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“La Natura è un tempio dove colonne vive
lasciano a volte uscire confuse parole;
l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
che l’osservano con sguardi familiari.
Come echi lunghi che da lontano si fondono
in una tenebrosa e profonda unità
vasta quanto la notte e quanto la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.”
Queste parole di Charles Baudelaire, tratte dalla poesia Correspondances, sono del 1857, ma benché scritte con più di un secolo di anticipo potrebbero essere un perfetto accompagnamento alla poetica del regista polacco Krzysztof Kieślowski.
In particolare, sembrano adattarsi molto bene alla sua Trilogia dei colori, ovvero Film blu, Film Bianco e Film Rosso, che vide la luce tra il 1993 e il 1994 e si impose rapidamente come una delle opere cardine del cinema d’autore di fine millennio.
Misterioso, mistico e lirico, il cinema di questo regista ha infatti spesso indagato temi quali il caso, il destino e le corrispondenze segrete tra gli eventi della vita di persone diverse, e i suoi film disseminano indizi ermetici, “confuse parole” e “foreste di simboli”, come direbbe Baudelaire, che i personaggi attraversano ignari. Il suo è un cinema di non detto, di mistero, di sincronicità junghiana, di lirismo e spiritualità non necessariamente religiosa, che potrebbe avere dei parziali antesignani in Bergman e Dreyer, e negli anni successivi avrebbe trovato un altro profeta in Terrence Malick, che infatti usufruirà delle musiche del compositore dei Tre colori.
Kieślowski sarebbe morto a causa di un’operazione al cuore nel 1996, a soli 54 anni, lasciando orfano un pubblico ormai sempre più affascinato da questo polacco burbero e assurto agli onori della fama in tarda età, e la Trilogia dei colori, da lui terminata due anni prima di morire, sarebbe quindi rimasta il suo testamento artistico.
La carriera di Kieślowski era iniziata negli anni Settanta come documentarista e autore di film per la tv nazionale polacca, girando poi alcuni lungometraggi che fino a tutti gli anni Ottanta erano però rimasti invischiati nelle censure del regime comunista e avevano raramente varcato i confini del suo Paese. Nel 1988, poi, la realizzazione dei dieci mediometraggi televisivi del Decalogo, un’opera di tale potenza e originalità che subito lo aveva imposto sulla scena internazionale valendogli le lodi di gente come Stanley Kubrick.
Il titolo faceva riferimento proprio alle Tavole della legge dell’Antico Testamento, ma senza nessun Charlton Heston in tunica o aperture del Mar Rosso: i dieci episodi erano infatti tutti ambientati nella contemporaneità in un complesso di cupi palazzoni sovietici di Varsavia, e utilizzavano i comandamenti come temi di partenza per storie di dubbi morali, scelte e amari scherzi del destino.
Come scrisse la giornalista Irene Bignardi, si trattava di un cinema “sull’”inferno dell’etica” […], in un mondo dove Dio si è levato di torno da un pezzo e il peso di ogni scelta morale è affidato alle fragili spalle degli uomini”.
Lo stesso Kieślowski spiegò che, immaginando un unico complesso di condomini come sede di diverse storie, “Il Decalogo è un tentativo di narrare dieci storie di dieci o venti individui, i quali si accorgono improvvisamente che stanno girando in tondo, che non stanno ottenendo ciò che vogliono”, probabilmente perché come tutti noi sono “diventati troppo egoisti, troppo innamorati di noi stessi e dei nostri bisogni, ed è come se tutti gli altri fossero in qualche modo scomparsi in secondo piano”.
