Siamo tutti figli di Spielberg

Steven Spielberg è il regista più inevitabile della storia del cinema. Alcuni lo amano, altri lo odiano, altri ancora ne ricordano con piacere i fasti di un tempo snobbandone le prove più mature, ma nessuno può estirparlo dalla propria vita.

Più di qualsiasi altro regista, e nel calderone potrebbero starci anche mostri sacri quali Hitchcock, Kubrick o Fellini, Spielberg ha plasmato intere generazioni e le ha fatte sue, imponendo un marchio nelle loro vite che volenti o nolenti è impossibile cancellare.

Seguendo la massima attribuita all’Ordine dei Gesuiti, Steven Allan Spielberg, classe 1946, ha detto al mondo: “Datemi un bambino fino ai sette anni e vi mostrerò l’uomo”. A partire dal 1975, anno del suo primo straordinario successo, Lo squalo, il regista di Cincinnati ha ipnotizzato come un prestigiatore ogni bambino sotto i sette anni, e anche molti tra quelli più grandi.

Per questo, volenti o nolenti, pressoché tutti i nati suppergiù tra il 1965 e il 1990 non possono non dirsi spielberghiani, e nemmeno quelli che per età sono arrivati agli schermi quando la sua firma era ormai meno in grado di incidere così fortemente sull’immaginario collettivo infantile. D’altronde, Shrek (2001), Transformers (2007) e relativi seguiti sono stati prodotti con i suoi soldi, Jurassic World (2015) è suo discendente diretto, ed è impossibile immaginare gli adorabili marmocchi in bicicletta di Stranger Things senza i loro coetanei di E.T. (1982) o I Goonies (1985).

Ciò che Spielberg ha toccato, come regista o produttore, in linea di massima tra il 1975 e il 1993, occupa da solo un 40% dell’immaginario collettivo di bambini e adolescenti di fine secolo, e basta elencare i titoli per rendersi conto che non si tratta di un’esagerazione. Come regista, tra gli altri, ha firmato Lo squalo (1975), la saga di Indiana Jones (1981-1989), E.T. l’extra-terrestre (1982), Hook – Capitan Uncino (1991) e Jurassic Park (1993). Come produttore, ha guidato con mano a volte fin troppo evidente una schiera di pupilli, da Zemeckis in giù, che hanno rivoluzionato l’idea di blockbuster e creato i sogni e gli incubi di tutti i ragazzini dell’epoca: Gremlins di Joe Dante (1984), I Goonies di Richard Donner (1985), Ritorno al futuro (1985-1993) e Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) di Robert Zemeckis, Poltergeist – Demoniache presenze di Tobe Hooper (1982), Fievel sbarca in America (1986) e Alla ricerca della Valle Incantata (1988) di Don Bluth.

Oggi ci sembrano classici senza tempo, ma il fatto è proprio questo: prima di Spielberg, questo genere di film si può dire non esistesse. Certo, esistevano i cartoon Disney fin dai tempi di Biancaneve, ed esistevano i film in carne ed ossa prodotti dalla stessa major in stile Il maggiolino tutto matto, ma tendenzialmente i successi al cinema erano una questione per adulti, o almeno per giovani un po’ più scafati.

Per rendersene conto, basta dare un’occhiata ai nomi che svettavano nelle classifiche degli incassi più alti negli anni Settanta: i nuovi assi della New Hollywood rendevano oro al box office delle storie dark e complesse come 2001: Odissea nello spazio, Il braccio violento della legge, L’esorcista, Il padrino. Quando nell’estate 1975, Lo squalo (terzo lungometraggio di Spielberg) esce e batte ogni record di presenze, è sì l’inizio di una nuova era, ma il tono è ancora influenzato da un certo clima “adulto” dell’epoca.

Quando però il compare di sempre, George Lucas, ottiene incassi ancora più alti nel 1977 col primo Guerre stellari, la rotta è segnata per sempre: il nuovo pubblico di riferimento sono i dodicenni, ed è a loro che guarderanno i film più remunerativi degli anni Ottanta, Novanta e oltre (The Avengers dice qualcosa?).

Lo sguardo da fanciullino del trentenne Spielberg si imprime su tutta Hollywood, le sue famiglie senza padri tra le case dell’America rurale diventano le famiglie-tipo, le colonne sonore di John Williams (non a caso collaboratore anche di Lucas) diventano le colonne sonore universali delle emozioni: per il terrore il dan-dan c’è Lo squalo, per l’avventura Indiana Jones, per la fantasia interstellare Incontri ravvicinati del terzo tipo, per il cinema tout court la melodia sognante di E.T..

