SanPa: su Netflix la storia vera e oscura di San Patrignano e dell’eroina in Italia

È uscita su Netflix in tutto il mondo il 30 dicembre la docuserie SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano, un documentario di cinque ore che ripercorre, secondo i titoli degli episodi, Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta di Vincenzo Muccioli e di San Patrignano, la comunità di recupero dalle droghe più famosa e famigerata d’Italia.

Si tratta della prima docuserie prodotta da Netflix Italia, ed è uno sforzo produttivo notevole: filmati tratti da 180 ore di interviste e da 51 differenti archivi, cinque settimane di riprese ex novo tra Rimini e Roma, un anno per studiare le vicende e raccogliere materiale, un anno per assemblarlo con quattro montatori e due assistenti (in questo video gli autori ne raccontano la genesi).

Alla guida, la regista italo-inglese Cosima Spender (già apprezzata col documentario sul palio di Siena Palio, visto al Tribeca Film Festival 2015), coadiuvata alla scrittura da Gianluca Neri, Paolo Bernardelli e Carlo Gabardini, quest’ultimo già voce di Radio24.

©Netflix

Ma cos’è San Patrignano? Oggi queste due parole sono piuttosto dimenticate dal grande pubblico, ma c’è stato un periodo in cui il nome di questa località nel piccolo comune di Coriano, Rimini, erano parte del linguaggio comune degli italiani come sinonimo di qualcosa di specifico: droga.

Per capire il documentario e capire cosa sia stata San Patrignano, bisogna fare un passo indietro, tornando fino agli anni Settanta. Il primo morto per overdose, l’Italia lo conosce nel 1973. Da allora, i decessi sono stati più di 25mila, di cui 373 nel 2019 (dati del Ministero dell’Interno).

L’eroina arriva in Italia come il frutto malato degli anni della contestazione: la fine degli anni Sessanta aveva portato anche nel Belpaese la marijuana, nel segno del peace and love californiano di matrice hippie, ma a metà anni Settanta per le strade comincia a circolare qualcosa di molto più pericoloso, e le conseguenze non tardano a mostrarsi.

Inizialmente, la diffusione delle droghe da iniettare per endovena ha come protagoniste le anfetamine, che solo nel maggio 1972 il ministro della Sanità Valsecchi inserisce nell’elenco degli stupefacenti. Nello stesso 1972 è poi la morfina a fare il suo ingresso nelle piazze di spaccio, la cui diffusione viene sottovalutata (e secondo alcuni attivamente favorita) dalle forze dell’ordine, che invece si concentrano sull’hashish.

Dal Corriere d’Informazione del 13 marzo 1977 (Archivio Corriere della sera)
Dal Corriere d’Informazione del 21 dicembre 1976 (Archivio Corriere della sera)

Intorno al 1974, è infine l’eroina ad arrivare in massa tra i giovani italiani, grazie a un prezzo inizialmente molto basso e alla difficoltà di reperimento delle droghe leggere in questa fase (sul documentatissimo sito Spazio70 si possono trovare molti articoli dell’epoca).

Come riporta un’inchiesta di Epoca del 1977, il ritmo dei decessi da allora procede incalzante: “un morto nel 1973, 8 nel 1974, 25 nel 1975, 33 nel 1976 e 36 nella sola metà del 1977”. Nel 1980 sono già 210.

A quel punto, e fino agli anni Novanta, il problema eroina sarà un’emergenza nazionale ormai impossibile da ignorare: nel 1976 nasce all’interno delle forze dell’ordine l’Ufficio Centrale di Direzione e Coordinamento dell’attività di Polizia per la Prevenzione e Repressione del Traffico Illecito delle Sostanze Stupefacenti; nello stesso anno il sociologo Guido Blumir dà alle stampe per Feltrinelli il saggio Eroina – Storia e realtà scientifica. Diffusione in Italia. Manuale di autodifesa, in cui ripercorre l’avvento dello stupefacente sul mercato italiano (qui un lungo estratto). Nel marzo 1977, sul Corriere d’Informazione compare un reportage di Gian Antonio Stella su Roberto Zanetti, ragazzino tredicenne già tossicodipendente; nell’ottobre dello stesso anno Epoca dedica alla tossicodipendenza la copertina; nel 1980 Natalia Aspesi pubblica su Repubblica una lunghissima intervista alla madre disperata di un tossico, evidenziando come anche le migliori famiglie siano impotenti nella battaglia; nel 1983 esce nelle sale Amore tossico di Claudio Caligari, che ancora oggi è una delle più crude rappresentazioni del fenomeno ed ebbe come co-sceneggiatore proprio il sociologo Blumir.

