Francesco Guccini compie 80 anni, e l’anniversario andrebbe degnamente festeggiato. Innanzitutto perché è probabilmente il primo di quell’“eletta schiera” di cantautori a raggiungere il traguardo: alcuni suoi pari sono passati già da vent’anni al grado di defunte icone (come Gaber e De André), altri non ci sono arrivati e comunque per carattere e produzione musicale a volte poco rigorosa sono sempre rimasti a metà tra le definizioni berselliane di “soliti stronzi” e “venerati maestri” (come Dalla e De Gregori).
E quindi Guccini, quello che cantava “il cielo dei poeti è un po’ affollato in questi tempi, forse avrò un posto da usciere o da scrivano”, in qualche modo ha avuto la sorte, forse scritta da sempre nel destino vista l’eterna barba, di diventare il Walt Whitman della canzone, poeta laureato nazionale e monumento già in vita.
Il che è ironico, visto che Guccini è un po’ l’emblema di un tipo di ottantenne recente, anomalo, postbellico, totalmente diverso dai vecchi saggi dell’immaginario: un po’ come il suo corregionale Fellini, è uno che non ha mai rinunciato a un’attitudine giovanile, goliardica e moderna anche quando parlava di cose serissime. Uno che, per dirla con le sue parole (rubate a Brel) ha applicato “scienza e costanza” per “invecchiare senza maturità”.
Un ottantenne che ha cantato i miti pop dell’America liberatrice, più volte citati (Paperino, Mandrake, il west) ma anche quelli più adulti della contestazione (Che Guevara, i provos, Jan Palach, Carlo Giuliani, il Pietro Rigosi anarchico ispiratore de La locomotiva); uno che come i giovani d’oggi già cinquant’anni fa si traduceva i testi di Bob Dylan; che rappresentava un capopopolo per intere generazioni di coetanei e nipoti rivoluzionari e intanto faceva record di parolacce, autodenigrazione e personalismo nell’Avvelenata, riuscendo perfino nel salto carpiato di far pentire il Bertoncelli sbertucciato nel pezzo.
Insomma, un Grande Vecchio decisamente sui generis, che se con l’età è apparso sempre più tendente a una nostalgia agreste e pessimista, tra mulini, appennini e gialli di campagna, più vicino alla via Emilia che al West, è comunque lo stesso che i suoi fan amano a dismisura quando, bottiglia di rosso alla mano, introduce(va) le canzoni in concerto con doti comiche da cabarettista, realizzava interi album di stornelli goliardici (Opera buffa), duettava con Benigni o rimbrottava fintamente severo “A sedere!” i giovani fan scalmanati.
Probabilmente il suo ascolto rimane tuttora più ostico rispetto ad altri suoi colleghi per vari motivi: un’aria un po’ lugubre e di una malinconia a volte straziante, tra incontri tristissimi con ex perse di vista, pensionati soli, lager, aborti, osterie vuote, amiche morte di parto o d’incidente stradale; un tono un po’ professorale, una bulimia letteraria di testi lunghissimi col vezzo di parole desuete e passati remoti polverosi, che a volte sanno di sfoggio antiquato, insomma più da poesia che da canzone o canzonetta come direbbe lui; una forma musicale spesso molto austera e spartana, più figlia delle ballate folk e del tango malinconico che del rock’n’roll, che lo distanzia da colleghi all’epoca più bravi a scegliersi arrangiamenti che oggi suonano classici e non vecchi.
Se altri cantanti potevano essere compagni di scuola matti di talento (come Dalla o Rino Gaetano) o sensibili fratelli maggiori assorti tra ermetismo e impegno (De Gregori, Fossati), Guccini in fondo ha sempre svolto il ruolo che poi ha davvero ricoperto nella realtà per un mese all’anno nel corso di vent’anni: quello del professore giovane di sinistra, capace di slanci rivoluzionari, sarcasmo, goliardia ma pur sempre da dietro una cattedra, palesemente più colto e scafato del suo uditorio e intento a formare la classe senza annoiarla. Un’attitudine che lo avvicina a Umberto Eco, anche lui di casa a Bologna e che di lui disse che era “forse il più colto dei cantautori in circolazione: la sua è poesia dotta, intarsio di riferimenti: che coraggio, far rimare ‘amare’ con ‘Schopenhauer’!”.
