Mi consigli un film? – Vol. 17

Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.

Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se per caso sia disponibile su Netflix, Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).

Di seguito le recensioni di: Dune, American gigolò, Una commedia sexy in una notte di mezza estate, Bob & Carol & Ted & Alice, L’idolo delle donne.

Via al volume 17! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)


Dune

David Lynch, 1984

E’ di poco tempo fa l’uscita del trailer della nuova versione di Dune firmata da Denis Villeneuve, con tanto di Pink Floyd in colonna sonora, e per chi come me non aveva mai avuto l’occasione (o il coraggio) di guardare l’originale, quale miglior momento?

Ecco, forse non esiste un momento davvero buono per guardare Dune, perché il film è davvero diverso da qualsiasi altra cosa, e non necessariamente in senso positivo. Da cultore di Lynch (con tanto di tesi di laurea triennale su di lui) è difficile pensare che dietro la macchina da presa ci sia lo stesso regista che di lì a breve ci avrebbe dato, con lo stesso attore protagonista, le perturbanti e oniriche atmosfere campagnole di Velluto blu e Twin Peaks.

Ci vorrebbe probabilmente un Nobel che non ho per spiegare la trama, tratta dal romanzo omonimo di Frank Herbert, perché a parte il fatto che ci troviamo in un futuro lontano tra strani pianeti e orrendi alieni, dopo due minuti avevo già perso le speranze e distinguevo buoni e cattivi solo dalla fisiognomica.

E’ come se il montaggio del film sia stato affidato a una squadra di scimmiette, perché altrimenti non si spiega come facciano i personaggi a dirsi “Ti ho sempre amato” anche se si sono conosciuti due minuti prima, o a cosa facciano riferimento i ridicoli dialoghi in lingue straniere (tra cui la preveggente parola “jihad”), che comunque non avevano impedito a Guerre stellari di diventare il franchise più grande del mondo.

E’ chiaro che l’obiettivo sia una versione per adulti del film di George Lucas (il gore è davvero notevole), e i soldi del solito pacchiano Dino De Laurentiis si vedono tutti: scenografie spettacolari e uso preveggente dei computer, vermoni di Carlo Rambaldi, mostri che ricordano Jabba the Hutt misti a Eraserhead, un cast che va da Max von Sydow a Silvana Mangano a uno Sting inquietantissimo in mutande e capelli arancioni.

Se però in Star Wars i dialoghi risibili lasciano comunque posto a una trama comprensibile e a personaggi amabili, qui il tutto è pura confusione, e anche a livello di effetti speciali, niente poteva prepararmi al trionfo di cubi 3D stile videogioco d’antan quando Kyle MacLachlan si batte col Patrick Stewart pre-Star Trek.

Più che Lynch, le atmosfere ricordano più il Tim Burton di Batman – Il ritorno o il Terry Gilliam di Brazil, e probabilmente se Fellini avesse fatto un film di fantascienza sarebbe stato così, ma al di là dello sfarzo glorioso del fallimento, è difficile trovarci un’emozione vera.

American gigolò (American Gigolo)

Paul Schrader, 1980

Il film che in un colpo solo ha fatto entrare nella storia del cinema Richard Gere (che avrebbe bissato l’anno successivo con Ufficiale e gentiluomo), il regista Paul Schrader (fino ad allora noto come sceneggiatore di Taxi Driver e in seguito un po’ perso per strada) e i completi Armani, che da quel momento divennero lo stile maschile per eccellenza a livello mondiale.

Strano periodo quello all’inizio degli anni ‘80: a farci caso (e magari ne parleremo più approfonditamente in futuro) quelli che oggi vengono ricordati come “classici degli anni ’80” iniziano probabilmente intorno al 1984, e prima di allora a Hollywood si nota un periodo di transizione tra due decenni molto diversi, una mutazione già iniziata ma ancora non compiuta. American Gigolò sembra dimostrarlo: un film patinato, fatto quasi esclusivamente di stile ed eleganza, di corpi curati e ambienti asettici come saranno molti film successivi, che però non concede quasi nulla al cuore, mantenendo un rigore adulto da noir senza speranza.

Gere è un gigolò (scelta già questa coraggiosa per un protagonista) nella Los Angeles dei quartieri alti, che viene accusato di un omicidio, e cerca per come può di capire chi l’abbia incastrato, mentre contemporaneamente una sua cliente diventa qualcosa di più per lui.

Il suo è un mondo di depravazione e cinismo simile a quello di Hardcore, film precedente di Schrader già recensito, e la California è la stessa, ma dalla fotografia alla scenografia, dai costumi al protagonista, tutto è più “privé” e le tariffe sono più alte, con l’effetto di dipingere un mondo brillante ma vuoto di valori che anticipa il Patrick Bateman di American Psycho (non a caso Bret Easton Ellis ama questo film).

Visti i riferimenti cinematografici di Schrader, però, la trama è più Bresson (Pickpocket, citato nell’inquadratura finale) che Bogart, e il film dopo un po’ scivola in un monumento a Gere e niente più, con una trama che galleggia lentamente e dialoghi kitsch che nessuno stile riesce a salvare.

In ogni caso, l’inizio con Call Me dei Blondie sparata su Gere che guida in macchina sui boulevard di L.A. è un’icona d’epoca che in quanto a scene di guida rivaleggia solo con Brad Pitt in C’era una volta… a Hollywood.

Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Sex Comedy

Woody Allen, 1982

Per Woody Allen, l’inizio degli anni Ottanta corrisponde probabilmente all’inizio del Woody Allen per come in molti lo consideriamo oggi: un onesto sfornatore seriale di film non più che carini, tra i quali capita che, una volta ogni cinque o giù di lì, esca qualcosa di più valido.

