folle”, “vita che richiede un altro stile di vita”. Essendo queste traduzioni l’unico momento scritto del film (compaiono prima dei titoli di coda), è chiaro che, anche senza una sola parola di dialogo, il film ha un messaggio piuttosto chiaro, che punta il dito contro lo stile di vita della contemporaneità e in particolare sembra confrontarlo con la perfetta armonia della natura.
Se però sulla carta questo messaggio potrebbe essere l’ennesimo spot di Greenpeace, il risultato è più che altro un trip allucinogeno simile al Live at Pompeii dei Pink Floyd o a 2001: Odissea nello spazio, con le musiche misticheggianti di Glass che creano un sottofondo perfetto a immagini a volte estremamente lente e solenni e a volte schizofreniche nelle loro fughe astratte di colori sullo schermo, che rendono un’auto in corsa solo una scia di luce rossa.
Non si trattava della prima volta nella storia del cinema per questo genere di esperimento: già negli anni Venti erano usciti film muti che esploravano, tra il solenne e il rocambolesco, l’espansione metropolitana dell’epoca, ed ecco quindi Berlino – Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann (1927), Manhatta di Charles Sheeler e Paul Strand (1921), L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov (1929) e Rien que les heures di Alberto Cavalcanti (1926). Senza dimenticare che Fantasia di Walt Disney (1940) faceva della musica un elemento centrale per guidare immagini che spesso sfuggivano alla narrazione per creare veri e propri quadri in movimento.
Per attualizzare quelle “cinesinfonie”, Reggio e Fricke (che fece da direttore della fotografia) usarono due tecniche opposte: il ralenti e il time-lapse (allora pressoché sconosciuto), e ne fecero i trucchi costanti del film, mostrando le onde dell’oceano a bassissima velocità oppure le auto che diventano puntini colorati impazziti sulle strade di Chicago. I contrasti non sono però solo tecnici, ma riguardano anche i soggetti raffigurati, e quindi il film si trasforma in una sorta di cartolina per alieni degli interi Stati Uniti, dalle aree più vuote e silenziose a quelle più popolose e caotiche, dalla Monument Valley ai grattacieli di New York, dalle cascate del Niagara all’aeroporto di Los Angeles.
Se in Caro diario Nanni Moretti sognava di fare un film “fatto solo di case”, Reggio sembra in parte accontentarlo, dedicando diversi minuti a panoramiche, dettagli e riprese aeree di edifici, alternando l’eleganza avveniristica dei grattacieli del centro alle enormi case popolari fatiscenti del Bronx che sorgono tra la spazzatura.
Ma i contrasti e le similitudini non si fermano qui: nel film si può osservare l’affollamento inaudito delle scale mobili della metropolitana o dei centri commerciali e, attraverso un montaggio che sarebbe piaciuto a Ėjzenštejn o agli autori di Blob, subito dopo vedere una fabbrica che produce salsicce che scendono allo stesso modo su simili guide automatizzate.
Dalle immagini più pure e spettacolari capita di passare a un altro tipo di spettacolarità e bellezza fatta di facce grottesche al rallentatore, gente che si ingozza nei fast food, palazzi in demolizione, razzi che volano in cielo solo per esplodere poco dopo, in quella che sembra essere una costante dimostrazione della caoticità e caducità della vita umana e del suo intervento sul pianeta.
Pur trattandosi di un’opera assolutamente sperimentale, destinata solo a pochi festival di nicchia, la pellicola finisce sotto gli occhi di Francis Ford Coppola, che se ne innamora e decide di appiccicarci il suo “presents”, che ai tempi vale parecchio. Ben presto il film trova una sua distribuzione, occupa per settimane i cinema d’essai, viene proiettato al Radio City Music Hall davanti a seimila persone così come al Palazzo dei Congressi dell’EUR, e finisce per incassare milioni di dollari a partire da quei 40mila di budget iniziale.
Il successo è tale che dopo altri sei anni, nel 1988, ne esce un seguito, Powaqqatsi (“vita in trasformazione”, ma anche “vita che consuma le forze vitali di altri esseri per promuovere la propria vita”), questa volta dedicato alla parte di mondo che dal primo era rimasta esclusa. Sullo schermo scorrono Brasile, Egitto, Hong Kong, India, Kenya, Nepal, Perù, e il film si alterna tra visioni idilliache di un’esotica Arcadia dai costumi sgargianti e la contemporanea realtà del lavoro sfiancante in miniera, dello sfruttamento minorile, della povertà assoluta.
Stavolta il tono è più vicino a un documentario etnico della National Geographic, con immagini più cristalline, musiche meno ansiogene (ma più belle) sempre di Glass, e allo stesso tempo una dose minore di sperimentalismo e psichedelia a favore di una critica del Primo mondo che per sopravvivere ha bisogno delle vite sacrificabili del Terzo.
Koyaanisqatsi era figlio dell’epoca dell’Earth Day, della nascente ecologia, dell’”ipotesi Gaia” (ovvero di un pianeta come organismo vivente) di James Lovelock e di film di fantascienza come 2022: I sopravvissuti, in cui gli uomini del futuro prima di morire avevano il privilegio di guardare un filmato delle meraviglie naturali della Terra ormai scomparse.
