Era fine 2011 quando, complice un blog con storie pubblicate “ogni maledetto lunedì su due”, la voce si sparse per la prima volta: in giro c’era un nuovo fumettista che, come un attore o una rockstar, si candidava a portavoce di un’intera generazione, e per farlo usava un micidiale mix di talento artistico, umorismo e riferimenti pop.
La generazione era più o meno quella di tutti i nati negli anni ’80, e il fumettista classe 1983 era Michele Rech, in arte Zerocalcare.
Nel 2020, dopo qualcosa come un milione di copie vendute e una popolarità che nell’ultimo anno non ha fatto che ingigantirsi grazie ai passaggi su La7 di “Rebibbia Quarantine”, Zerocalcare ha ampiamente dimostrato di non essere un fenomeno di una stagione, e la sua produzione col tempo si è semmai fatta più ambiziosa e consapevole.
È per questo che Scheletri (Bao Publishing, 288 pagine), uscito il 15 ottobre e già un successo, è allo stesso tempo una conferma dell’assenza di limiti alla creatività del fumettista romano, ma anche la prova di una certa fatica nell’essere veramente a proprio agio con qualcosa di diverso.

Partiamo dalla storia: Scheletri è ambientato per buona parte nel 2002, anno in cui il protagonista Calcare lascia le certezze del liceo e, con il prof. guerrigliero Noam Chomsky come spirito-guida, si iscrive alla facoltà di Linguistica, dove però in breve tempo si rende conto di essere un pesce fuor d’acqua, in difficoltà con le materie di studio e incapace di integrarsi con i nuovi colleghi.
Questo scoglio inaspettato, per lui che è figlio di una madre prima laureata della famiglia, si traduce in un mostro che gli cresce dentro giorno dopo giorno, e che lo spinge a fingere di andare a lezione preferendo invece passare ore sulla metro, avanti e indietro tra un capolinea e l’altro.
È qui che Calcare, in piena crisi esistenziale e incapace di confidare a qualcuno il suo segreto, incontra Arloc, un graffitaro sedicenne dall’adolescenza difficile, che diventerà una figura centrale di quella stagione e lo porterà a contatto con realtà socialmente ed emotivamente devastanti che, come scheletri nell’armadio, avranno un’eco anche nel 2020.
“Tutti quanti hanno un segreto, Sonny/Qualcosa che non possono proprio affrontare/Certa gente passa tutta la vita a cercare di mantenerlo/Se lo porta dietro a ogni passo che fa/Finché un giorno o l’altro se ne libera, se ne libera o lascia che lo trascini giù/Dove nessuno fa domande, o ti guarda in faccia troppo a lungo/Nel buio ai margini della città”. Cantava così Bruce Springsteen nel 1978 in Darkness on the Edge of Town, e quelle parole sembrano adattarsi bene a questa storia di segreti, scheletri nell’armadio, disagio sociale e passaggi all’età adulta.

Il libro inizia, come fosse Velluto blu, con il ritrovamento casuale da parte del protagonista di un brandello di corpo: lì un orecchio, qui un dito, e le vicende che seguono non hanno molto da invidiare al film di Lynch in quanto a spietatezza. Zerocalcare parte dal thriller, dal whodunnit in pieno stile giallo, per riempirlo man mano di spaccati sociali di una periferia romana che, come Rebibbia è al capolinea della metro, sembra essere alle Colonne d’Ercole della civiltà, tra criminalità, violenza famigliare, droga, discriminazione e ignoranza.
Questo sottobosco fatto di eroinomani dal cuore d’oro, punk dalla cresta rossa, maschi alpha prevaricatori, spacciatori nazisti, centri sociali e sale giochi d’antan, offre un’atmosfera decisamente più cruda che nelle “storielle” di una volta: il mondo della fantasia, quello dei rimandi ai cartoni animati, è ancora presente, ma ha fatto largamente spazio a un maggiore focus su una realtà amara. Un po’ come Woody Allen, che nell’autobiografico Stardust Memories (1980), era tormentato da fan che gli ricordavano di amare “specialmente i suoi primi film, quelli comici”, anche qui il lettore potrebbe sentirsi un po’ soffocato da tanto realismo e desiderare quel senso di comfort legato ai problemi comuni, leggeri, generazionali delle sue vecchie storie.
Anche perché, nel volersi destreggiare in equilibrio tra autobiografia e invenzione, a volte i toni sono un po’ troppo cinematografici per risultare veri, e si ha la sensazione che un aiutino per rinforzare la sceneggiatura (e il finale troppo brusco) non avrebbe guastato.
Questo non significa però che Zerocalcare non sia più che mai onesto del raccontarsi: per quanto il libro oscilli tra l’autobiografia (si disegna perfino con meno capelli del solito!) e la pura fantasia narrativa (che a volte suona un po’ troppo cinematograficamente esagerata), è toccante scoprire il suo antico senso di solitudine e diversità all’università ora che è un idolo degli universitari, così come osservarlo preda dei dubbi perché eccezionalmente vincente sul lavoro, ma scarsissimo in tutti gli altri aspetti della vita.

Non mancano poi le zampate umoristiche di un tempo sulla quotidianità dei trentenni, come nel caso della fantomatica “Commissione per il mutuo soccorso tra falliti”, un “organismo metafisico che regola gli equilibri nei rapporti di amicizia in materia di lauree, trasferimenti, fidanzamenti, matrimoni, figli”, e che ogni buon amico dovrebbe rispettare prima di fare un passo importante nella propria vita.
C’è però anche la sensazione che, dopo dieci anni in cui non è diventato solo un fumettista di successo, ma anche una sorta di santo laico impossibilitato a dire o fare qualcosa di immorale, Zerocalcare per primo si senta costantemente il fiato sul collo in tema di politicamente corretto (l’ha detto anche in una recente intervista con Stefano Feltri), e quindi si senta in dovere di fare distinguo forse eccessivi sugli usi consentiti o meno del verbo “in*ulare”.
Insomma, la lettura scorre rapidissima ed è impossibile non farsi catturare da una storia che è un tiratissimo thriller condito da riflessioni esistenziali, ma forse il neo-neorealismo in stile L’odio o Non essere cattivo suona un po’ troppo artificioso nelle sue mani, e questo approccio nuovo al giallo urbano lo porta a un finale mozzato che, come quel dito, lascia con l’insoddisfazione di non saperne di più.