È stata la mano di Dio: ritratto del regista da giovane | Recensione

Alla fine è tornato, ed è tornato fino in fondo: con È stata la mano di Dio, uscito al cinema il 24 novembre e su Netflix il 15 dicembre, Paolo Sorrentino ha fatto sì il suo attesissimo ritorno in sala dopo il mezzo passo falso di Loro (2018), ma è anche tornato a Napoli, alla sua giovinezza, ai suoi dolori più profondi, alla genuinità perduta e alla parte più intima e finora celata di sé.

Come è ormai noto dopo il battage pubblicitario per un film che l’Italia ha candidato all’Oscar e che è stato distribuito in decine di Paesi da un colosso dello streaming, È stata la mano di Dio non è “solo un film” di Sorrentino, ma ne racconta in modo semi-autobiografico una fase cruciale della vita, quella di un’adolescenza che nel suo caso è finita nel modo più tragico.

Per quanto gli eventi narrati non siano un segreto, in questa sede ci limiteremo a dire che nel 1987 il diciassettenne Sorrentino si ritrovò improvvisamente ad affrontare la vita con addosso un dolore e una serie di responsabilità molto maggiori che in passato.

Quel dolore, come è ovvio, non ha mai abbandonato l’autore del Vomero, ma solo ora, a cinquant’anni, ha avuto il coraggio di raccontarlo vincendo il suo pudore per una vicenda tanto privata, e l’ha fatto scegliendo di rinunciare a ogni schermatura, a ogni vezzo e manierismo di quelli che ormai riconosciamo come marchi di Sorrentino, per puntare invece sull’emozione più nuda e grezza.

Nella finzione, il giovane regista si chiama Fabietto Schisa, ha il volto delicato e sensibile dell’esordiente Filippo Scotti e vive circondato da un’ampia famiglia meridionale in cui i genitori Toni Servillo e Teresa Saponangelo (bravissima) sono affiancati da tante altre facce più o meno felliniane. C’è lo zio innamorato di Maradona, che crede sia stata la sua “mano di Dio” a proteggere Fabietto; c’è la zia Patrizia (Luisa Ranieri), che con la sua sensualità turba i suoi sonni di adolescente; c’è la sorella costantemente chiusa in bagno; c’è il fratello aspirante attore che fa perfino un provino con Fellini; c’è la signora Gentile, “donna più cattiva di Napoli”, che insulta tutto il parentado; c’è un contrabbandiere gentile che fa provare a Fabietto il brivido della vita di strada; c’è un’anziana baronessa vicina di casa per cui tutto è “’na cafunata”; c’è il regista Antonio Capuano che (come fu nella realtà) gli fa da mentore nel tentacolare mondo del cinema, e ci sono mille altre facce che, come era stato in Amarcord cinquant’anni fa, compongono il quadro di una comunità stretta attorno al protagonista.

Se tutto questo ha a che fare con la sfera del racconto, anche a livello estetico e drammaturgico però le cose sono molto diverse rispetto al passato. Infatti, salvo per qualche concessione a sé stesso sotto forma di palazzi abbandonati, belle donne che camminano in piazze deserte e disturbanti iniziazioni sessuali, il resto ha un tono molto più dimesso che in qualsiasi altra opera sorrentiniana dai tempi de L’uomo in più, esordio del 2001.

Si sbaglierebbe però anche chi pensasse a un rifugio nella nostalgia fatto di hit musicali anni Ottanta, gettoni del telefono e scorci di Napoli pieni di scugnizzi: il ritorno alla città di cui si è tanto parlato sui giornali in realtà è uno sfondo appena accennato, senza vocazioni turistiche né neorealiste, e lo stesso si può dire dell’ambientazione d’epoca, di cui a volte si finisce per dimenticarsi. Perfino la colonna sonora, di solito curata con le tracce più hip del presente e del passato, qui fa suonare solo una canzone, ma incredibilmente riesce a far sembrare nuovo e pregnante un pezzo che da decenni è tra gli emblemi più abusati della napoletanità.

