Perché vi farà bene al cuore guardare The Beatles: Get Back

Dopo aver terminato la visione delle quasi otto ore di The Beatles: Get Back, il nuovo documentario a firma Peter Jackson disponibile dal 25 novembre su Disney+, la sensazione prevalente è quella di una mancanza, una nostalgia, una malinconia da fine festa.

Eppure, la nostalgia non è per il fatto che i Beatles, qui ripresi nel loro ultimo anno di vita come gruppo in attività, si sarebbero sciolti di lì a poco lasciando orfano il rock; non è nemmeno per la Londra degli swingin’ Sixties, equamente divisa tra distinti signori con la bombetta e giovani emule di Mary Quant in minigonna; e non è nemmeno per la musica suonata nel corso del documentario, che al giorno d’oggi in classifica è solo un lontano ricordo di tempi migliori.

No, quel senso di mancanza è proprio per loro quattro: John, Paul, George e Ringo, come fossero degli amici con cui abbiamo passato un campo scuola insieme dalla mattina alla sera e che ora siamo costretti a salutare, come se ormai conoscessimo ogni loro tic e anticipassimo ogni loro reazione, ma fossimo improvvisamente costretti a ricordarci che in realtà quei giorni con loro non li abbiamo mai passati.

È questo l’effetto, bellissimo, che fa Get Back: l’idea di aver passato davvero un lungo periodo in una stanza con i favolosi quattro di Liverpool, lasciandoci alle spalle tutto quello che abbiamo letto su di loro, dimenticando ogni intervista velenosa, ogni sovra-interpretazione dei testi di qualche appassionato troppo zelante, ogni resoconto di terzi sui loro rapporti, e limitandoci a vedere coi nostri occhi cosa volesse dire quell’alchimia tante volte magnificata.

Certo, non è un viaggio per tutti: Jackson (Il signore degli anelli) ha avuto l’onore, ma anche l’onere, di mettere mano a 56 ore di materiale che il regista Michael Lindsay-Hogg aveva girato nel 1969 per un documentario sulla band (Let It Be), e dovendo scegliere cosa tenere, ha optato per la decisione piuttosto estrema di realizzare un “documentario su un documentario” della durata di ben otto ore divise in tre episodi.

Buona parte di queste otto ore sarebbero state facilmente tagliabili in sala di montaggio, perché alla diciottesima prova in studio di un brano “minore” come Two of Us o I’ve Got a Feeling, o all’ennesima cover suonata sguaiatamente, un non-fan potrebbe anche provare una certa noia, ed è indubbio che questa faccia capolino, ma in fondo la scelta di non scegliere, in questo caso ripaga.

Quei tempi morti, quelle esecuzioni ripetute, quell’infinito cazzeggio che sembra poi essere l’anima dei rapporti tra i membri della band, diventano infatti la maniera in cui entriamo davvero in simbiosi con il gruppo, ed ecco così che la serie può diventare anche un sottofondo per altre attività, in cui scegliere quando distrarsi e quando concentrarsi su cosa accade.

La “trama” del documentario, se così si può dire, è questa: i Beatles incidono insieme ormai da sette anni, e sono già il gruppo più famoso al mondo; in quel breve periodo di tempo hanno già vissuto ogni evoluzione possibile, passando dai pregevolissimi “yeah yeah” di She Loves You alla psichedelia di Strawberry Fields Forever e oltre; nel 1966, dopo anni di tour senza sosta, hanno chiuso con i live, limitandosi ad esplorare le possibilità degli studi di registrazione; per 21 giorni, nel gennaio 1969, si ritrovano prima ai Twickenham Studios e poi in Savile Row per registrare nuova musica insieme e per essere ripresi da una troupe in vista di un imminente concerto dal vivo di cui non hanno ancora deciso alcun dettaglio. Da quelle sessioni, usciranno il disco Let It Be (1970), il loro ultimo, che costituisce buona parte delle canzoni suonate qui, e Abbey Road (1969), con la mitica copertina sulle strisce pedonali.

Get Back ci mostra un calendario con i ventuno giorni di prove e semplicemente, grazie all’uso di pochi sottotitoli esplicativi e senza voci narranti, ci porta dentro gli studi con loro, insieme al ristretto gruppo di lavoro che li accompagna, dal mitico produttore George Martin agli ingegneri del suono, dagli ospiti famosi come Peter Sellers alle mogli, tra cui una Yoko Ono che non fa nulla per tenersi in disparte rispetto al compagno.

In realtà, però, Get Back è anche una maniera per disfarsi di certi miti antichi, a cominciare proprio dal fatto che la presenza invadente di Yoko in studio fosse percepita come un fastidio intollerabile dalla band, quando queste otto ore mostrano il contrario: i quattro, uniti da una vita insieme, sono in una loro dimensione personale che li isola da tutto il resto quando sono in vena, e perfino quando Yoko decide di improvvisare le sue urla al microfono, Paul e gli altri sono ben contenti di accompagnarla con un sottofondo sonoro heavy metal.

La sorpresa più bella, però, di cui perfino lo stesso McCartney si è positivamente stupito guardando la serie, è che nonostante fossero quasi al capolinea della loro storia, i Beatles fossero ancora in grado, nonostante qualche innegabile tensione, di creare un clima di assoluta goliardia, disimpegno e sintonia.

Chiunque abbia mai avuto l’occasione di passare un pomeriggio in una sala prove o in un garage con qualche amico, infatti, sorriderà senza sosta durante la visione nel notare come in fondo, anche dopo anni di celebrità mondiale, i Beatles fossero tali e quali a una qualunque cover band di provincia: costantemente impegnati a improvvisare (male) cover di vecchi classici della loro gioventù, costantemente dediti alle perdite di tempo buffonesche, costantemente gioiosi nel creare musica insieme e ripetere anche cento volte un passaggio.

