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Guarda laggiù, arriva una grande nuvola nera!
Arriva a Tupelo
Laggiù all’orizzonte
Si è fermata al grande fiume
E l’ha risucchiato fino a seccarlo […]
Perché la gallina non fa uova?
Il gallo non vuole cantare
Il puledro è imbizzarrito e sembra impazzito […]
Andate a dormire, bambini
L’uomo nero sta arrivando […]
Acqua, acqua dappertutto
Dove nessun uccello può volare
Nessun pesce può nuotare
Fino a che non sarà nato il Re!
A Tupelo!
Quelle che avete appena letto sono le parole di una canzone uscita quando Elvis era già morto da qualche anno: si chiama Tupelo ed è di Nick Cave, e nei suoi sette minuti di blues apocalittico e horror viene narrata e mitizzata, come fosse un episodio biblico in cui gli elementi della natura si scatenano nell’attesa del Messia, la nascita proprio a Tupelo, Mississippi, nel 1935, di Elvis.
A meno che tra voi non ci siano dei fan accaniti di Elvis Costello (che comunque ha il mio massimo rispetto), direi che è superfluo indicare di quale Elvis stiamo parlando, perché come Marilyn, Ringo e la rara schiera di star riconoscibili dal solo nome proprio, anche al giorno d’oggi Elvis Aaron Presley, ex camionista di Tupelo, non necessita di particolari presentazioni, e la sua faccia è ancora lì a riempire speciali televisivi e ritratti di Andy Warhol, così come a ornare calamite da frigorifero e adesivi per automobili.
Il film Elvis di Baz Luhrmann, in cui Elvis è interpretato dal giovane di buone speranze Austin Butler, è stato presentato in anteprima mondiale a Cannes a maggio di quest’anno, ed è poi uscito al cinema nelle sale italiane il 22 giugno, in attesa di approdare tra qualche settimana sulla piattaforma di streaming HBO Max, secondo una consuetudine ormai piuttosto rodata del cinema contemporaneo.
È piuttosto curioso, ma un film su Elvis nel 2022, nonostante il fatto che un tempo sia stato probabilmente l’uomo più famoso al mondo, sembra un’idea addirittura controcorrente, coraggiosa, più il frutto della volontà personale del regista di omaggiare questa figura perfetta per il suo genere di cinema piuttosto che un andare incontro ai gusti del pubblico. Certo, si sarebbe potuto dire la stessa cosa nel 2018 quando uscì Bohemian Rhapsody dedicato a Freddie Mercury dei Queen: ci si poteva forse aspettare che a trent’anni dalla morte Mercury guadagnasse così tanti nuovi fan tra i giovani, che il film diventasse un successo mondiale e che l’attore che lo interpretava finisse per vincere un Oscar? Così come fino a pochi mesi fa nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che Running Up That Hill di Kate Bush potesse entrare nelle playlist dei quindicenni e impazzare su Spotify dopo trentasette anni dal suo lancio come singolo grazie all’inserimento nella colonna sonora di Stranger Things 4.

Il caso di Elvis però sembra diverso: l’ultimo grande innamoramento collettivo per il re del rock’n’roll risale probabilmente a vent’anni fa, quando nel 2002 un greatest hits trainato dal singolo A Little Less Conversation, all’epoca sottofondo di un notissimo spot per i Mondiali di calcio, raggiunse inaspettatamente la vetta delle classifiche. Per il resto, Elvis oggi sembra davvero troppo distante dal gusto contemporaneo: se i Beatles (già protagonisti nel 2021 di una docuserie commentatissima) hanno fondato il linguaggio musicale del presente e sono quindi ancora ascoltabili senza imbarazzi, Elvis è l’equivalente di un boomer la cui epoca sia ormai troppo sorpassata dai tempi moderni.
Innanzitutto a livello musicale, con il rock’n’roll delle origini, quello fatto di tre accordi blues a ripetizione, che oggi suona davvero troppo semplice e primitivo all’orecchio contemporaneo, ma anche per quanto riguarda un’immagine che al giorno d’oggi risulta rischiosa: Elvis in fondo era quello che andava alla Casa Bianca a stringere la mano di Nixon, un bianco che aveva fatto fortuna con la musica dei neri, uno che aveva inondato il mercato di album e film mediocri, e in generale il volto di un mondo antico, pacchiano, kitsch, inautentico, spazzato via dalla controcultura.
