Esistono romanzi che per la loro capacità di rappresentare un certo momento storico e una certa fascia d’età (solitamente quella giovanile) viene automatico definire “generazionali”. La stessa cosa si può dire di alcuni film, da Ecce bombo a Il laureato, da Breakfast Club ad American Graffiti. Piuttosto rari, se non inesistenti, sono invece i casi in cui a fare da perfetta bandiera per una generazione sia un saggio socioeconomico.
Anche solo per questa capacità, e per il grande successo di vendite nonostante il genere, Teoria della classe disagiata merita un’attenzione diversa, che lo fa volare oltre gli steccati ristretti dell’ambito accademico per diventare appunto un oggetto generazionale, specchio dei trentenni del 2018.
Raffaele Alberto Ventura, al suo esordio, sa bene quello che scrive: è lui stesso un trentenne (classe 1983), e di lui sappiamo che dopo un dottorato in Filosofia ora si occupa di marketing a Parigi e scrive sul blog Escathon. Già questa brevissima nota biografica sembra inquadrarlo in uno schema che molti giovani conoscono: un percorso accademico di eccellenza, l’espatrio, la frequentazione dei nuovi media (in mancanza di editori interessati), un’occupazione che non rispecchia gli studi.
E in fondo Teoria della classe disagiata non è che questo: la storia autobiografica, sotto forma di saggio universale invece che di romanzo privato, di una generazione spaesata e delusa, la sua (la nostra) generazione. L’incipit lo spiega chiaramente: “Questo libro inizia da me, come dire che inizia da noi. Inizia con un lamento che è forse il lamento di tutta una generazione, o forse di una singola classe in seno a questa generazione: noi non siamo stati preparati per questa vita agra, ma per un’altra meravigliosa. Il problema è che questa vita non esiste. Non è tragico, non è comico?”.
Tragico perché in effetti l’aspettativa di una vita migliore di quella dei nostri genitori, per chi è cresciuto col mito fiorente del capitalismo anni Novanta, è un dato di fatto comune pressoché a chiunque; comico perché già da quest’inizio il libro anticipa le risatine di chi vede i trentenni attuali (o ancora peggio, i millennials) come degli incapaci viziati, che pretendono un avvenire sicuro ma non sanno sporcarsi le mani con niente.
Probabilmente, a seconda dell’empatia del punto di vista, entrambe le cose sono vere, ma è indubbio il dato di partenza: una generazione cresciuta (e formata a livello accademico) per eccellere – con master, dottorati, lauree prestigiose e così via – che si è poi ritrovata ad affrontare un mercato del lavoro tragicamente diverso rispetto a quello delle proprie aspettative. Ecco quindi i lavoretti saltuari, i contratti brevissimi, i concorsi invisibili, le partite IVA, il lavoro culturale pagato cifre ridicole, insomma l’umiliazione collettiva di chi ha scelto di formarsi ma ora non sa che farsene di tutte quelle nozioni se mancano i luoghi in cui applicarle.
Una generazione, o almeno una parte di una generazione, cresciuta in mezzo agli agi della classe media e ora ritrovatasi a fare i conti con la povertà; cresciuta con la pretesa di un lavoro soddisfacente, magari in ambito culturale, e ora alla prese con quello che capita, se capita; cresciuta con l’attenzione al tempo libero, alla moda e agli svaghi, e distratta dall’imparare materie più utili al proprio futuro.
E’ una classe “disagiata”, esattamente il contrario di quella che l’economista Thorstein Veblen nel 1899 aveva descritto in Teoria della classe agiata, un saggio che descriveva la borghesia del tempo come “una classe oziosa e improduttiva impegnata a rivaleggiare per il prestigio attraverso l’ostentazione dei propri consumi, detti ‘vistosi’ o ‘posizionali’”. Ora invece non c’è più nulla da ostentare.
Ventura, a partire da questo opposto, compie un viaggio a ritroso attraverso molte epoche e molte opere, sia di stampo economico che sociologico che letterario, per spiegare che non c’è nulla di nuovo nella crisi attuale, che i cicli di crescita e decadenza sono sempre esistiti, ma che evidentemente non eravamo preparati all’idea di essere proprio noi la classe disagiata del nostro tempo.
Lo stile probabilmente non piacerà ai puristi dell’accademia proprio per questa sua varietà di riferimenti e materie toccate, da Marx al Bianciardi de La vita agra, da Adorno a Breaking Bad, ma d’altronde è lo stesso autore che dal principio mette le mani avanti, chiedendo “comprensione agli specialisti – di sociologia, di economia, di storia, di critica letteraria, di filosofia… – che vorranno rimproverarmi l’invasione del loro territorio protetto: le risposte alle mie domande nei loro libri non le ho trovate, e ho dovuto andarle a cercare da solo”.
Forse, se va trovato un difetto al libro, è proprio l’assenza di risposte concrete: alla fine, dopo aver passato in rassegna epoche, pensatori e letterati, oltre a una grande rabbia e frustrazione viene spontaneo chiedersi: “Che fare adesso?”, e la domanda risuona nel vuoto. Ma questa è una risposta che forse solo collettivamente si può dare, ed è già un traguardo avere una voce che, evitando il più possibile l’autocompatimento e il piangere miseria, sia riuscita a farsi sentire – da vero testo generazionale – per conto di chi finora non era stato ascoltato.