La serie fu un successo di critica, apprezzata perfino dal Vaticano nonostante l’ateismo professato dall’autore, e Kieślowski poté permettersi nel 1991 un exploit fuori dalla cortina di ferro con La doppia vita di Veronica, con attori francesi, la storia di due ragazze, una polacca e una francese, che sembrano essere due sosia l’una dell’altra senza conoscersi. Come in una sorta di effetto-farfalla, Kieślowski sembrava dirci che esistono cose più misteriose di quanto la scienza possa spiegarci, e invitato a parlare del tema commentò: “Il tema principale del film è “vivi con più attenzione”, perché non sai quali saranno le conseguenze delle tue azioni sulle persone che conosci o non conosci. Questo riguarda tutti, perché i percorsi delle persone e dei loro destini si incrociano continuamente, che ne siamo consapevoli o meno. Ecco cos’è la responsabilità per me: vivere facendo attenzione”.
Dopo questo successo internazionale, che viene presentato anche dalla Miramax negli Stati Uniti, Kieślowski e il suo-cosceneggiatore abituale Krzysztof Piesiewicz, ex avvocato, decidono di imbarcarsi in un’altra opera multipla dopo il Decalogo, dedicandosi a scrivere e girare tre film dagli enigmatici titoli di Film blu, Film bianco e Film rosso, che verranno presentati rispettivamente nel settembre 1993, febbraio 1994 e maggio 1994, a pochissima distanza l’uno dall’altro.
I titoli riprendono i colori della bandiera francese, e nello specifico ognuno si rifà a uno dei valori della Rivoluzione diventati motto nazionale: Liberté, Egalité e Fraternité, nonostante lo stesso regista abbia scherzato sul fatto che nessun altro a parte lui sembrava aver mai collegato quei concetti alla bandiera. Come sempre in Kieślowski, però, le cose sono più oblique del previsto, e ognuno di questi valori viene trasposto in pellicola in modo non immediatamente riconoscibile, ma filtrato in maniera quasi ironica, tanto che il celebre critico Roger Ebert li descrisse rispettivamente come un’anti-tragedia, un’anti-commedia e un’anti-storia d’amore.
Secondo le dichiarazioni del regista, “l’Occidente ha implementato questi tre concetti sul piano politico o sociale, ma la questione si fa completamente diversa sul piano personale. Ed è per questo che abbiamo pensato a questi film. Anche se ci si può liberare degli oggetti amati, delle persone, dei paesaggi familiari, è estremamente arduo liberarsi dei legami imposti dal denaro, dai sentimenti, dalle ambizioni, dai ricordi del passato; tutte queste trappole minacciano la libertà individuale già così fragile.
In teoria, a parole, tutti siamo uguali, ma di fatto nella vita tutti vogliono essere superiori agli altri. Esiste davvero una libertà individuale? A mio avviso, l’Eguaglianza e la Libertà individuali sono delle illusioni, delle menzogne. Solo la Fraternità è qualcosa che si può in parte realizzare, malgrado la tendenza universale all’egoismo. Anche chi raccoglie un passerotto indifeso, o fa l’elemosina a un disgraziato, non è esente da calcoli; ma un qualche sentimento ‘fraterno’ esiste, direi, in fondo all’ animo umano”.
Il primo film, Blu, Leone d’Oro a Venezia nel 1993, è infatti la storia di una giovane donna parigina – magnificamente interpretata da una Juliette Binoche nel fiore degli anni – che dopo un tragico evento luttuoso decide di usufruire della sua libertà… per rinunciare a tutto quello che possedeva e che era.
Come una novella San Francesco si libera dei suoi beni, della sua casa e dei suoi legami, e decide scientemente di evitare ogni futuro coinvolgimento emotivo per limitarsi ad esistere vivendo di rendita, sperando in questo modo di rimuovere il trauma e allontanare il dolore. Il problema è che, nel corso del film, apparirà evidente come nessun uomo, e nessuna donna, sia un’isola, e come da una parte il bisogno di vicinanza emotiva e dall’altra l’impulso altruistico di sostenere il prossimo siano il modo più sano per curare le ferite più profonde.
Il co-sceneggiatore Piesiewicz lo disse chiaramente: “Ciò di cui abbiamo più bisogno è di empatia e dell’amore che in Blu viene chiamato col suo nome greco, agape. L’amore che non richiede reciprocità nell’avere un atteggiamento di bontà verso gli altri, e che deriva dall’essenza dell’umanità”.
