Su Netflix è disponibile già da qualche tempo un interessante documentario in quattro episodi da un’ora circa in cui si ripercorre, tappa dopo tappa, la storia dell’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump, dagli inizi come imprenditore edile fino alla decisione di entrare in politica.
Il documentario, intitolato Trump: un sogno americano (Trump: an American Dream, 2017) è diretto da Barnaby Peel, Daniel Bogado e Natasha Zinni, e grazie all’ausilio di interviste ad amici intimi, nemici e testimoni delle varie epoche narrate, rappresenta un’ottima maniera per capire l’ascesa dell’uomo che volle farsi presidente.
Ma chi è davvero Donald Trump? Questo, insieme a molte altre informazioni, è quello che si apprende dalla miniserie:
Donald J. Trump (la “J” sta per John) è nato il 14 giugno 1946 a New York, in particolare nel Queens, quarto dei cinque figli di Fred Trump, imprenditore edile, e Mary MacLeod Trump, immigrata scozzese arrivata a Ellis Island a bordo di un transatlantico nel 1930.
All’età di tredici anni i genitori lo iscrivono alla New York Military Academy, e il giovane Trump continua a studiare in ambienti militari fino al 1964, anno del diploma, prima di entrare alla Fordham University e successivamente alla Wharton School of Finance in Pennsylvania, dove si laurea in economia nel 1968.
La formazione militare non gli impedisce di evitare la guerra del Vietnam, per la quale in quegli anni tutti i giovani della sua età erano chiamati alle armi: Trump sfrutta per quattro volte il rinvio per motivi di studio, e quando non può più farvi ricorso, accusa un difetto fisico ai talloni per venire definitivamente riformato.
A questo punto Trump, terminati gli studi, inizia a lavorare per l’azienda di famiglia, allora battezzata Elizabeth Trump & Son, dal nome della nonna di Donald, che già nei primi anni del secolo aveva dimostrato un talento imprenditoriale in ambito immobiliare, e con il figlio Fred (padre di Trump) aveva fondato la compagnia nel 1923.
Nel 1973, quando il rampollo ormai in ascesa condivide col padre la gestione della società, una causa civile mette nei guai la compagnia di famiglia: secondo un’associazione di difesa dei diritti civili, infatti, la prassi degli agenti immobiliari dei Trump era di non affittare case a inquilini neri, favorendo invece le domande dei bianchi e violando così la legge sul Fair Housing.
La causa si conclude con un impegno da parte della compagnia a formare i suoi dipendenti secondo le leggi statunitensi che impongono la non discriminazione in campo immobiliare.
Nel 1974 è Donald, allora ventottenne, ad assumere il controllo della società (che nel 1980 verrà ribattezzata una volta per tutte Trump Organization), e con il padre occupato con i quartieri più popolari di Queens e Brooklyn, si dedica a espandere le sue proprietà immobiliari a Manhattan, cuore finanziario di New York.
Il suo primo grande successo è la ristrutturazione di un vecchio hotel, il Commodore, che nel 1980 viene ribattezzato Grand Hyatt e si è dimostra un grande successo, col risultato di rendere Trump il più noto immobiliarista tra i giovani rampanti dell’area newyorchese.
Nel frattempo, nel 1977 ha sposato Ivana Zelnickov Winklmayr, una modella ceca emigrata negli Stati Uniti, con la quale avrà tre figli: Donald J. Trump Jr., Ivanka ed Eric. I due divorzieranno nel 1992, e al primo matrimonio ne seguiranno altri due: nel 1993 con l’attrice Marla Maples, e nel 2005 con la modella slovena Melania Knauss.
Il suo successo, anche a livello di culto della personalità, è sancito nel 1982 con l’apertura di un monumentale edificio sulla Fifth Avenue, la Trump Tower, cinquantotto piani di lusso (l’ultimo dei quali riservato all’ufficio dello stesso Trump) che sono il segnale visibile della notorietà raggiunta dall’imprenditore.
