Rinuncia. Sarebbe difficile trovare una parola più adatta per descrivere il tema principale de L’età dell’innocenza di Edith Wharton, scritto nel 1920 e ambientato cinquant’anni prima, nell’epoca d’oro dell’aristocrazia newyorchese.
I personaggi principali, il giovane nobiluomo Newland Archer e la Contessa Ellen Olenska, sono condannati dall’inizio a rinunciare al loro amore perché lei è la cugina della promessa sposa di lui, ma tutta la società in cui vivono sembra fondata sulla rinuncia: alla sincerità, alla libertà, alle proprie aspirazioni.
La Grande Mela del 1870 descritta con minuzia di particolari nel libro è quella delle grandi famiglie aristocratiche che hanno ereditato la propria ricchezza da generazioni, non devono preoccuparsi di lavorare e sono virtualmente ignari della vita di tutti gli altri comuni mortali che in quegli anni stanno rendendo New York una metropoli. I ricchi frequentano i ricchi, partecipano alle stesse serate all’opera, ballano agli stessi balli, conoscono ogni pettegolezzo, e la grande città sembra un piccolo villaggio in cui nessuno può fare una mossa senza che il resto della tribù degli abbienti non ne venga a conoscenza dopo poche ore.
In questo villaggio di cene sfarzose, ville ultra-decorate e abiti elegantissimi, l’estrema ricchezza non equivale a infinite possibilità: al contrario, ogni vita deve seguire un preciso percorso, ogni azione un preciso rituale, e anche i più anticonformisti sembrano coscienti di essere condannati ad adeguarsi alle regole non scritte ma chiarissime del mondo preciso come un orologio che li circonda.
In un clima del genere ha luogo la possibilità di un amore tra Newland, perfetto gentleman ricco di idee liberali ma poco in grado di sfidare le convenzioni del suo ambiente, e Ellen, scandalosamente separata dal marito e incapace per carattere di adeguarsi a una società di cui non capisce i meccanismi segreti.
Ellen Olenska è una sorta di reietta malvista dall’ambiente di Newland Archer, e quest’ultimo deve combattere tra i dettami di chi lo circonda e la forza della passione, che lo spinge pericolosamente verso una donna perduta, e oltretutto cugina di May, sua promessa sposa e incarnazione della vita tranquilla ma mediocre che lo attende.
Se il primo piano della narrazione è quello di questo amore impronunciabile, lo sfondo è un florilegio di personaggi, luoghi, oggetti che creano un senso di opprimente pressione sempre celata dietro il garbo, il buon gusto, il rispetto delle convenzioni. L’autrice usa una narratrice onnisciente per entrare nei pensieri dei personaggi, anche in quelli che non vorrebbero ammettere a loro stessi, e il risultato è un ritratto intriso di ironia e condanna per l’ipocrisia che regna sovrana in questa corte senza re.
Ecco quindi che la rinuncia diventa un obbligo mai dichiarato, che non si chiede ma si impone, necessario affinché la vita del clan possa continuare e “tutto rimanga com’è”, come un altro romanzo ambientato nella stessa epoca insegnava. Così come i gattopardi di Tomasi di Lampedusa verranno sostituiti dalle iene, anche i nobili newyorchesi verranno sostituiti dagli arricchiti, dai banchieri, dai commercianti, e tutto quello che prima era impensabile diventerà la norma, tutte le convenzioni verranno smantellate. Ma troppo tardi perché in questa storia qualcuno possa trarne qualche vantaggio.
La rinuncia in questa storia è in fondo vana, e proprio per questo la passione inespressa tra i due protagonisti è romanticismo allo stato puro, come tutte le storie soltanto immaginate e rimaste un sogno che è bene resti un sogno, anche quando ormai ci sarebbero le condizioni per farlo diventare realtà, ma il momento magico è ormai perduto.
Nel 1993 L’età dell’innocenza è diventato un film di Martin Scorsese interpretato da Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer e Wynona Ryder, ed è una trasposizione consigliatissima sia a chi abbia amato il libro sia a chi ami il cinema.
Ciao Guglielmo, ti ho lasciato come ottimo assistente al Dams e ti ritrovo come eccellente scrittore. Ormai è passato qualche anno e anch’io mi ritrovo come te nell’arte dei pennivendoli. Ho scoperto di recente il tuo blog segnalato da un’amica comune, ho letto avidamente due articoli e se non ti dispiace mi lancio in un umile commento. Ti conosco e so che non ti offenderai quando dico che sebbene l’articolo sia molto ben scritto mi trovo in disaccordo con la tesi sostenuta. Ho letto il libro molti anni fa, eccellente esercizio di stile, non c’è che dire. Tuttavia i membri della società descritta sono rami di un salice piangente che ormai tocca terra a spiovente. Scusami, Scusami davvero ma non riesco proprio a capire questo compiaciuto elogio di una determinata alta società che tra l’altro non è questa che viviamo oggi ma quella che hanno vissuto ai tempi che furono. Tu stesso dici che il popolo di New York è tutt’altra cosa virgola e avulso dai personaggi che popolano questo mondo di luci e colori punto le buone maniere uccidono dici tu, la lotta di classe uccidoe dico io, uccide Eppure è necessaria. La guerra è bella anche se fa male cantava qualcuno virgola ma la guerra permanentemente combattuta dall’elite contro il popolo, parole assai di moda oggi, fa tante vittime silenziose. Allora quando stiamo osservando i deliziosi corpetti e Gli eleganti Papillon di questi personaggi, pensiamo lì macchiati dal sangue dei vinti, pensiamo agli schiavi neri che lavorano nelle piantagioni di cotone con cui tali capi sono prodotti punto pensiamo al lato b, pensiamo a tutto quello che non si vede pure esiste, pensiamo a tutto il mondo dei proprietari lavorano per mantenere delle teste di c**** come i tuoi personaggi, frutto della tua lurida fantasia malata. E allora cialtrone dei miei stivali la prossima volta Sciacquati la bocca con l’acido parlare di me e della mia gente, che te dice bene che so stanco senno te venivo a cerca. Saluti.
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