Questa storia apparentemente poco elaborata è arricchita da uno stile che fa scuola, fatto di momenti di trascendenza mistica, silenzi, musica classica che irrompe come un’”intermittenza del cuore” proustiana e una luce blu quasi divina che illumina il volto di Julie nei momenti-chiave. Juliette Binoche si prestò anima e corpo per il ruolo, ed è divertente pensare al corso alternativo della storia del cinema se invece di questa parte avesse accettato di girare Jurassic Park di Spielberg, che le era stato offerto e che rifiutò per accettare questo film che le valse il premio come miglior attrice a Venezia oltre al Leone d’Oro.
Un po’ come per un David Lynch senza eventi palesemente sovrannaturali, o come nel Nastro bianco di Michael Haneke, i film della Trilogia (e di Kieślowski in generale) acquistano profondità al di là della trama grazie a ciò che lasciano di inesplicato, permettendo allo spettatore di annodare i fili delle corrispondenze, captare un ordine segreto dietro le cose e dare la propria interpretazione senza però mai lasciare un’unica sola strada aperta.
Le musiche, la fotografia, i silenzi, le interpretazioni degli attori, i colpi di scena: tutto nel suo cinema contribuisce a un senso di purezza, di sublime, di intoccabile, che in altri registi potrebbe essere confuso con cerebralità e snobismo, ma qui è solo il frutto di un minimalismo che riducendo all’osso fa scaturire emozioni profonde, senza filtro, negli spettatori.
Film bianco, presentato al Festival di Berlino 1994, è un ritorno nella terra d’origine del regista, e un’occasione per rivisitare ciò che è cambiato in Polonia dopo la fine dell’impero sovietico. Il film ha un tono più leggero degli altri, il protagonista è incredibilmente somigliante per volto e vestiario a un giovane Paolo Villaggio, e come Fantozzi inizialmente sembra essere l’emblema dell’uomo debole, sfortunato e umiliato.
Karol Karol, questo il suo nome, è un parrucchiere di Varsavia pluripremiato in patria, che forse grazie a quest’allure da vincente riesce a conquistare una bellissima e idealizzata Julie Delpy (francese nella vita come nel film), e convola a nozze con lei seguendola a Parigi. Qui però, a metafora di un Paese dell’Est che ancora soffre di un complesso d’inferiorità rispetto all’Europa occidentale, Karol perde ogni fascino, si sente fuori posto e diventa perfino impotente, finendo per essere lasciato dalla giovane moglie.
Solo il ritorno a Varsavia dopo aver toccato il fondo, e una serie di strategie ingegnose, gli daranno la possibilità di ottenere una vendetta fisica e morale sulla donna, anche se come al solito si tratterà di un’uguaglianza, un’egalité, anomala, intesa come un rimettere in pari le cose, che avrà un sapore dolceamaro.
Forse perché più politico e meno metafisico, forse perché più virato verso la commedia (seppur sui generis), il film è spesso considerato meno potente degli altri due, ma si tratta in realtà di una benvenuta boccata d’aria fresca e di humor nero polacco in un cinema che potrebbe rischiare di prendersi troppo sul serio. E anche qui come altrove, un muto finale enigmatico affidato al linguaggio dei segni contribuisce all’ennesimo colpo di scena inaspettato e misterioso.
Kieślowski descrisse così i temi del film: “Bianco parla di una persona molto sensibile. Ci è noto il concetto di ‘uguaglianza’, il fatto che tutti noi vogliamo essere uguali. Ma penso che questo non sia assolutamente vero. Penso che nessuno voglia davvero essere uguale. Tutti vogliono essere più uguali, e questo è ciò di cui parla il film. All’inizio Karol viene umiliato, sia come maschio che come essere umano. Tutto ciò che ha mai avuto gli viene portato via e il suo amore viene rifiutato. Di conseguenza, vuole dimostrare che non solo non merita di cadere così in basso, non solo che è allo stesso livello di tutti gli altri, ma che è più in alto, che è migliore. Quindi fa di tutto per dimostrare a se stesso e alla donna che, per usare un eufemismo, lo ha disprezzato, che è migliore di quanto lei creda. E ci riesce. Perciò diventa più uguale”.
