Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.
Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.
Via al volume 6! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Il sacrificio del cervo sacro (The Killing of a Sacred Deer)
Yorgos Lanthimos, 2017
Consapevole delle mie colpe, ammetto che finora soltanto La favorita (2018) rientrava tra i film del regista greco Lanthimos che avessi effettivamente visto e non solo sentito nominare. Probabilmente spaventato dall’aura di incomprensibilità che aleggiava su questo film e sui suoi precedenti, avevo finora evitato il contatto, ma devo dire che in questo caso l’ermetismo paventato è stato più che apprezzato.
Si tratta di uno di quei film in cui rivelare anche un paio di righe di trama equivarrebbe a uno spoiler, ma si può dire che la storia riguarda l’apparentemente tranquilla vita di un chirurgo (l’inaspettato Colin Farrell), di sua moglie (una Nicole Kidman tornata ai giorni dei suoi ruoli rischiosi) e dei loro due figli, un ragazzino e un’adolescente.
L’arrivo di un ragazzo misterioso e inquietante, che sembra condividere un segreto col padre di famiglia, porterà a conseguenze da pelle d’oca e horror puro, di quello che trae la sua forza non da sangue e salti sulla sedia ma da un’atmosfera sapientemente cesellata di musiche, inquadrature, silenzi e atteggiamenti volti a creare una tensione insostenibile.
Il tutto è ispirato al mito greco di Ifigenia (da qui il titolo misterioso), e un po’ come nei miti greci in cui il pover’uomo vittima dei giochi degli dei non può che accettare il suo destino incomprensibile, il film costringe lo spettatore ad accettare quanto succede senza pretendere troppe risposte, così come fanno i protagonisti impotenti e confusi. In qualsiasi ruolo mi capiterà di rivederlo, difficilmente guaderò nuovamente Barry Keoghan con gli stessi occhi.
Sogni (Yume)
Akira Kurosawa, 1990
In un mondo occidentale che, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, si è invaghito sempre più della cultura giapponese, tra anime, manga, Miyazaki e Neon Genesis Evangelion, il nome di Akira Kurosawa è forse un po’ dimenticato. Eppure per tutta la seconda metà del Novecento è stato il regista nipponico più stimato, e anche chi non avesse mai visto un suo film è sicuramente venuto a contatto indirettamente con la sua arte: I magnifici sette è ispirato al suo I sette samurai, Per un pugno di dollari di Sergio Leone è ripreso pari pari dal suo La sfida del samurai (con tanto di citazione per plagio), e ogni film che racconti un evento da più punti di vista deve qualcosa al suo Rashomon.
Nel 1990 Kurosawa è anziano e non gira un film da cinque anni, ma ha tra i suoi fan dei pezzi grossi di Hollywood come Steven Spielberg e George Lucas, che prima gli consegnano in coppia un Oscar alla carriera e poi, pur di rivedere il maestro al lavoro, gli finanziano questo film. Già che c’è, Martin Scorsese si presta pure a una rarissima parte da attore, e interpreta nientemeno che Vincent Van Gogh con una barba tinta di rosso!
Il risultato è un film a episodi – otto per la precisione – che come da titolo hanno la qualità misteriosa e inesplicata dei sogni, e sono legati tra loro solo dalla presenza di un personaggio che, prima bambino e poi adulto, sembra impersonare proprio il regista. Probabilmente chi ha una conoscenza approfondita della cultura giapponese, delle sue tradizioni, delle sue leggende, della sua spiritualità e dei suoi simboli, apprezzerà molto più di me questo film che per chi è ignorante della materia risulta piuttosto ermetico e costituito da episodi brevi e troppo privi di conclusioni.
Quello che però è apprezzabile da chiunque è l’aspetto visivo, perché si tratta di uno dei film dalle immagini più belle e pure che si possano trovare in giro, in grado di farci camminare tra i campi di grano dei quadri di Van Gogh, di mostrare lo spettacolo dei peschi in fiore o di immergerci magicamente in una foresta popolata di demoni e spiriti misteriosi.
I vicini di casa (Neighbors)
John G. Avildsen, 1981
John Belushi: ma certo, il mito! L’anima dei Blues Brothers, il Bluto di Animal House, gli sketch al Saturday Night Live… E poi Dan Aykroyd! L’altra metà dei fratelli Blues, il rampante viziato di Una poltrona per due, l’acchiappafantasmi di Ghostbusters… Senza contare alla regia John G. Avildsen, premio Oscar nientemeno che per il primo Rocky nonché autore del cult anni Ottanta Karate Kid. Insomma, cosa può andare storto?
Tutto.
Questa commedia, realizzata poco prima della morte prematura del buon Belushi e subito dopo The Blues Brothers (con la speranza di bissarne il successo con gli stessi protagonisti), è stata giustamente dimenticata, ma probabilmente sarebbe stato meglio bruciarne le copie rimanenti e seppellirne le ceneri in Antartide.