L’altra sua mossa fortunata, risalente agli stessi anni, è quella che riguarda l’apertura di diversi casinò a suo nome, in particolare nella città di Atlantic City, New Jersey, sorta di Las Vegas della Costa orientale.
Trump diventa il simbolo dell’America degli yuppies, idolatrato dagli aspiranti milionari impiegati a Wall Street e corteggiato da riviste, cinema e televisione, che spesso lo vedono in copertina, o ospite per brevi apparizioni. Il libro del 1987 The Art of the Deal, in cui offre i suoi consigli per il successo, diventa un bestseller e ne conferma lo status di massima personalità tra i nuovi ricchi statunitensi.
Se gli anni Ottanta sono il decennio dell’ascesa e della celebrità, i Novanta presentano anche i primi problemi, nella forma di un calo nei ricavati del suo impero immobiliare e in una serie piuttosto lunga di bancarotte (sei, per la precisione), che portano Trump a chiedere prestiti notevoli per evitare che il collasso della compagnia, che nel frattempo ha acquistato resort turistici, campi da golf, una compagnia aerea e un’università privata. Nel 1996 inizia inoltre a collaborare con la tv nazionale NBC, acquistando la Miss
Universe Organization, che si occupa dei concorsi di bellezza Miss America, Miss USA e Miss Teen USA.
Gli anni Duemila vedono Trump toccare un nuovo picco di popolarità quando, a partire dal 2004, il magnate diventa protagonista del reality show della NBC The Apprentice, programma che vede un gruppo di concorrenti impegnati in una serie di prove imprenditoriali per ottenere un posto di lavoro presso la Trump Organization. La frase-tormentone di Trump, pronunciata quando uno dei concorrenti viene eliminato per aver dimostrato scarso talento, è “You’re fired!”, “Sei licenziato”.
Le opinioni politiche di Trump durante questa fase della sua vita non sono un mistero ma, anche se negli anni più di una volta ha espresso la volontà di scendere in campo in prima persona, il suo coinvolgimento non è mai stato concreto, anche perché la sua affiliazione ai due maggiori partiti sembra piuttosto ondivaga: negli anni Ottanta si dichiara sostenitore dei Repubblicani di Ronald Reagan (un outsider arrivato alla politica dopo una carriera da attore), per poi stringere rapporti d’amicizia personale con Bill Clinton e infine schierarsi apertamente contro Barack Obama, di cui mette in dubbio addirittura l’effettiva nascita nel territorio degli Stati Uniti.
È però il 16 giugno 2015 che comincia la “terza vita” di Donald Trump, che dopo i suoi precedenti exploit come magnate dell’edilizia e celebrità televisiva, decide di annunciare ufficialmente, dalla sua Trump Tower, l’intenzione di candidarsi per la carica più ambita del paese, quella di presidente degli Stati Uniti, lanciando per la prima volta lo slogan che porterà avanti per tutta la sua campagna “Make America great again!”, “rendiamo di nuovo grande l’America”.
I commenti dei media variano tra l’incredulità e lo scherno palese, ma nei mesi successivi Trump elimina dalla scena uno dopo l’altro tutti gli sfidanti che avrebbero potuto rubargli la nomination come candidato del Partito Repubblicano: il senatore del Texas Ted Cruz, il governatore dell’Ohio, John Kasich, e l’ex governatore della Florida, nonché figlio e fratello di ex presidenti statunitensi, Jeb Bush.
Lo stesso Grand Old Party, come viene soprannominato il Partito repubblicano, sembra imbarazzato dall’ascesa senza precedenti di questo outsider, che nei suoi comizi trascina le folle parlando di divieto di immigrazione per i musulmani negli Stati Uniti, isolazionismo politico ed economico, sostegno al possesso di armi per i comuni cittadini, supporto al presidente russo Putin, contrasto all’avanzata cinese, maggiore potere alle forze dell’ordine, stop all’arrivo dei rifugiati e addirittura la proposta di costruire un muro che divida il paese dal Messico per evitare l’immigrazione irregolare.