Bianco non è però solo un film sull’uguaglianza, o se si preferisce sulla vendetta, ma anche una storia di amore disperato, di amour fou nello stile della Adele H. di Truffaut, da parte di un uomo nei confronti di una donna che ha fatto di tutto per meritare il suo odio, ma che rimane idealizzata come una statua, candida e perfetta.
D’altronde lo disse anche il regista: “Se faccio film sull’amore (nel senso più lato del termine), è perché non esiste per me una cosa più importante. L’amore, se lo si intende come ciò che spinge verso qualcosa, governa completamente il senso della nostra vita. E del resto, tutti i libri e tutti i film parlano d’amore. O dell’assenza d’amore, che è l’altra faccia dell’amore”. E come ha notato qualcuno, i film della Trilogia dei colori possono benissimo essere associati non solo a libertà, uguaglianza e fraternità, ma anche ai diversi nomi che la lingua greca dà all’amore, ovvero Agape, Eros e Philia: amore inteso come sentimento caritatevole e disinteressato; amore inteso come passione e desiderio, e amore inteso come amicizia e affetto.
Per affrontare quest’ultimo tema, nel 1994 esce anche l’ultimo film della trilogia, Film rosso, presentato a Cannes e fino all’ultimo dato per vincente, almeno fino a quando, a due giorni dalla fine del festival, il talento diversissimo ma rivoluzionario di Quentin Tarantino, che presentava Pulp Fiction, non gli strappò la Palma d’Oro.
Secondo le dichiarazioni di Harvey Weinstein, che distribuì entrambi i film, Tarantino era con lui alla proiezione di Film rosso, e a fine film sentenziò “E’ il miglior film dell’anno, e vincerà la Palma d’oro”. Fortunatamente per lui non andò così, ma in molti rimasero stupiti.
Rosso è la storia di un’amicizia anomala e inaspettata, una fraternité tra due persone apparentemente opposte e unite soltanto dalla comune residenza a Ginevra: lei è una giovane e avvenente modella di buon cuore, lui un anziano giudice in pensione apparentemente arcigno che passa il tempo a spiare voyeuristicamente le telefonate dei suoi vicini di casa grazie a un apparecchio radio.
Un po’ una versione maschile e anziana del personaggio di Juliette Binoche in Blu, il giudice di Jean-Louis Trintignant è solo e amareggiato, deluso dal passato e intenzionato a non creare più legami. Quando Irène Jacob (personificazione della grazia già vista in La doppia vita di Veronica) gli dice con tono di sfida che, se davvero non vuole niente dal mondo, “deve solo smettere di respirare”, lui risponde: “E’ una buona idea”.
I due si conoscono per caso e dopo diverse incomprensioni iniziali, principalmente dovute al carattere aspro del giudice, tra loro si stabilisce un legame che anche in questo caso sembra quasi sconfinare nel soprannaturale senza mai toccarlo, lasciando allo spettatore di chiedersi se gli eventi siano solo frutto del caso o se quell’uomo, che somiglia a Dio, al mago Prospero de La tempesta di Shakespeare o a un regista cinematografico, possa davvero fare da burattinaio con le vite degli altri. Quando gli fu chiesto se credesse che tutto ciò che accade sia solo frutto del caso, Kieślowski rispose di no: “Tutto accade in seguito alla somma di differenti fattori. La nostra volontà sicuramente. Il nostro destino che ci controlla, da qualche parte, ma che possiamo modificare un po’. Il caso raramente influisce sul nostro destino”.