Certo, negli Stati Uniti, come altrove, si tengono ancora oggi sfide tra imitatori di The King, tutti armati di vestiti sgargianti, basette esagerate e impegnati a copiarne i leggendari movimenti di bacino. Sicuramente Elvis è l’icona ancora riconoscibilissima per indicare un’epoca, una musica, una certa America, ma a quarantacinque dal 16 agosto 1977, giorno in cui Elvis lasciò definitivamente l’edificio, cos’è rimasto davvero del re del rock?

In realtà, già in quegli anni Settanta, Elvis non era più un faro per nessuno: ormai dipendente da ogni genere di farmaci, grasso, sudato, imbacuccato in costumi sempre più ridicoli, Presley si esibiva per un pubblico di nostalgici che speravano di trovare in lui una scintilla di quello che era un tempo, o di quello che loro stessi erano un tempo. La sua ultima vera hit era stata Burning Love, del 1972, ed era già l’ultima zampata di un vecchio leone ormai superato da un decennio di musica che, dai Beatles in poi, aveva studiato a memoria la sua lezione per poi cambiare completamente le regole, esplorando territori fino ad allora sconosciuti.
Come ha detto Bruce Springsteen, suo discepolo mai pentito: “Elvis aveva liberato i corpi, Bob Dylan le menti”. E una volta che le menti dei giovani dell’epoca erano state aperte, era difficile che si tornasse indietro, aggiungeremmo noi.
La musica di successo del decennio successivo alla sua morte, gli anni Ottanta, era già proiettata su suoni, melodie e immaginari spesso molto distanti dai tre accordi del blues o dalle tonalità del gospel, e da allora in poi se ne sarebbe distanziata sempre di più.
Se c’era una cosa però che nessuno all’epoca ancora metteva in dubbio, era l’effetto dirompente che Elvis, un ventenne poco istruito venuto dal profondo Sud, con la sua musica e ancor di più con il suo atteggiamento, con le sue movenze e la sua gioventù sfacciata, aveva fatto su un’intera generazione di teenager folgorati dalle sue apparizioni televisive in bianco e nero. È vero: successivamente sarebbe stato spodestato, superato, rinnegato, come d’altronde qualunque rivoluzionario che arrivi sul trono, ma per un po’ Elvis fu capace di incarnare un intero fenomeno sociologico, quello dell’emersione dei giovani come categoria antropologica negli anni Cinquanta, e a valanga la nascita di una cultura giovanile da cui ha avuto origine pressoché l’intero immaginario pop dei settant’anni successivi.
E qui il film di Baz Luhrmann entra in campo con grande maestria. Perché per un regista capace di rendere spettacolo qualsiasi cosa, che nuota felice in ogni forma di kitsch, che ha sempre messo la musica al primo posto e che sa come rendere glamour qualsiasi volto, la biografia cinematografica di Elvis era qualcosa di semplicemente inevitabile. E inevitabile dev’esserlo stato davvero, se il regista australiano mancava dagli schermi addirittura da nove anni, quando aveva recuperato con la complicità di Leonardo DiCaprio un altro artefatto fondativo della cultura statunitense come Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald.
Elvis in versione cinematografica funziona perché Elvis è un soggetto perfetto per un film: nessuno come lui, nell’immaginario del Novecento, incarna meglio l’arco (parola amatissima dagli sceneggiatori) da ascesa a caduta, da rivoluzione a conservazione, da riforma a controriforma, da gloria a decadenza. È stato il massimo del sex appeal nei suoi anni giovanili e inguardabile nella sua fase finale, quando era imbottito di sandwich e pasticche; ha scandalizzato l’America facendo esplodere la rivoluzione giovanile ma dopo qualche anno era già un amabile soprammobile della cultura pop che non faceva più paura a nessuno.
Semmai, il problema della figura Elvis sta proprio nella sua inconoscibilità: insieme a Marilyn Monroe (di cui è in preparazione un’altra biografia cinematografica con Ana DeArmas) si tratta probabilmente del massimo esempio di persona oscurata dalla sua stessa icona, senza che in fondo si riuscisse mai a capire chi fosse veramente dietro i suoi occhiali scuri e le tute bianche con le borchie dorate.

Il film tendenzialmente lo ritrae in una luce più che buona: è un onesto sognatore che crede nel rock and roll, che promuove la musica fino ad allora categorizzata come “per neri”, si commuove davanti all’omicidio di Martin Luther King e quando tentano di renderlo un inoffensivo cantante per famiglie tira fuori la sua performance più oltraggiosa e scatenata.