Tutto sembra ricordare i toni patriottici che avevano portato Ronald Reagan al successo nel 1980 e poi, con maggiore margine, nel 1984, quando al grido di “It’s morning again in America”, il presidente-attore aveva risvegliato il patriottismo degli statunitensi facendo leva sull’opposizione al blocco sovietico e favorendo il liberismo a fronte di una crisi
occupazionale molto simile a quella recente.
A maggio 2016, dopo una serie di vittorie alle primarie del partito, Trump guadagna 1.238 delegati, quanto basta per garantirgli la nomination ufficiale, che verrà ufficializzata durante la convention repubblicana, tenutasi a Cleveland nel luglio dello stesso anno, con la scelta di Mike Pence, governatore dell’Indiana, come candidato alla vicepresidenza. Non mancano le polemiche, come quando sua moglie Melania tenne un discorso che sembra plagiato parola per parola da alcune dichiarazioni di Michelle Obama, attuale first lady e teoricamente agli antipodi in quanto a valori politici.
Negli stessi giorni, dopo una battaglia durata mesi contro il senatore del Vermont Bernie Sanders, gli avversari del Partito democratico offrono la nomination ufficiale a Hillary Clinton, già first lady dal 1992 al 2000 e poi senatrice e segretario di Stato per Barack Obama, che l’aveva battuta alle primarie del 2008.
Trump la ribattezza “crooked Hillary”, “Hillary la disonesta”, soprattutto a causa dello scandalo che ha coinvolto Clinton in un’investigazione dell’Fbi riguardo all’uso di account non protetti per lo scambio di email riservate nel periodo in cui era stata segretario di Stato.
Trump subisce un ultimo duro colpo alla sua campagna da parte del Washington Post, che a ottobre 2016 pubblica una registrazione audio risalente al 2005 in cui si sente il candidato alla presidenza pronunciare frasi, poi definite “chiacchiere da spogliatoio”, in cui si vanta del successo dei suoi approcci sessuali a causa della sua celebrità.
I tre dibattiti televisivi che lo vedono opporsi a Clinton vengono unanimemente salutati come vittorie della candidata democratica, i media sono schierati in un fronte compatto contro Trump, e gli stessi esponenti più noti del Partito repubblicano, che dovrebbe sostenerlo, come gli ex presidenti George H.W. e George W. Bush, dichiarano che non lo voteranno.
Trump è ormai per la maggior parte dei media una figura a metà tra lo spauracchio e la caricatura, tra le decine di imitazioni che si susseguono nei programmi televisivi di satira, in cui si ridicolizzano la sua improbabile pettinatura e il colorito arancione, e gli editoriali che in tutto il mondo lo presentano come il possibile artefice di una crisi globale a livello economico e politico.
Un ultimo sussulto alla campagna viene dall’annuncio dell’Fbi secondo cui una nuova serie di email di Clinton è sotto indagine, e fino all’ultimo giorno i sondaggisti sembrano d’accordo nel vedere la candidata democratica in vantaggio, seppur leggerissimo, grazie all’elettorato femminile, a quello di origine latinoamericana e al supporto di Barack Obama, presidente uscente con un tasso di gradimento molto alto.
L’8 novembre gli Stati Uniti vanno al voto e i risultati sembrano però tradire tutte le aspettative: Donald Trump guadagna gli “stati in bilico” più ambiti, ovvero Florida e Ohio, e da lì in poi nella notte comincia una marcia inarrestabile verso una vittoria schiacciante, inattesa, che non dà a Clinton nemmeno l’onore di una battaglia all’ultimo voto. L’ultimo conteggio lo dà vincitore, e quindi presidente eletto, con 290 delegati contro i 218 di Clinton.
All’età di settant’anni inizia una nuova, ennesima vita di Donald John Trump, questa volta come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.
Trump: un sogno americano è disponibile su Netflix.
Il peccato più grave di Trump è aver fatto credere al mondo che con l’arroganza si ottiene quello che si vuole.
"Mi piace""Mi piace"