La copertina di “Epoca” del 12 ottobre 1977 (©Spazio70)
La copertina di “Eroina” di Guido Blumir, 1976 (©eBay)
Manifesto del Partito Comunista Italiano, 1981 (©Spazio70)

È in questo contesto tragico che, nel 1978, nasce San Patrignano, la comunità di recupero dalla tossicodipendenza più nota d’Italia, che da allora ha ospitato più di 26.000 persone, che nell’ultimo bilancio (2018) ha contato donazioni per circa 5 milioni di euro, e che negli anni ha ricevuto visite da parte di presidenti della Repubblica e segretari generali delle Nazioni Unite.

Allo stesso tempo, però, i suoi responsabili sono stati accusati di maltrattamenti, sequestro di persona, favoreggiamento e omicidio colposo, dando luogo a uno dei dibattiti mediatici più noti degli anni Ottanta e Novanta italiani. Come ha scritto di recente Luca Sofri sul Post, “San Patrignano è stata una grande anteprima di divisione nazionale promossa mediaticamente, prima che lo diventasse tutto”.

La figura centrale della sua storia è stata quella di Vincenzo Muccioli (1934-1995), fondatore e padre-padrone, che fino alla sua morte ne è stato il volto noto a tutta Italia, e le cui convinzioni hanno coinciso direttamente con i metodi della comunità dal primo giorno in poi.

Quando Muccioli, imprenditore riminese fino ad allora occupato con l’agricoltura e la gestione di un albergo, fonda la comunità nel ’78, ha quarantaquattro anni e non ha particolari competenze nell’ambito delle dipendenze. Decide però di mettere a disposizione i 23 ettari di terreno avuto come regalo di nozze dal suocero con annesso fabbricato rurale e tre capannoni destinati all’allevamento avicolo, e di aprirli gratuitamente ai tanti ragazzi che non trovano cure presso le strutture sanitarie statali ai loro problemi con l’eroina.

Vincenzo Muccioli (©Netflix)

Il 31 ottobre 1979 la comunità si costituisce legalmente come “Cooperativa di Produzione lavoro con le finalità statutarie principali orientate al recupero ed al reinserimento sociale e lavorativo dei tossicodipendenti ed emarginati in genere”, e pian piano cominciano ad arrivare giovani da tutta Italia, speranzosi di trovare un luogo in cui ricominciare.

Erbe, massaggi con lo zafferano, agopuntura, tisane, niente medicinali: un genere di riabilitazione che deve partire dall’impegno sul lavoro, che viste le molte mansioni necessarie in una proprietà agricola, non manca. Allo stesso tempo, un diffuso culto della personalità rispetto al Fondatore, un ambiente che a vedere le immagini d’epoca ricorda da vicino quello di una setta, e regole ferree per esempio rispetto al divieto di relazioni sentimentali.

Dal Corriere d’Informazione del 13 ottobre 1981 (Archivio Corriere della sera)

Soprattutto, l’idea che una volta entrati si metta la propria vita in mano a quella di chi gestisce la comunità, di fatto delegando i propri diritti di scelta, spesso con il beneplacito dei parenti convinti dopo anni di travaglio che l’imposizione sia l’unica via.

Ma, come si dice già nel trailer, “per fare del bene si può superare ogni limite, anche la legge”? Secondo quale criterio gli atteggiamenti paterni (o più che altro paternalisti) di un estraneo possono sostituire lo Stato? Su queste domande, l’Italia degli anni Ottanta e Novanta si spaccherà in due.

