Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.
Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.
Via al volume 7! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Sin City – Una donna per cui uccidere (Sin City: A Dame to Kill For)
Frank Miller e Robert Rodriguez, 2014
Avevo visto il primo Sin City (sempre di Rodriguez e Miler, 2005) al tempo in cui uscì, e mi era piaciuto per la grande originalità con cui creava uno stile visivo inconfondibile a metà tra fumetto e noir metropolitano, così come per le grandi interpretazioni crepuscolari di vecchi duri come Bruce Willis e Mickey Rourke.
Solo poco tempo fa però avevo trovato in un mercatino (benedetti siano i mercatini) una copia della graphic novel di Miller intitolata Una donna per cui uccidere, che consta di circa 200 pagine in bianco e nero e rappresenta il secondo capitolo di una saga a fumetti composta da sette volumi.
Quindi mi sono approcciato a questo film più con gusto filologico che altro, guardandolo sfogliando il fumetto per capire quanto fosse passato dalla carta alla celluloide. Devo dire che non sono affatto rimasto deluso: vedere una storia disegnata prendere forma cinematografica in tempo reale è un’esperienza molto gustosa, e gli autori del film hanno fatto un ottimo lavoro nel riprendere moltissimi dialoghi pari pari, così come nel ricreare fedelmente le vignette di Miller.
La storia – un noir violentissimo a base di femme fatales, poliziotti corrotti e picchiatori – che prende corpo nel fumetto è solo una di tre che compongono il film, e forse questo è il difetto principale della trasposizione cinematografica, perché una volta terminato il racconto centrale, il resto del film sembra un riempitivo sempre stiloso ma troppo slegato dal resto per dare una forma unitaria al tutto.
Vabbè, diciamo pure senza ombra di sessismo che un film che veda Eva Green priva di vestiti nell’80% per cento delle sue scene merita la visione a priori.
La fonte meravigliosa (The Fountainhead)
King Vidor, 1949
A volte le vie che portano alla visione di un film sono lunghe e tortuose, e probabilmente è anche questo il bello di prendere mentalmente nota di qualcosa e approfondirlo solo dopo molto tempo. Avevo intercettato il nome di Ayn Rand molti anni fa, quando un suo libro, La rivolta di Atlante (1957), compariva tra le mani del rimpianto Don Draper, protagonista della serie tv ancora ineguagliata nei suoi riferimenti chic, Mad Men.
Nata in Russia nel 1905, questa scrittrice si era poi trasferita negli Stati Uniti intorno ai vent’anni per dare vita a una produzione letteraria che attraverso la fiction dava forma alle sue idee filosofiche basate sull’individualismo e sul liberalismo, che presto ne avrebbero fatto un’eroina della destra americana ostile alle ingerenze statali.
Questo film è tratto da un suo libro omonimo, e la sua mano come sceneggiatrice si sente: si tratta infatti della storia di un architetto (il Divo per antonomasia dell’epoca, Gary Cooper) che si batte contro tutto e tutti e accetta anche il rifiuto della società pur di perseguire le proprie idee artistiche e non piegarsi al conformismo.
Su tutto il film aleggia un’ideologia di superomismo nietzschiano, con i “cattivi” che ripetono frasi come: “Un uomo superiore è un insulto a quelli comuni. Non dobbiamo possedere alcuna virtù che non possiedano tutti”, o “L’arte ha valore collettivo se rappresenta una moltitudine”, mentre l’eroe declama massime come: “Chi crea si basa sul proprio giudizio, il parassita si basa sull’opinione degli altri”, e “Per riuscire devi amare la tua opera, non la gente”.
Lo spunto sarebbe interessante: una sorta di Quarto potere meno barocco, in cui assistiamo alla caduta e poi all’ascesa di un uomo convinto fino all’estremo delle sue idee. Purtroppo però un impianto ideologico può reggere metà film ma poi diventa ripetitivo, e l’inevitabile storia d’amore del protagonista butta tutto sul melodramma antiquato, con lei a metà tra Lady Chatterley e la Ingrid Bergman di Casablanca, che rinuncia al suo lui per troppo amore.
Affascinante come oggetto strambo, comunque, e indubbiamente grandi le interpretazioni degli attori principali, con Patricia Neal che al primo anno di carriera sembra già un’attrice di grande mestiere.
Come ti ammazzo un killer (The Survivors)
Michael Ritchie, 1983
Ho l’impressione – probabilmente soltanto soggettiva e senza alcuna prova empirica – che da quando Robin Williams ha purtroppo messo fine alla sua vita nel 2014, ci sia stata una sorta di generale rimozione collettiva della sua figura. Il fatto che ci avesse fatto ridere per più di trent’anni, dai tempi di Mork & Mindy fino alla saga di Una notte al museo, era talmente agli antipodi con lo choc della sua morte così cruda, che è come se avessimo voluto cancellarlo per dimenticare il brutto finale della sua storia.