Belushi interpreta un professore borghese di mezz’età che vive con una moglie che non lo apprezza particolarmente, e da un giorno all’altro si vede piombare nella sua vita i nuovi vicini, ovvero Aykroyd in versione pazzo insopportabile e la femme fatale Cathy Moriarty (già vista in Toro scatenato).
L’atteggiamento di questi ultimi – lui invadente e sopra le righe, lei che seduce apertamente Belushi dal primo istante – è talmente improbabile e fastidioso che il film fa apparire da subito antipatici tutti i personaggi, e dopo venti minuti uno non ha alcuna voglia di sapere come andranno le cose nel vicinato.
Evitare categoricamente per non sporcare la memoria di un grande duo.
Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise)
Brian de Palma, 1974
De Palma è un mistero notevole della generazione di registi anni Settanta nota come New Hollywood: inizialmente facente parte a tutto tondo dei cosiddetti movie brats, i nerd cinefili che avrebbero preso il potere facendo soldi a palate come George Lucas, Steven Spielberg e Martin Scorsese, nella carriera avrebbe poi alternato trionfi di stile a ciofeche paurose.
Questo fa sì che al giorno d’oggi alcuni suoi film come Scarface (1983), Gli intoccabili (1987), Carrie – Lo sguardo di Satana (1976) o perfino Mission: Impossible (1996) siano considerati dei classici, ma la sua filmografia recente sia fuori da ogni radar e la sua fama sia poco paragonabile a quella dei colleghi sopracitati.
Uno dei motivi può essere un film come questo, che si propone come un aggiornamento musical/horror/drammatico del Fantasma dell’opera all’epoca del rock, ma risulta un trionfo di cattivo gusto che fuoriesce da ogni pettinatura.
Il giovane compositore protagonista, che scrive pezzi degni del peggior Barry Manilow, viene sfruttato da un produttore dall’aria mefistofelica che ne ruba l’arte per i suoi successi e ne causa l’apparente morte, ma il tastierista tornerà in stile Joker, sfigurato e mascherato, per vendicarsi. (Da notare che nel suo abito di scena da fantasma, il protagonista è stato sicuramente d’ispirazione per il Darth Vader dell’amico George Lucas, visto che porta un’armatura nera con casco e ha una scatoletta sul petto che ne modula la voce robotica.)
Per il resto, è un trionfo di quei trucchetti kitsch che spesso rendono imbarazzante il grande talento registico di De Palma: split screen, zoom, dissolvenze creative, fotografia patinata, canzoni a metà tra Meat Loaf e i Darkness, capelli e outfit imbarazzantissimi, citazioni di Psyco con sturalavandini nella doccia. Il tutto sembra anticipare il Rocky Horror Picture Show (1975), ma almeno lì la vocazione camp e divertita era dichiarata fin dall’inizio, mentre qui il mix tra dramma, musica, jeans a campana e sculettamenti è decisamente malriuscito.
Interessante, semmai, notare come già nel 1974 il mondo del rock, dieci anni prima della parodia di culto This Is Spinal Tap, fosse già pronto per essere caricaturato con tutti i suoi cliché di eccessi ancora oggi imperanti.
The Avengers
Joss Whedon, 2012
Che dire? Ci ho riprovato. Avevo avuto un incontro fugace con i Vendicatori al cinema quando, complice un biglietto omaggio trovato nell’uovo di Pasqua (non sto scherzando), avevo deciso di capire se Age of Ultron meritasse il successo planetario.
Il risultato era stato uscirne con una gran confusione in testa, non solo per le acrobazie ed esplosioni che avevano occupato la gran parte dei 141 minuti del film, ma anche per il fatto che il tutto sembrasse rimandare a eventi precedenti che solo un conoscitore della saga potesse apprezzare.
Così sono partito da quello che credevo potesse essere un buon compromesso per evitare di dover guardare qualcosa come VENTI film tra i vari Thor, Iron Man, Superpippo e compagnia: il primo Avengers, del 2012.
Be’, posso affermare che, pur essendo il primo, riesce ad apparire confuso e privo di trama per chiunque non conosca a memoria le vite precedenti dei personaggi, e a parte qualche battutina ironica qua e là (gli va riconosciuto il fatto di non prendersi esageratamente sul serio, per fortuna), il tutto è un enorme trionfo dei curatori degli effetti speciali e poco altro.
Probabilmente gli unici che possono davvero emozionarsi nel guardarlo sono gli attori protagonisti, per i quali è stata la benedizione che, dopo anni di film mediamente seri, li ha resi fantamiliardari per saltare davanti a uno schermo verde con una tutina addosso. Non escludo di costringermi a cominciare la saga Marvel fin dall’inizio pur di non sentirmi dire “Eh, ma se non vedi quelli prima è normale che non apprezzi”, ma nel frattempo condivido le tesi del buon Scorsese riguardo all’invasione dei film-luna park.
Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)