Soprattutto, Guccini è stato sempre un manifesto d’indipendenza intellettuale: difficilmente nella sua carriera si troverà una macchia, una discesa nel commercio più bieco, una svendita “per un po’ di milioni”, una rinuncia al suo modo d’essere per compiacere un pubblico più ampio e quindi anche per togliersi di dosso quella vernice indelebile di “cantante comunista” e “rivoluzionario con la erre moscia”.
Allo stesso modo, è stato capace di essere idolatrato da diverse generazioni di un certo genere di giovani ed ex giovani (quelle bardate di eskimo, kefie e bandiere rosse) senza mai prostrarsi al pensiero unico, al conformismo dell’anticonformismo, all’ottusità della ribellione per la ribellione. E da qui l’irresistibile ironia di un Guccini che dichiara seraficamente di non essere mai stato comunista – semmai socialista –, a dimostrazione che la sua poetica non è mai stata un puro sottofondo per manifestazioni politiche, ma un’ideologia personale che a volte si è intersecata con quella di un movimento internazionale.
Da questo punto di vista, forse il modo migliore per festeggiare questo suo compleanno è attraverso le parole di quella che è una delle sue canzoni più belle per capacità di coniugare privato e pubblico, personale e politico, storia minima e massima, con un lessico colloquiale e una capacità di racconto da epopea generazionale: Eskimo.
Scritta nel 1978, a dieci anni dai grandi sommovimenti del Sessantotto e a postilla della Bologna indiana metropolitana del ’77, Eskimo è fin dal titolo una canzone identitaria ma già dopo poche righe per niente autocelebrativa, anzi pronta a demitizzare, un po’ alla Sergio Leone, un’epoca troppe volte esaltata con toni da epica greca dimenticando l’aspetto umano, goffo e modaiolo di certe esperienze.
Guccini qui fonde in un unico amalgama tutto ciò di cui sa parlare meglio: l’immancabile nostalgia di “domeniche in settembre” di vent’anni prima, la Bologna mitizzata dei balli “al portico dei Servi”, il sesso deromanticizzato e raccontato comicamente, la fascinazione per Bob Dylan come simbolo di ribellione privata, l’ironia sulla marijuana e sui cliché capelloni, il cambio nel costume sociale dai primi appuntamenti coi fiori in mano alla liberazione sessantottina, l’imborghesimento dei trent’anni, l’interrogarsi su quelle utopie, gli ex amici ormai “andati, rassegnati, soddisfatti”.
Ma soprattutto Eskimo è una dichiarazione di indipendenza e coerenza: davanti a chi, allora come oggi, si fa portabandiera di rivoluzioni modaiole e d’improvviso sposa cause e atteggiamenti “contro”, il saggio, scafato, sospettoso Guccini da Pavana fa notare il suo essere stato da quella parte molto prima di loro, senza esibizionismi né giravolte, portando addosso il suo eskimo “dettato solo dalla povertà” non per “rivolta permanente”, ma per scaldarsi.
Un eskimo che però, alla fine della canzone, ha ancora addosso senza imbarazzi né ripensamenti, ammutolendo la sua interlocutrice, e con lei folle di ribelli per una stagione, con una delle sue invettive più note e sempre attuali: “Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà: tu giri adesso con le tette al vento, io ci giravo già vent’anni fa”.
Auguri a Guccini, con la speranza che, nonostante l’età e lo status da venerato Maestrone, continui ad applicare scienza e costanza per invecchiare senza maturità, ma con la coerenza di sempre.