Eppure, il film sin dall’inizio mette l’accento sul suo lato più debole, più influenzabile, più succube: l’intera narrazione è infatti affidata al colonnello Parker, interpretato da un Tom Hanks luciferino e artificialmente ingrassato come un Mangiafuoco imbonitore da fiera. Il manager di Elvis per tutta la sua carriera si preoccupò di renderlo una macchina da soldi, e il film sposandone il punto di vista così insistentemente sembra volerlo riabilitare, ma dopo due ore e mezza di film continuiamo a pensare che il colonnello fosse un approfittatore senza troppi scrupoli, ma anche che Elvis per tutta la vita e nonostante l’enorme fama fosse rimasto nei suoi confronti un figlio devoto incapace di dire no alle sue richieste.
Hanks parla tutto il tempo con uno strano accento simil-olandese che lo fa sembrare uscito da una parodia del Saturday Night Live, ma va detto che, per una volta in cui contro ogni pronostico si getta in un ruolo negativo, pur con mille protesi a nasconderne quel faccione impossibile da detestare, il suo personaggio riesce bene nel farsi odiare. Da parte sua, Austin Butler è impeccabile: accento del Tennessee riprodotto a menadito, somiglianza facciale accettabile soprattutto in quella strana sensualità tendente al femmineo che è sempre stata la forza di Elvis, e straordinaria capacità imitativa che ha già fatto partire i video di YouTube in cui i concerti reali vengono messi a confronto col film.
Il film si snoda senza un attimo di tregua, con sequenze sotto forma di fumetto, fughe oniriche, montaggio frenetico e la scelta azzardata (ma d’altronde già vista nei film precedenti del regista) di modernizzare i pezzi dell’epoca con qualche discutibile inserto rap. Come spettacolo tonitruante, Elvis è pressoché perfetto, e perfettamente adatto al personaggio: il problema sorge semmai quando vorremmo scavare nell’anima del suo protagonista e sapere più di quello che la sua figura pubblica ci ha concesso di conoscere.
Ed è quindi prevedibile che la parte finale, quella dell’inevitabile declino a base di una routine di concerti senza tregua e di un consumo massivo di droghe e medicinali, sia anche decisamente ripetitiva e calante, come se i demoni di Presley rimanessero noti solo a lui, e noi potessimo solo sbadigliare di fronte alla sua caduta. Anche il rapporto col colonnello Parker, che sembra avere una presenza eccessiva forse solo per dare spazio a Hanks, non si risolve mai davvero, e così come non riusciamo a scavare nell’anima di Elvis, così non riusciamo a farlo in quella del suo mentore e insieme carnefice.
Ma poi, con una zampata finale, Luhrmann sfodera un epilogo che per una volta sublima il kitsch fino a farlo diventare Arte con la A maiuscola, e vedere quel signore imbolsito con le basette troppo grandi che si offre per un’ultima volta al suo pubblico non è più penoso ma commovente, ed è bello che a prendersene il merito siano sia Austin Butler che il vero Elvis.
Nel 1977, in occasione della morte di Presley, il grande critico musicale Lester Bangs scrisse queste parole: “Se l’amore sta davvero passando di moda per sempre, cosa che non credo, allora insieme all’indifferenza che coviamo gli uni per gli altri ci sarà un’indifferenza ancor più sprezzante per gli oggetti di venerazione degli altri. Io ho creduto che fosse Iggy Stooge, voi avete creduto che fosse Joni Mitchell o chiunque altro a dare voce ai molti dolori e alle rare estasi della vostra situazione privata e del tutto circoscritta. Continueremo a frammentarci in quel modo, perché al momento è il solipsismo ad avere tutte le carte in mano: è un re il cui regno inghiotte persino quello di Elvis. Ma posso garantirvi una cosa: non saremo mai più d’accordo su qualcosa tanto quanto lo siamo stati su Elvis”.
Quarantacinque anni dopo la morte di Elvis, e quarantacinque anni dopo quell’articolo, si può dire che forse Bangs aveva ragione solo a metà. Dalle playlist personali di Spotify alle cuffie degli iPhone siamo sicuramente tutti più isolati e individualisti nei nostri gusti musicali, ma le Beyoncé e gli Jay-Z del caso dimostrano che un’accettazione di massa è ancora possibile.
Dal canto suo Elvis probabilmente non incarna più un modello per molti, ma resterà, anche grazie a questo film, come simbolo di un’epoca, come faccia da associare al rock’n’roll così come oggi associamo Verdi all’opera e Mozart alla musica sinfonica, ma come l’opera e la musica sinfonica probabilmente non infiammeranno i cuori delle prossime generazioni, probabilmente nemmeno il rock’n’roll lo farà.
Ma forse, per un ex camionista di Tupelo, Mississippi, potrà bastare.
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