“E’ un piccolo passo per un uomo, un balzo enorme per l’umanità”: sono queste le parole più famose di Neil Armstrong, primo uomo a mettere piede sulla luna, e di fatto sono anche le uniche che si ricordino.
Armstrong, nato nel 1930 e morto nel 2012, è stato infatti un uomo decisamente schivo e taciturno, se si considera il fatto che nel 1969 ha compiuto personalmente l’impresa che il mondo sognava da millenni, scrivendo istantaneamente il suo nome nei libri di storia.
A partire quindi dalle informazioni decisamente scarse di cui il pubblico contemporaneo era a conoscenza, Damien Chazelle ha richiamato a rapporto il fido Ryan Gosling di La La Land-iana memoria e in First Man – Il primo uomo ha provato a dare forma al mistero di un uomo notissimo e insieme sconosciuto ai più.
Al di là di quei giorni dell’estate 1969, quando la missione Apollo 11 che guidava insieme a “Buzz” Aldrin e Michael Collins toccò la superficie lunare, la vita di Armstrong è rimasta in larga parte un’incognita, e il film tenta proprio di investigare su ciò che non sappiamo, piuttosto che sfruttare l’indubbia spettacolarità dell’allunaggio in sé.
La storia parte infatti dal 1962, quando l’astronauta è ancora solo un ingegnere aerospaziale che decide di mettersi in gioco con i collaudi della NASA, allora impegnatissima a cercare di riguadagnare un primato nell’esplorazione spaziale fino a quel momento monopolizzata dall’Unione Sovietica.
Il film si presenta come un continuo alternarsi delle varie missioni che hanno portato a quel fatidico 1969 con la vita privata di Armstrong, che viene presentato come un tranquillissimo padre di famiglia suburbana all-american, con mogliettina, figlioli e onnipresenti camicie a quadri. Neil ha però anche un segreto che si porta dentro, un dolore profondo che influenza tutte le sue azioni, e che almeno nel film fanno di lui un uomo incapace di comunicare, sempre chiuso nel suo lutto e in grado di concentrarsi molto più sul suo lavoro che sulla vita sociale.
Eccolo quindi passare da una missione rischiosissima, per la quale sa che rischia la vita come i tanti suoi compagni che l’hanno persa, al tipico barbecue con i vicini, sempre senza lasciar trasparire quasi nulla di sé, apparentemente affabile ma in fondo indecifrabile.
Il regista, nel raccontare la storia di Armstrong, fa delle scelte da un certo punto di vista opposte nello stile a quel caleidoscopio di colori, movimenti e suoni che era La La Land: qui la spettacolarità dei film di fantascienza è in larga parte lasciata fuori, per concentrarsi anche nelle scene ambientate nello spazio sul punto di vista ridotto e realistico dei personaggi coinvolti.
Si può fare un film ambientato nello spazio senza cedere alla spettacolarità, soprattutto quando si è appena vinto un Oscar per un musical sfavillante? Insomma, fare dell’anti-fantascienza? A quanto pare sì, e First Man, seppur coi suoi limiti, riesce nell’intento di non far sentire la mancanza di panorami interstellari, complessi movimenti di macchina e astronavi in stile Millennium Falcon.
Solo a un certo punto si concede di citare 2001: Odissea nello spazio, con un valzer stellare che non può non far ripensare allo Strauss di Kubrick, ma per il resto gli effettoni sono lasciati fuori, cercando di dare il più possibile allo spettatore la sensazione di essere lì con i protagonisti, e non di godersi lo spettacolo comodamente seduti su un asteroide di passaggio.
Si soffre di claustrofobia, si notano le tecnologie inadeguate, si trema per il rischio incombente, e soprattutto, seguendo la lezione del reportage sugli astronauti di Tom Wolfe La stoffa giusta (1979, da cui il film Uomini veri), si presenta tutta l’umanità e la normalità di questi eroi moderni, molto lontani da un Bruce Willis e più vicini a professori con un gusto per il pericolo.
Nel complesso il film, pur ricco di scene domestiche che spezzano decisamente la suspense delle sequenze di volo, riesce ad essere spettacolare senza offrire molto di visivamente eccezionale: una scelta di campo piuttosto netta che dimostra come a volte anche al cinema con meno si possa fare di più.
Ryan Gosling si riconferma un attore ottimo nei ruoli “robotici”, dal cacciatore di replicanti di Blade Runner 2049 al pilota taciturno di Drive, e infatti in questo caso realizza il ritratto di un uomo la cui caratteristica più evidente è l’incapacità di comunicare, quasi inumano nella sua ferrea dedizione al lavoro, più a suo agio su un satellite lontano che nella quotidianità terrestre.
Sono abbastanza d’accordo, anche se devo dire che nelle varie situazioni “pericolose” (tipo la missione Gemini 8 o la stessa Apollo 11) conoscere già il finale ha tolto molto pathos e coinvolgimento, cosa che secondo me penalizza molto il film. Sufficienza meritata, ma non è ai livelli degli ultimi lavori di Chazelle in quanto a ispirazione e scrittura, penso.
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