“Questa domenica in settembre non sarebbe pesata così,
l’estate finiva più “nature” vent’anni fa o giù di lì
Con l’incoscienza dentro al basso ventre e alcuni audaci in tasca l’Unità,
la paghi tutta, e a prezzi d’inflazione, quella che chiaman la maturità
Ma tu non sei cambiata di molto, anche se adesso è al vento quello che
io per vederlo ci ho impiegato tanto, filosofando pure sui perché,
ma tu non sei cambiata di tanto, e se cos’è un orgasmo ora lo sai
potrai capire i miei vent’anni allora, i quasi cento adesso capirai
Portavo allora un eskimo innocente, dettato solo dalla povertà
non era la rivolta permanente: diciamo che non c’era, e tanto fa
Portavo una coscienza immacolata, che tu tendevi a uccidere, però
inutilmente ti ci sei provata con foto di famiglia o paletot
E quanto son cambiato da allora, e l’eskimo che conoscevi tu
lo porta addosso mio fratello ancora e tu lo porteresti e non puoi più
Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà:
tu giri adesso con le tette al vento, io ci giravo già vent’anni fa!
Ricordi, fui con te a Santa Lucia, al portico dei Servi per Natale,
credevo che Bologna fosse mia: ballammo insieme all’anno o a Carnevale.
Lasciammo allora tutti e due un qualcuno che non ne fece un dramma o non lo so,
ma con i miei maglioni ero a disagio e mi pesava quel tuo paletot
Ma avevo la rivolta fra le dita: dei soldi in tasca niente, e tu lo sai
e mi pagavi il cinema stupita e non ti era toccato farlo mai
Perché mi amavi non l’ho mai capito, così diverso da quei tuoi cliché
perché fra i tanti, bella, che hai colpito ti sei gettata addosso proprio a me
Infatti i fiori della prima volta non c’erano già più nel ‘68,
scoppiava finalmente la rivolta, oppure in qualche modo mi ero rotto
Tu li aspettavi ancora, ma io già urlavo che Dio era morto, a monte, ma però…
Contro il sistema anch’io mi ribellavo, cioè sognando Dylan e i provos
E Gianni, ritornato da Londra, a lungo ci parlò dell’LSD,
tenne una quasi conferenza colta sul suo viaggio di nozze stile freak
E noi non l’avevamo mai fatto, e noi che non l’avremmo fatto mai,
quell’erba ci cresceva tutt’ attorno, per noi crescevan solo i nostri guai
Forse ci consolava far l’amore, ma precari in quel senso si era già
un buco da un amico, un letto a ore su cui passava tutta la città
L’amore fatto alla boia d’un giuda, e al freddo in quella stanza di altri e spoglia:
vederti o non vederti tutta nuda era un fatto di clima e non di voglia
E adesso che potremmo anche farlo, e adesso che problemi non ne ho,
che nostalgia per quelli contro un muro o dentro a un cine o là dove si può
E adesso che sappiam quasi tutto, e adesso che problemi non ne hai,
per nostalgia, lo rifaremmo in piedi scordando la moquette stile e l’Hi-Fi
Diciamolo per dire, ma davvero si ride per non piangere, perché
se penso a quella che eri, a quel che ero, che compassione che ho per me e per te!
Eppure a volte non mi spiacerebbe essere quelli di quei tempi là,
sarà per aver quindici anni in meno o avere tutto per possibilità
Perché a vent’anni è tutto ancora intero, perché a vent’anni è tutto “chi lo sa”,
a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’ età
Oppure allora si era solo noi, non c’entra o meno quella gioventù:
di discussioni, caroselli, eroi, quel ch’è rimasto dimmelo un po’ tu
E questa domenica in settembre se ne sta lentamente per finire
come le tante via, distrattamente, a cercare di fare o di capire
Forse lo stan pensando anche gli amici: gli andati, i rassegnati, i soddisfatti,
giocando a dire che si era più felici, pensando a chi s’è perso o no a quei party
Ed io che ho sempre un eskimo addosso, uguale a quello che ricorderai,
io come sempre faccio quel che posso, domani poi ci penserò, semmai
ed io ti canterò questa canzone, uguale a tante che già ti cantai:
ignorala come hai ignorato le altre, e poi saran le ultime oramai”.
(PS: Eskimo va ascoltata esclusivamente nella versione live di Fra la via Emilia e il West, anni luce migliore della versione su disco)
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