Certo, c’è un prezzo: i suoi personaggi, a differenza degli eroi ribelli di altri suoi coetanei, sono spesso sentimentali, conservatori e conformisti, pressoché sempre persone ordinarie in situazioni straordinarie, americani medi con valori americani positivi opposti a burocrati e uomini d’ordine con valori americani meno positivi.

Non gli si chiedano storie troppo provocatrici, eccessive ribellioni al sistema, prese di posizione scomode: il massimo della trasgressione sarà l’Arca dell’Alleanza nascosta dal Palazzo in fondo a un enorme magazzino. La ribellione di Spielberg è nel suo essere fieramente un eterno bambino, un sognatore, un outsider, che come la buonanima di Francois Truffaut in Incontri ravvicinati… sembra un alieno tra gli adulti tutti uguali ma si sente a casa davanti a un extraterrestre.

Spielberg, nella prima parte della sua carriera, ogni tanto prova a fuggire da se stesso e dal dodicenne che vive dentro di lui, a concentrarsi su progetti più “seri”, ma non sempre va bene: la commedia demenziale, ma fin troppo raffinata, 1941 – Allarme a Hollywood (1979), è il suo primo fiasco; Il colore viola (1985) e L’impero del sole (1987) non ottengono plausi nemmeno dalla critica, e il mondo non ha grandi ricordi di Always – Per sempre (1989), storia d’amore troppo di mezz’età.

È solo con Schindler’s List (1994), contraltare al successo mondiale ottenuto l’anno prima con Jurassic Park, che Spielberg compie il suo metaforico compleanno dei diciott’anni ed è ammesso al tavolo dei grandi, tra Oscar e apprezzamenti diffusi per la scelta coraggiosa del tema, del bianco e nero e della durezza della rappresentazione. Ovviamente l’idea non piace a tutti nemmeno questa volta: l’autore del documentario Shoah (1985) Claude Lanzmann non apprezza (anche se in seguito i due si riconcilieranno in un finale molto spielberghiano), e qualcuno, come Stanley Kubrick e Terry Gilliam, fa notare come perfino in una storia sull’evento meno edificante di sempre, l’Olocausto, il Nostro si sia voluto concentrare su una storia a lieto fine.

Da allora in poi, Spielberg ha alternato le sue regie tra progetti in grande stile, fatti per vincere ma spesso un po’ stereotipati, e storie più adulte, che non di rado hanno messo da parte la fantasia per concentrarsi su temi estremamente drammatici oppure semplicemente minuti, graziosi, piacevoli senza dover stupire l’occhio. Ecco così da una parte Il mondo perduto (1997), Minority Report (2002), La guerra dei mondi (2005), Il GGG – Il grande gigante gentile (2016) o l’autoreferenziale Ready Player One (2018), e dall’altra Amistad (1997), Salvate il soldato Ryan (secondo Oscar, 1998), The Terminal (2004), Munich (2005), Lincoln (2012) o The Post (2017).

Gli americani medi, portatori dei buoni valori anni Cinquanta, che una volta avevano la faccia di Richard Dreyfuss, ora sono interpretati da Tom Hanks o al massimo Tom Cruise, in una sorta di connubio perfetto tra regista e attori più popolari al mondo. Se poi c’è da rifugiarsi nella Storia, si va addirittura sul “padre d’America”, stavolta non assente ma più saggio che mai, Abraham Lincoln in persona.

Spielberg, che ha già pronto un remake contemporaneo di West Side Story (1961) e un dramma sul rapimento di un bambino italiano nell’Ottocento, ormai fa sostanzialmente ciò che gli va, senza sentirsi in dovere di battere ulteriori record. Con la sua faccia ormai sempre più somigliante a un vecchio Sigmund Freud, con meno cappellini da baseball e più gilet eleganti, forse non sarà più lui il massimo creatore di immaginari della contemporaneità, ma in fondo a quale regista è stato chiesto di esserlo per cinquant’anni di seguito?

Sì, forse è da tanto che guardando un suo film non facciamo una Spielberg face, con la macchina da presa che idealmente si avvicina sulla nostra bocca spalancata davanti a qualcosa di incredibile; è da tanto che un suo personaggio non ci cattura come Indiana Jones, come il prof. Ian Malcolm o come il capitano Quint. Ma forse non è concesso a tutti di diventare adulti, e quindi di perdere un po’ di fantasia?

E poi, perché occuparsene personalmente? Tutti i registi e gli autori che oggi segnano l’immaginario cinematografico hanno un tratto comune marchiato addosso dall’infanzia, dalla prima volta in cui hanno spalancato la bocca davanti a un dinosauro, a un tempio maledetto o a un alieno: volenti o nolenti, sono tutti figli di Spielberg.

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