Per ovviare a questa generale mancanza ho pensato di andare a recuperare un titolo nascostissimo della sua filmografia che avevo intercettato solo una volta per caso da ragazzino, girato quando Williams era più noto come attore televisivo e cabarettista che come star del cinema (il botto di Good Morning, Vietnam sarebbe arrivato nel 1987).
In perfetto stile buddy movie, alla Arma letale o Non guardarmi: non ti sento, il giovane Robin qui è affiancato dal vecchio lupo di mare Walter Matthau, come sempre intento a opporre i suoi grugniti da burbero all’effervescenza incontenibile e invadente del compagno di scena. I due si ritrovano per caso coinvolti in una rapina, ed essendo gli unici che hanno visto il rapinatore in volto devono evitare di farsi ritrovare dal malvivente, che intende liberarsi degli scomodi testimoni. Le cose si complicano quando Williams decide di iscriversi a un campo d’addestramento di paramilitari fascistoidi per essere pronto a qualsiasi tipo di attacco.
L’alchimia tra i due funzionerebbe pure, ma la trama è quanto di più inconsistente ci sia, e la critica a certe manie americane per le armi e l’autodifesa non è abbastanza per reggere il film. Un’occasione sprecatissima.
Conan il barbaro (Conan the Barbarian)
John Milius, 1982
E’ chiaro che da un film che abbia come protagonista un Arnold Schwarzenegger costantemente seminudo, coi capelli lunghissimi e che ammazza più nemici di quante frasi pronunci, non ci si può aspettare chissà quali vette intellettuali, quindi sì, sapevo a cosa andavo incontro.
Tratto da un fumetto nato negli anni Trenta, e ambientato in un mondo mitologico a metà tra il medievale, il desertico e il vichingo, dove esistono stregoni, serpenti enormi e tutti girano in toga, questo fu il primo vero successo di Arnold prima del boom di Terminator, due anni dopo.
Scritto da John Milius e Oliver Stone, quindi due che teoricamente di cinema se ne intendono, il film è sicuramente spettacolare a livello visivo, ma tocca vette di trash e di pseudo-fascismo notevoli con una voce fuori campo esageratamente solenne, frasi come “si congiunse con donne della razza migliore”, e valori come “Schiacciare i nemici, inseguirli mentre fuggono e ascoltare i lamenti delle femmine” (letterale).
Inizia anticipando Mad Max – Oltre la sfera del tuono (1985), con Arnold impegnato a combattere in gabbia, ma in confronto l’avventuriero muto di Mel Gibson era un nobiluomo inglese, e qui ogni occasione è buona per mostrare tette o squartamenti in alternanza. Max von Sydow, passato da Bergman alla parte di un vichingo con baffi da Gengis Khan, è uno choc notevole. Buon intrattenimento per i quattordicenni, ma superata quell’età non regge.
Alta tensione (High Anxiety)
Mel Brooks, 1977
In linea di massima, quando iniziamo un film di Mel Brooks sappiamo cosa ci aspetta: dagli anni Settanta in poi, i suoi film sono stati all’insegna di un umorismo più o meno riuscito che nei decenni ha parodizzato ogni possibile genere cinematografico: horror (Frankenstein Junior), western (Mezzogiorno e mezzo di fuoco), fantascienza (Balle spaziali), cappa e spada (Robin Hood – Un uomo in calzamaglia), film muti (L’ultima follia di Mel Brooks).
In questo film del ’77, Brooks è anche attore protagonista e sceglie di rifarsi a una tipologia di film ben precisa, quelli di Alfred Hitchcock, e lo fa con un’attenzione maniacale al dettaglio, che in collaborazione con direttore della fotografia, montatore e compositore gli fa ricreare esattamente le atmosfere che rendono un film “un film di Hitchcock”.
La storia è quella di uno psicologo rinomato che viene chiamato a dirigere un manicomio, ma scopre di essere finito in mezzo al classico intrigo per il quale egli stesso rischierà di essere scambiato per il colpevole.
L’umorismo generale è abbastanza infantile e antiquato, a base di psicanalisti con l’accento tedesco, scenette tirate per le lunghe e battute un po’ fiacche che cadono nel vuoto, ma qua e là ci sono anche belle trovate metacinematografiche, come la macchina da presa che dall’esterno di una stanza si avvicina alla finestra e rompe il vetro, con tutti i presenti che si voltano.
I momenti migliori sono quelli che riprendono le scene più celebri, come quella della doccia di Psyco, con l’inchiostro di un giornale che sostituisce il sangue nello scarico, o quella in stile Gli uccelli con uno stormo di piccioni che bombarda di merda il povero Mel. (E a proposito, è capace di una perfetta imitazione di Frank Sinatra).
Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Rispondi