Mi consigli un film? – Vol. 16

Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.

Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se per caso sia disponibile su Netflix, Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).

Di seguito le recensioni di: Equus, 4 passi fra le nuvole, 2046, Un giorno di pioggia a New York, Le fate.

Via al volume 16! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)


Equus

Sidney Lumet, 1977

Sidney Lumet negli anni Settanta macinava successi (di critica e pubblico) uno dopo l’altro: dal ’73 al ’76, Serpico, Assassinio sull’Orient-Express, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Quinto potere. Tutte le epoche d’oro però hanno una fine, e si può dire che quella di Lumet ebbe fine con questo film.

Adattato da una pièce teatrale dell’inglese Peter Shaffer che nel 1973 aveva destato molto scalpore, si tratta della storia del rapporto tra uno psicanalista di mezz’età con un suo paziente diciassettenne. Il ragazzo, impiegato presso un maneggio, si è macchiato dell’inspiegabile gesto di accecare sei cavalli in un impeto di inattesa follia, e il film è la storia della sua analisi e della ricostruzione del clima psicologico che l’ha portato a quell’azione.

Richard Burton, ormai davvero poco ricordato (se non per le scaramucce amorose con Liz Taylor), è stato davvero un grande attore forse troppo poco attento alla scelta dei suoi film, ma qui, nel clima teatrale che gli è più congeniale, è magnetico e credibile nella parte di un uomo che parte con la verità in mano e man mano finisce per mettersi in dubbio grazie a un adolescente che dovrebbe curare.

Purtroppo, però, quando il dottore non è in campo e vengono ripercorsi via flashback i traumi del ragazzo, il film si allunga a dismisura (stare per mezz’ora nella mente di un pazzo adoratore di cavalli non è il massimo), nonostante una sequenza, quella della cavalcata notturna, di grande suggestione, e un’interpretazione molto realistica dello sconosciuto Peter Firth.

L’immersione in un mondo di delirio e turbamento interiore ha un suo notevole fascino disturbante, con tinte quasi horror, ma il film spinge troppo sul pedale del flusso di coscienza da monologo teatrale e meno sulla verosimiglianza della psicoanalisi, e nel finale non c’è la catarsi desiderata che dovrebbe far sentire lo spettatore come chi arriva alla fine di un percorso curativo.

Una curiosità: l’opera teatrale negli anni Duemila è stata messa in scena con Daniel Ratcliffe-Harry Potter nel ruolo del ragazzo.

4 passi fra le nuvole

Alessandro Blasetti, 1942

La carriera del regista Blasetti è tra le più variegate del cinema italiano di metà Novecento: dopo aver esordito in epoca fascista con film nettamente fascisti (Vecchia guardia, che al giorno d’oggi dà i brividi nella sua esaltazione dello squadrismo), proseguì con film in costume campioni d’incassi (La cena delle beffe) e in più tarda età costituì la supercoppia Loren-Mastroianni (Peccato che sia una canaglia) e si prestò a cameo ironici in film come Bellissima e Una vita difficile.

Nel 1942, subito dopo il doppio colpo medievale La corona di ferroLa cena delle beffe, se ne esce con questo film totalmente diverso, di ambientazione bucolica ma allo stesso tempo molto progressista e realista nel descrivere temi come l’insoddisfazione famigliare (orrore, a quei tempi) e addirittura la maternità fuori dal matrimonio.

Non è un caso che in molti lo abbiano definito come precursore del Neorealismo, insieme a pochi altri film d’epoca fascista come Ossessione di Visconti e I bambini ci guardano di De Sica.

La storia è quella di un venditore porta a porta, interpretato con burbera simpatia da Gino Cervi (futuro Peppone), che lascia moglie e figli per qualche giorno per lavoro, e sul treno si imbatte in una graziosa signorina che nasconde un segreto: è incinta e il padre del bambino ha fatto perdere le sue tracce. Terrorizzata all’idea di tornare presso la casa dei genitori, che non prenderebbero affatto bene la cosa, gli chiede di fingersi suo marito per un giorno o due al fine di salvare le apparenze, e lui malvolentieri accetta, immergendosi nella vita campagnola dei “suoceri” e andando incontro a colpi di scena non sempre piacevoli.

Inizia come Ladri di biciclette (anzi, viceversa), prosegue come Ombre rosse con la corriera a mo’ di diligenza, e poi diventa una commedia hollywoodiana d’epoca come I dimenticati o Accadde una notte (le marcette suonate sul bus), aggiungendo però un tocco di dramma e malinconia che quei film non avevano.

Il risultato generale è più carino che memorabile, ma certamente è strano pensare che mentre questo film usciva, Mussolini governava e la guerra imperversava, soprattutto perché il punto di vista è decisamente progressista, e il finale è di un’amarezza del tutto neorealista, lontana mille miglia dal cinema borghese “dei telefoni bianchi” del tempo.

Assurdo pensare il ruolo di Cervi sia stato poi ripreso da Keanu Reeves (!) nel Profumo del mosto selvatico, remake anni ‘90.