Ecco così che, mentre temporeggiano senza fine sulla scelta del luogo per il loro ritorno dal vivo (un anfiteatro in Libia? Il Cavern Club di Liverpool? Un ospedale per bambini malati?), sono invece prontissimi a infinite variazioni di idiozie da musicisti: una Two of Us cantata letteralmente a denti stretti; una cover strumentale del tema de Il terzo uomo; una versione rockabilly di Across the Universe; intere canzoni cantate con un accento comico, e così via.

Ci si rende conto di come, per quanto l’idea generale sia che i Beatles a questo punto fossero degli intellettuali del rock persi tra sperimentazioni musicali e testi onirici, in realtà fossero ancora dei comici formidabili (John in particolare), un quartetto con un umorismo simile a quello dei coevi Monty Python, sempre capace di farsi beffe delle istituzioni, dei luoghi comuni, delle frasi fatte, quasi una compagnia di vaudeville più che musicisti a tempo pieno.

La musica, però, non è certo da niente, anzi: questo è IL sogno erotico di ogni fan del rock che si fa realtà, la possibilità di essere lì, presenti, mentre un’improvvisazione si trasforma in Get Back, mentre viene scelto il nome di “sweet Loretta Martin”, mentre George trova gli accordi di Something, mentre Ringo dà vita a Octopus’s Garden, mentre Let It Be viene incisa, mentre i Beatles rifanno un pezzo di Bob Dylan per scaldarsi.

L’unica cosa che gli somigli è forse il film/documentario di Jean-Luc Godard One Plus One del 1968, in cui si riprendevano i Rolling Stones in studio intenti a creare un classico come Sympathy for the Devil, ma in questo caso l’emozione è ripetuta per diversi classici futuri, e ogni volta è un sogno essere lì con loro mentre si realizza la magia della nascita delle canzoni, quel passaggio dal nulla a un capolavoro immortale in una scintilla d’attimo che poi è il miracolo dell’arte.

Per fare un paragone meno nobile, è un po’ come il caso della recente docuserie All or Nothing dedicata alla Juventus: qui come lì, si tratta di entrare come una mosca sul muro in un sancta sanctorum, un luogo solitamente precluso ai comuni mortali che siamo abituati soltanto a immaginare.

E il bello è che, quando si passa dall’immaginazione alla realtà, tutto diventa più semplice, casuale, meno manicheo: per anni fior di appassionati si sono scervellati sui testi dei Beatles, e poi qui li vediamo improvvisare in un flusso di coscienza scambiandosi frasi a vicenda; per anni abbiamo pensato a divisioni nette tra ciò che era di Paul e ciò che era di John, e poi qui vediamo Paul cantare a memoria Gimme Some Truth, che poi diventerà un inno del Lennon solista più politicizzato; per anni li abbiamo pensati come i più grandi camaleonti musicali (insieme a Bowie), e qui sentiamo Paul che in un moto di autocritica esclama: “Non proviamo mai a rompere gli schemi, eccoci di nuovo in uno studio londinese a registrare un album!”.

L’esempio più assurdo di questa discrepanza tra narratori esterni e realtà è in una lunghissima sequenza quasi da cinema sperimentale cecoslovacco anni Sessanta, in cui su una base musicale degli altri Paul legge incessantemente, con una voce che imita un vecchio trombone, un articolo di fondo in cui si lamenta la fine imminente dei Beatles a causa delle loro liti.

Come se non bastasse, il film ce li mostra incredibilmente consapevoli di sé e dei propri equilibri, intenti a fare discorsi su se stessi e su quanto siano stati negativi dalla morte del manager Brian Epstein, come in una seduta di autocoscienza in cui parlare senza nascondersi, e la cosa tocca punte di forte commozione quando a dirsi le cose col cuore in mano sono gli eterni nemici/amici John e Paul. In fondo Get Back è anche soprattutto un modo per osservare loro due, per confermare a noi stessi che anche allora, prima della Grande Separazione, quei due non si odiavano, e che anche dopo anni quella gloriosa bromance fosse ancora lì, inscalfibile, anche se a un passo dalla fine.

Dopo un’ora e ventidue dell’ultimo episodio, poi, arriva finalmente l’ultimo giorno, quello del concerto previsto, e anche lì assistiamo alla storia che si fa in diretta, con i quattro che optano per il tetto del loro studio e danno vita a quello che sarebbe stato il loro ultimo concerto, quaranta minuti che bloccarono il quartiere e richiesero l’intervento della polizia per disturbo della quiete pubblica (qui un articolo di approfondimento su quell’evento).

Anche qui, come in altri casi durante la serie, può venire alla mente che tagliare, e quindi confezionare la leggenda, sarebbe meglio che lasciare la cronaca nella sua interezza, con tutti i suoi difetti e le sue parti superflue, ma in fondo cosa ci costa resistere qualche minuto in più?

Peter Jackson, volendo strafare con una durata-monstre, ci ha dato l’opportunità unica non solo di spiare i momenti salienti della realizzazione di un disco, ma ci ha fatto entrare nella stessa stanza con i Beatles per ventuno giorni, ci ha dato quello che mille altri documentari meno approfonditi ci avevano fatto solo intuire, ci ha fatto stare tra John Lennon e Paul McCartney mentre cantando si guardano ridendo prima di separarsi per sempre. E di questo, lungaggini o meno, possiamo solo essergli eternamente grati.


The Beatles: Get Back è disponibile dal 25 novembre su Disney+

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