Alessandro Baricco – Barnum/Barnum 2: cronache dal Grande Show

A pagina 158 di Barnum 2, Alessandro Baricco cita Palomar (1983) di Italo Calvino, e descrive così lo stile di quel libro: “Astenersi dalla letteratura, e limitarsi a descrivere. […] azzerare tutto l’aspetto seduttivo, canagliesco, della narrazione e puntare dritto al cuore delle cose, cercando di arrestarti un passo prima del meretricio del narrare, dove ancora il gesto che fai è semplicemente: nominare”. Secondo Baricco, il signor Palomar del titolo, con un nome che non a caso è ripreso da quello di un osservatorio astronomico, “guarda le cose – si attiene a guardare le cose – per catturare la loro verità”.

Bene, quello che fa Baricco in Barnum (e Barnum 2) è esattamente l’opposto: invece dello stile asciutto, asettico, scientifico che mira a scomporre il complesso per ridurlo alle sue parti semplici, l’autore torinese parte da un evento, un oggetto, un’esperienza, e dà sfogo a tutta la sua abilità nel costruirgli attorno un discorso più ampio.

L’origine di questi due libri (uno il seguito dell’altro) ha luogo nel 1994, quando lo scrittore, all’epoca trentaseienne e migliore promessa della giovane letteratura italiana dopo Castelli di rabbia e Oceano mare, propone a Ezio Mauro, all’epoca direttore de La Stampa, di avviare una rubrica settimanale sul suo giornale intitolata Barnum. “Barnum come quello del circo. Perché tutto quel che vedevo, intorno, mi sembrava un grande spettacolo di clown, domatori e acrobati: e mi piaceva l’idea di provare a raccontarlo”. Alcuni esempi? “La faccia di Funari, la gente che va ai comizi di Bossi, l’ultimo Puccini dato alla Scala, come canta Tom Waits, la Cappella Sistina ripulita dai giapponesi, una partita di hockey”.

Il direttore si convinse, e Baricco iniziò una rubrica che andò avanti per alcuni anni, e di cui questi Barnum e Barnum 2, usciti rispettivamente nel 1995 e nel 1998, non sono altro che la raccolta in forma di libro.

Al giorno d’oggi il nome di Baricco è uno tra i più divisivi del panorama letterario: da una parte i fan, che ne fanno comunque uno degli autori più venduti in Italia; dall’altra i detrattori, che col tempo lo hanno ridotto a macchietta della narrativa di basso rango, sullo stesso piano di un Fabio Volo o di un Federico Moccia nell’immaginario collettivo alla categoria “scrittori da disprezzare obbligatoriamente”.

Ebbene, leggere questi due libriccini vuol dire notare innanzitutto l’incommensurabile distanza tra un Volo qualsiasi e Baricco, che fatta la tara su un carattere forse non simpaticissimo e su una prolificità forse eccessiva, è indubbiamente notato di un talento affabulatorio come pochi. Nelle sue mani, lo spazio ristretto di due-tre pagine ad articolo diventa fecondo di riflessioni, battute fulminanti, citazioni curiose, sfoggi di cultura della più varia, dalla musica classica al baseball.

Si lodano tanto (giustamente) i reportage di David Foster Wallace come Una cosa divertente che non farò mai più – sulle crociere – o Invadenti evasioni – sulla Fiera Statale dell’Illinois –, ma su scala molto ridotta (in quanto a lunghezza) questi resoconti di esperienze varie fanno qualcosa di molto simile.

Ci si può sorprendere, seguendo l’autore nei suoi pellegrinaggi nei luoghi più vari, a interessarsi di lirica anche se non si distingue Puccini da Rossini (Baricco prima che come romanziere è nato come esperto dell’argomento); a immaginare la fila all’inaugurazione del nuovo Louvre a Parigi; a seguire incontri di pallanuoto, hockey, rugby e pallone elastico; a rivalutare Jovanotti; a ricordare l’apparizione mistica della cometa Hale-Bopp; a emozionarsi per un film su Muhammad Ali; a farsi un film mentale a partire da una canzone di Springsteen.

Da un articolo all’altro si passa come niente fosse dalla prima della Scala all’esegesi di Mr. Bean, ed è sorprendente quanta densità di spunti e maestria nella scrittura ci siano in quelle tre paginette, a volte forse troppo enfatiche (com’è nel suo stile), troppo iperboliche, ma nella loro brevità in grado di non tediare e anzi di farsi leggere tutte d’un fiato, come le avventure a puntate di un James Bond continuamente sballottato da un Paese all’altro, da un evento all’altro.

Perché a differenza del signor Palomar, Baricco sceglie di non limitarsi a “guardare le cose per catturare la loro verità”, ma gli costruisce intorno tutta un’aura fino a farle diventare leggenda, mito, le gonfia a dismisura fino a fargli perdere il loro status di realtà e diventare letteratura. E nel suo saper costruire così tanto attorno all’avvenimento più blando e passeggero, c’è tutto il gusto di quello che Walter Benjamin chiamava “il lato epico della verità”.

Barnumm

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