Fino ad allora le cose erano state diverse: da metà anni Sessanta a metà anni Settanta Allen era stato probabilmente il comico più apprezzato dell’epoca, impegnato con film demenzial-surreali come Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chiedere) e Il dittatore dello stato libero di Bananas; poi nella seconda metà del decennio, se ne era uscito con un duetto di capolavori adulti, più inclini al sentimento che alla risata sguaiata, come Io e Annie e Manhattan, i quali gli avevano regalato quattro Oscar e un rispetto come autore prima impensabile.

Quei film sarebbero stati il vertice della sua produzione, e lo dimostra questo film dell’82, che non è né apertamente comico né realistico e commovente, ma si limita a una parodia stiracchiata dei drammi teatrali campagnoli di Cechov o Bergman, e ovviamente dello Shakespeare del titolo.

Tre coppie si ritrovano nella casa di campagna di Allen, e tra picnic e fienili si consumano allegri tradimenti, con un tema di fondo incentrato sulle occasioni perdute. Gli attori sono bravi ma i personaggi macchiettistici, e il tutto passa senza lasciare traccia, se non per la bella fotografia di Gordon Willis. Da segnalare che fu il primo film di Allen con Mia Farrow come attrice: una partnership che non gli porterà fortuna.

Bob & Carol & Ted & Alice

Paul Mazursky, 1969

Quante volte capita di tentare di adeguarsi alle mode del momento per sentirsi à la page, ma si finisce per non sentirsi a proprio agio? Si può dire che questo film, considerato un classico dell’epoca, porti agli estremi questa sensazione con la storia di due coppie che nei tardi anni Sessanta vogliono arruolarsi nella rivoluzione hippie senza esserne capaci fino in fondo.

Sì, perché i quattro del titolo sono trentenni con figli, con carriere avviate e ville con piscina, e nonostante i ripetuti tentativi, non bastano i capelli lunghi, le camicie indiane o una canna occasionale per spingersi allo scambio di coppia e alla tolleranza verso i tradimenti dei partner.

Il tutto viene raccontato come una pungente satira di un’America in via di cambiamento, in cui a essere ridicolizzati per una volta non sono i conservatori ma i ribelli, con scene davvero gustose come Bob che, cogliendo in flagrante la moglie a letto con l’istruttore di tennis, cerca di controllare la furia istintiva in nome dell’amore libero e alla fine lo abbraccia amichevolmente. E’ l’era dell’Acquario, bellezza.

Più New Hollywood di così si muore: Elliot Gould (per i meno cinefili, il papà di Monica e Ross in Friends) al suo primo successo, sperimentazioni di coppia, lunghissimi dialoghi, niente azione, echi di coppie godardiane, realismo, narrazione non lineare, sguardi in macchina e bel finale felliniano. Il tutto però è sotto forma di sequenze disgiunte, come fossero lunghe scene teatrali tirate troppo per le lunghe, e questo rende il film piuttosto difficile da digerire per chi si aspetta una storia orchestrata con maggiore cura.

I protagonisti però si fanno amare (Natalie Wood è bellissima 13 anni dopo Sentieri selvaggi), e sarebbero stati perfetti per una sitcom, che in effetti si fece (ma senza questi attori non stupisce che sia durata poco).

L’idolo delle donne (The Ladies’ Man)

Jerry Lewis, 1961

Un insospettabile snob come Jean-Luc Godard (e in generale i francesi tutti) ha sempre idolatrato Jerry Lewis, lodandolo pubblicamente come un comico migliore di Chaplin e Keaton, ma per ogni Godard al mondo ci sono almeno cinque spettatori che nel suo umorismo infantile non hanno mai trovato nulla di affine al genio.

Confesso di essere tra questi, e nonostante mi fossi affacciato a questo film col pregiudizio positivo di saperlo come uno dei suoi migliori, non ho potuto che constatare la distanza tra il mio concetto di comicità e quella del buon Lewis.

La storia ha un ottimo punto di partenza: Jerry è un ragazzo scottato da una delusione d’amore che per questo motivo prende in odio l’intero genere femminile, col quale non vuole avere più niente a che fare, ma che per lavoro si ritrova, colmo dei colmi, a fare da domestico in un collegio di studentesse in cui è l’unico uomo.

L’idea della nevrosi misogina poteva essere sviluppata però con ben altri risultati, ma invece di sfruttare l’enorme harem, Lewis come interprete e regista preferisce puntare su sketch incredibilmente infantili a base di cani feroci che si rivelano innocui bassotti.

Inoltre, va detto, il suo personaggio è decisamente antipatico: difficile associarlo a un Chaplin o a un Mr. Bean (anche loro malandrini), visto quanto la sua aria da bambinone mai cresciuto non renda mai empatico lo spettatore.

Due cose però si salvano: il set è uno dei più elaborati e costosi di sempre, una casa di bambole alta quattro piani creata per l’occasione, che ricorda moltissimo il Jacques Tati di Mon oncle (ammetto di non essere un fan neanche della sua comicità più elogiata); e poi una scena a metà tra Fellini e Vincente Minnelli, con una stanza completamente bianca, una donna-mimo e quel senso di surrealtà che ricorda i musical come Cantando sotto la pioggia, in cui può capitare che un personaggio cambi vestito in un attimo e che compaia un’orchestra dal nulla. Ma davvero non basta.

Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.

Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)

4 risposte a "Mi consigli un film? – Vol. 17"

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  1. Di questi ho visto solo DUNE, di cui non ricordo quasi nulla se non una vecchietta bassetta con gli occhi azzurrini. Ma avevo intenzione di rivederlo prima dell’uscita del remake: è davvero invecchiato così male? I vermoni ai tempi erano fantastici.

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