Quello dell’autore polacco è un cinema d’impronta leopardiana, fatto di “vago e indefinito”, il cui maggiore pregio sta proprio nel camminare costantemente sulla linea sottile tra il disvelamento e il dubbio, affascinando con l’accenno ma evitando la spiegazione troppo definita, un cinema che come l’arte migliore lascia inesplicate alcune domande, aumentando così la propria forza.
A quanto pare Kieślowski era affascinato dal saggio La ripetizione del filosofo Søren Kierkegaard, e quel testo gli diede l’idea per immaginare la possibilità di rivivere il passato migliorandolo grazie all’esperienza dell’età più avanzata, tanto che perfino la scelta della musica in colonna sonora, un bolero, ha la caratteristica di essere un genere basato sulla ripetizione di un ciclo di due movimenti che si intersecano. Secondo le sue parole, “la domanda essenziale che pone il film è: è possibile riparare a un errore compiuto nelle alte sfere? Qualcuno ha fatto nascere qualcun altro al momento sbagliato. La domanda è: è stato compiuto uno sbaglio da qualche parte? E se è così, c’è qualcuno in grado di correggerlo?”. Come se per il suo ultimo film volesse per una volta dimenticare la sua idea di un Dio severo dell’Antico Testamento e concedere ai suoi protagonisti la speranza di una seconda possibilità.
Naturalmente, però, di tutto questo lo spettatore (ed è la magia del suo cinema) si accorge solo per indizi sparsi qua e là e depositati nel subconscio senza inizialmente capirli, e un po’ come vent’anni dopo farà una serie come Better Call Saul, è alla fine che i nodi vengono al pettine e le tracce disseminate assumono un senso. E sembra perfetto l’aneddoto, raccontato dallo stesso Kieślowski, secondo cui aveva comprato il libro più recente della grande poetessa polacca Wisława Szymborska per regalarlo a un suo collaboratore, ma leggendolo si era deciso a tenerlo per sé per via di una poesia, Amore a prima vista, che a suo dire parlava esattamente di Film rosso, anche se il film non era ancora uscito e i due non si conoscevano.
Come i protagonisti del film, infatti, nella poesia si parla di due innamorati che, credendo di aver conosciuto all’improvviso la propria metà, non si rendono conto che “già da parecchio tempo il caso giocava con loro./Non ancora pronto del tutto a mutarsi per loro in destino, li avvicinava, li allontanava,/gli tagliava la strada e soffocando una risata con un salto si scansava. Vi furono segni, segnali,/che importa se indecifrabili”. Perché, come conclude la poetessa, “Ogni inizio infatti/è solo un seguito/e il libro degli eventi/è sempre aperto a metà”.
Kieślowski ha definito Film rosso un “film contro l’indifferenza, perché ci vuole impegno per superare la diffidenza iniziale con le persone”, e in generale la sua intera trilogia si può associare a questa definizione come una grande opera umanista, un inno alla vita mascherato da temi apparentemente lugubri, in cui pur senza sentimentalismi e concedendo una sola, ma significativa, lacrima per ogni film, chi guarda non può che sentirsi vicino alle vicende dei protagonisti.
Come i classici latini, Kieślowski sembra costantemente ribadirci e ricordarci che “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”: sono un essere umano, niente di ciò ch’è umano mi è estraneo. E non è un caso che una delle sequenze più indimenticabili di Blu sia accompagnata da un inno con le parole della Prima lettera ai Corinzi di San Paolo, più che mai adatte a riassumere il messaggio del suo cinema:
“Se avessi il dono di parlare tutte le lingue di questo mondo e perfino il linguaggio degli angeli, ma non avessi amore, sarei come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
Se avessi il dono della profezia e penetrassi tutti i misteri, e conoscessi tutto di tutto, ma non avessi l’amore, a che cosa mi servirebbe?
Se anche avessi il dono di una fede tale da far spostare le montagne con un ordine, non sarei nulla, senza l’amore.”