2046

Wong Kar-wai, 2004

Classico esempio di film che si può contemporaneamente amare e odiare furiosamente, nel mio caso con una propensione alla seconda opzione. Amare perché si tratta di una sorta di seguito di In the Mood for Love, con cui il regista cinese ci aveva ammaliato nel 2000, e di cui mantiene una classe e un romanticismo a livelli elevatissimi; odiare perché la decisione di mischiare in un folle frullato stili visivi, generi, personaggi e trame lo rende un puzzle troppo complesso per avere piacere nel risolverlo.

Il personaggio centrale è lo stesso del film precedente, un giornalista nella Hong Kong degli anni ’60 che vive in una camera d’albergo dove passano diverse sue amanti, ma le sue vicende amorose con una prostituta (la bellissima e bravissima Zhang Ziyi) sono continuamente intersecate con altre storie passate, riprese felliniane di altri film del regista (Days of Being Wild, 1991), e addirittura una trama fantascientifica basata sull’amore per una donna-androide. Decisamente troppo.

Vengono in mente degli antesignani del mind-game film come l’accoppiata di Resnais L’anno scorso a Marienbad e Hiroshima mon amour (anche quello incentrato sui dialoghi tra due amanti), ma se la storia d’amore centrale è coinvolgente e i protagonisti affascinanti, il tutto è montato in modo davvero troppo azzardato per non dare l’idea di un pastiche di generi che fa perdere forza alle sue stesse emozioni.

Un giorno di pioggia a New York (A Rainy Day in New York)

Woody Allen, 2019

Difficilmente mi sarei aspettato di pensare che guardare un film di Woody Allen potesse considerarsi in sé un gesto politico, ma a quanto pare siamo arrivati a questo. Dopo che, sull’onda del #metoo, la figlia di Mia Farrow ha rilanciato le accuse di pedofilia nei suoi confronti, il regista da circa tre anni se la passa malissimo, nonostante già negli anni ’90 un tribunale l’avesse prosciolto: attrici come Kate Winslet rinnegano i film che hanno girato con lui solo tre anni prima, una casa editrice manda al macero le copie della sua autobiografia, il suo nome è tabù e questo film non è ancora uscito negli Stati Uniti.

Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire, visto che al di là della presa di posizione insita nel guardarlo, il film non è né più e né meno che l’ennesima versione di qualsiasi altro film di Allen degli ultimi cinq… diec… vent’anni, probabilmente.

La trama è pressoché la solita: ragazzo colto e ben educato (Chalamet, che si conferma come attor giovane di una generazione) organizza gita a New York con fidanzata un po’ oca di provincia (Elle Fanning), e la giornata cittadina si trasforma in un turbinio di incontri, equivoci e tradimenti sempre in agguato, che alla fine potrebbero far riconsiderare a entrambi il proprio amore.

C’è tutto: le foglie arancioni di Manhattan, il calesse nel parco, il continuo citare i miti letterari alleniani Fitzgerald o Hemingway, i radical chic pretenziosi, i sogni di gioventù, le ninfette rubacuori, i balbettii ogni due frasi. Confezione e personaggi sono sicuramente buoni rispetto ad altre recenti prove di un regista che ormai fa un solo film da decenni, ma un co-sceneggiatore che aggiungesse un po’ di solidità a situazioni esilissime non avrebbe guastato.

Le fate

Luciano Salce, Mario Monicelli, Mauro Bolognini, Antonio Pietrangeli, 1966

La lettura del libro-intervista di Tatti Sanguineti a Rodolfo Sonego intitolato Il cervello di Alberto Sordi (2015), in cui si ripercorre la carriera dello sceneggiatore che per decenni diede vita ai personaggi sordiani e segnò per sempre la commedia all’italiana, mi ha spinto a qualche ripasso dei film “leggeri” che sfornavamo a getto continuo negli anni Sessanta.

L’industria cinematografica del Bel Paese all’epoca era una macchina da guerra, e il talento a disposizione era talmente tanto che dive del calibro di Monica Vitti, Claudia Cardinale e perfino Raquel Welch si prestavano senza problemi a filmetti a episodi fatti in fretta e furia tra un Gattopardo e un’Eclisse.

In questo caso sono proprio le donne ad essere protagoniste come da titolo, e ogni episodio è dedicato a una star in veste perlopiù comica: inizia la Vitti, bravissima come sempre, in uno sketch che oggi verrebbe tacciato di sessismo su un’autostoppista che col suo fare provocante fa “cadere l’occhio” a ogni uomo che la carica in macchina; prosegue la Cardinale, stracciona con infante al seguito che fa prima imbestialire e poi innamorare il pediatra Gastone Moschin coi suoi imbrogli da donna di strada.

Nel terzo episodio, il più sottile e meno prettamente comico, c’è poi Raquel Welch nei panni di un’apparentemente fedele mogliettina che però, con l’occasione di offrire un alka-seltzer a un amico di famiglia, si rivela meno proba del previsto; infine, la francese Capucine che però è inevitabilmente messa in ombra dal coprotagonista Alberto Sordi, nel ruolo sociologicamente geniale di un cameriere che, quando la padrona è ubriaca, diventa il suo amante, ma che al mattino lei tratta con fare distaccato come se non fosse mai accaduto nulla.

L’ultimo episodio è probabilmente il più gustoso, benché anche in questo caso manchi un colpo di scena geniale che chiuda il film in bellezza: per il resto, quattro passabili sciocchezzuole che il talento di attori, registi e sceneggiatori non rende mai sgradevoli.

Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.

Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)

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