La visione di Reggio sembra promuovere una decrescita felice, anche se come è stato scritto in tempi di pandemia, solo chi gode di uno stile di vita abbastanza protetto dalle devastazioni della natura può permettersi di romanticizzare un ritorno all’Arcadia in cui la tecnologia e la scienza non lavorino al fine di proteggere l’umanità su larga scala.
Reggio tornerà a comporre un terzo capitolo della trilogia solo nel 2002, in un mondo ormai completamente trasformato dall’avvento del digitale, da Internet e da un clima di controllo e bellicosità dopo l’11 settembre: da qui, la scelta di intitolarlo Naqoyqatsi, ovvero “vita come guerra”, o “violenza civilizzata”.
Il tema della tecnologia imperante è affrontato anche dal punto di vista stilistico, perché questa volta circa l’80% delle scene sono state realizzate con materiale video d’archivio preso nei grandi archivi di stock o da immagini televisive, e poi manipolato con effetti vari. Purtroppo stavolta il risultato è difficile da apprezzare, perché ne esce un peggio della videoarte più demodé, con effetti visivi di solarizzazione costante ed elaborazioni virtuali invecchiate molto peggio delle immagini dal vivo riprese con luce naturale di vent’anni prima.
Nel frattempo, però, la lezione iniziale di Koyaanisqatsi ha spinto il direttore della fotografia di quel film, Ron Fricke, a tentare come unico autore la strada della cinesinfonia, che ha seguito dando vita a una nuova trilogia iniziata col mediometraggio Chronos nel 1985, e proseguita nel 1992 con Baraka e poi nel 2011 con Samsara.
Chronos, come già dal nome, più degli altri sembra un viaggio nelle varie fasi della civiltà umana, e quindi tra le immagini appariranno prima i canyon statunitensi immersi nel silenzio e senza ombra di uomini, e poi le piramidi d’Egitto, Pompei, Stonehenge, le cattedrali francesi, San Pietro, la Scala di Milano, con l’arte che sembra farla da padrona, fino alla contemporaneità con i battelli sulla Senna che sfrecciano accelerati come in un autoscontro.
Baraka è invece una parola che significa “benedizione” in arabo, ed è stato girato in 152 luoghi di 25 paesi diversi (qui tutte le location), ad abbracciare per la prima volta tutto il mondo in un lungometraggio anche stavolta senza dialoghi. A differenza di Reggio, Fricke collabora non con Philip Glass, che col suo mix di sintetizzatori, organi e cori forniva un sottofondo ingombrante e onnipresente, ma con Michael Stearns, che preferisce invece un tocco più discreto e a volte quasi impercettibile nello stile della Music for Airports di Brian Eno.
Infine Samsara (2011), ovvero “l’inarrestabile ruota della vita”, è una sorta di attualizzazione di Baraka con temi e location simili, anche qui coinvolgendo ben 25 nazioni. Si potrebbe definire uno splendido susseguirsi di sfondi per PC, perché ormai il livello di perfezione delle immagini è totale e i movimenti di macchina più accurati, ma sia Samsara che il suo predecessore sembrano più artefatti, si capisce che c’è una collaborazione maggiore da parte dei soggetti filmati, e questo fa perdere un po’ di mistero, di autenticità che in Reggio erano più tangibili.
C’è anche più attenzione agli animali, che nella Trilogia Qatsi non si vedevano se non con l’uomo accanto, e che in questo dittico si fanno coprotagonisti insieme all’uomo e ai paesaggi, mostrandosi sia in natura che in sequenze davvero impressionanti girate negli allevamenti intensivi, in cui pulcini, polli e maiali sono parte di un’enorme catena di montaggio senza pietà volta al consumatore finale, vale a dire noi che guardiamo.
Un altro aspetto interessante di Samsara, che segue Baraka di vent’anni e Koyaanisqatsi di trenta, è che solo dopo diversi minuti, quando per la prima volta arrivano le immagini delle metropoli, abbiamo l’impressione di essere nel (quasi-)presente, altrimenti il resto del mondo, tra natura e sottosviluppo, non apparirebbe diverso nel 1982, nel 1992 o nel 2011.
La stessa cosa si può dire per le sequenze che nei vari film sono ambientate in fabbrica: gli operai, con le loro tute e i loro movimenti ritmici sempre uguali nei tre decenni, ci ricordano che si tratta di un genere di lavoro forse dimenticato e ignorato, ma ancora presente e pressoché identico anche nell’era dell’ultratecnologia e della robotizzazione pervasiva.
Ognuno di questi film sembra infatti trasmettere un perverso senso di abbondanza, di enormità, di spreco, in cui tra miniere, discariche, aeroporti, centri commerciali e incroci del traffico sembra sempre di trovarsi in quelli che Marc Augé aveva definito nonluoghi, enormi contenitori senza personalità in cui l’assembramento di persone e di oggetti è la norma.
Tra la Mecca e Chartres, tra i funerali di Varanasi e le fabbriche di bambole gonfiabili di Tokyo, l’intera epopea di questi sei film sembra essere riassunta dalla scena iniziale e finale di Samsara, in cui alcuni monaci tibetani realizzano con estrema cura un complessissimo mandala di sabbia per poi distruggerlo e riportarlo allo stato di polvere colorata: una metafora della transitorietà dell’uomo e del mistero del senso della sua esistenza che vale per ognuno di questi straordinari poemi di musica e immagini in movimento.
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