Infine, al posto dei discorsi teologici sui massimi sistemi di The Young Pope o degli aforismi da jet set di Jep Gambardella, qui troviamo una prima parte ricca di battute e scene che, se non fosse quasi un atto di lesa maestà sussurrarlo, sembrano uscite da una fiction RAI, o da un film se non di De Sica (Christian), almeno di Pieraccioni. Come definire, altrimenti, risate che nascono da un anziano con il laringofono o da una zia obesa che si tuffa, oppure da una rivolta di parenti contro una matrona intrattabile?

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Come è ovvio, tutto questo folklore scompare nel momento in cui la tragedia si manifesta, e il tono del film si fa più lugubre, ma se aumenta l’empatia per Fabietto (e per Sorrentino, che ha dovuto filmare il suo trauma personale), non si può dire che la storia ci offra episodi o dialoghi davvero riusciti al di là della naturale commozione che i fatti stessi ci ispirano. D’altronde, lo stesso protagonista è così amabile proprio perché di lui non sappiamo quasi nulla, e non offre tratti caratteriali tridimensionali che non inducano a un moto di empatia e protezione.

Come già in passato, quando Sorrentino ha più di una volta mascherato una certa mancanza di sostanza con altisonanti frasi a effetto e scene spettacolari, anche qui quando si scava dietro alle lezioni di vita ermetiche (“Non ti disunire!”), ai sogni dei contrabbandieri (“Tuff, tuff…”), alla mitizzazione delle donne o alle citazioni banalotte dell’idolo Maradona, difficilmente si riesce a trovare qualcosa di veramente profondo e universale.

Insomma, la vita c’è, il cinema meno. L’affetto per Paolo c’è, l’ammirazione per Sorrentino meno.

È tutto qui il doppio binario che rende questo film difficile da valutare: Fabietto/Paolo è un personaggio che indiscutibilmente, con la sua sensibilità e il suo dolore nascosto, si fa volere bene e spinge a più di una lacrima di solidarietà, ma non appena affiora un po’ di cinismo e proviamo ad immaginare il film senza ricordare che sia una storia autobiografica, emerge quell’inconsistenza. Sapendo che quel ragazzo mingherlino finirà sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles con un Oscar nella mano non possiamo che sentirci felici per lui, ma potremmo dire lo stesso anche se invece fosse solo una storia immaginaria?

Vorremmo anche noi abbracciare sia il protagonista, novello Antoine Doinel spaesato in un mondo cattivo, che l’autore, per il suo essersi messo a nudo, ma allo stesso tempo egoisticamente vorremmo anche qualcosa di più come spettatori. Quello che manca, in fondo, è il cinema, la finzione, la costruzione ben scritta e congegnata: “la realtà è scadente”, viene fatto dire al nume tutelare Fellini in un cameo, e qui la realtà, nella sua crudezza e capacità di commuovere, c’è tutta, ma manca forse la capacità di instradarla in una storia compiuta. “Sei solo? Non sei originale. Non basta per fare il cinema”, dice il personaggio del regista Capuano in una scena, e sembra che Sorrentino metta le mani avanti per una critica che si potrebbe avanzare anche al suo film.

Meglio il rapporto sincero tra i fratelli Schisa che gli intellettualismi senza cuore di The Young Pope? Sicuramente. Meglio ridere e commuoversi senza troppe finezze che non provare nulla? Probabilmente sì, ma con riserve. E quindi È stata la mano di Dio, secondo una dicotomia abusatissima ma inevitabile in questo caso, è un film da apprezzare col cuore più che con la mente, riempiendolo delle nostre emozioni laddove manchino una trama e dei dialoghi all’altezza che non soddisferanno il nostro lato più cinico.

E come per il Moraldo dei Vitelloni (ennesima citazione felliniana), che lasciava il borgo per la città salutando un bambino dal treno, allo stesso modo possiamo per un attimo sospendere il cinismo, farci toccare dalle note malinconiche dei titoli di coda, seguire con lo sguardo Fabietto fino all’ultimo fotogramma e augurargli che il “munaciello” gli porti ogni fortuna, sapendo che in fondo sarà così.


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È stata la mano di Dio è al cinema dal 24 novembre 2021 e su Netflix dal 15 dicembre. Il trailer:

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