Vincenzo Muccioli con i ragazzi della comunità (©Netflix)

La crescita è sorprendente: già nel novembre 1984, come riporta un articolo di Natalia Aspesi su Repubblica, la comunità è diventata una “piccola, ricca città, dove vivono 540 giovani, 50 coppie sposate, 40 bambini, 128 studenti di scuola superiore o universitari; vi si insegnano, e si praticano, 36 mestieri, si allevano 135 cavalli da corsa, 150 mucche da latte, gatti e cani di razza, maiali per il prossimo salumificio; si coltivano un milione e ottocentomila metri quadrati a frutteto e vigneto, si produce vino, si confezionano pellicce di lusso, carte da parati di pregio, c’è un laboratorio di maglieria, uno di infissi, uno di fotolito”. Nel 1991, gli ospiti saranno 1.600, e le “liste d’attesa” per entrare saranno lunghissime.

Non è però tutto oro quel che luccica: il 28 ottobre 1980 per la prima volta i nomi di San Patrignano e di Muccioli compaiono sui giornali: lui e altri undici collaboratori vengono arrestati dopo che un’irruzione della polizia, seguita alla denuncia di una ragazza fuggita, ha portato alla scoperta di quattro “ospiti” incatenati da giorni in condizioni disumane in piccionaie adibite a minuscole celle.

Gli accusati verranno rinviati a giudizio nel 1983, in quello che rimarrà noto come “il processo delle catene”, che nel 1985 porterà alla condanna per sequestro di persona e maltrattamenti, ma che verrà smentito dall’assoluzione in appello e poi in Cassazione. Sarà il primo di diversi procedimenti legali che diventeranno sempre più processi mediatici, visto che come raccontano bene i servizi dei TG dell’epoca, sono moltissimi i genitori disperati che sostengono i metodi di San Patrignano pur di salvare dalla piaga della droga i propri figli.

Dal Corriere della sera del 13 dicembre 1983 (Archivio Corriere della sera)
Da l’Unità del 30 ottobre 1980 (Archivio l’Unità)
Dal Corriere della sera del 30 ottobre 1980 (Archivio Corriere della sera)

SanPa ci mostra tutto questo attraverso preziosissimi materiali d’archivio misti a interviste contemporanee, e spesso nei vecchi filmati si possono vedere le facce giovani di chi parla oggi alle telecamere. Sono gli ex ospiti della comunità, lucidi e affascinanti nei loro racconti, tra cui Walter Delogu, padre della conduttrice Andrea (che a San Patrignano è nata e su cui ha scritto un libro, La collina), e che sarà una figura fondamentale negli sviluppi processuali in cui sarà coinvolta la comunità.

C’è poi Andrea Muccioli, figlio del fondatore che dal 1995 al 2011 lo ha sostituito prima di essere estromesso dal consiglio d’amministrazione; c’è il fratello di Vincenzo, che lo ricorda con una certa freddezza; c’è il giornalista Luciano Nigro, che ne evidenzia le contraddizioni; c’è Red Ronnie, ex stella della tv musicale qui in veste di fan più accanito di Muccioli e dei suoi metodi.

C’è in generale l’Italia di quegli anni: gli “zombie” che vagano sballati per le strade andando a sbattere nei cespugli; l’intervista devastante a un’anziana madre che confessa di fare debiti per aiutare il figlio ad acquistare l’eroina; i tanti giovani con i denti andati e la pronuncia strascicata di cui è impossibile non chiedersi dove siano oggi.

Campagna Pubblicità progresso, 1989

Ancora nel 1996, un anno dopo la morte di Muccioli, con la quale la serie si chiude, in Italia si toccò il record di morti per droga, 1.566 in un anno. Non diciamo altro per evitare anticipazioni che ne guasterebbero la visione, ma i colpi di scena saranno molti, e il tono sarà molto poco all’insegna della (pur ottima) trasgressione alla Trainspotting, e molto più concentrato sull’indagine psicologica di un uomo e di un Paese.

Dall’estero negli anni abbiamo visto diverse docuserie di alto livello su questioni controverse del passato: Wild Wild Country (2018), su una comune dell’Oregon dedita al culto di Osho; The Keepers (2017), sull’omicidio di una suora avvenuto nel 1969 Baltimora e sul giro di abusi sessuali ad esso legato; Conversazioni con un killer: Il caso Bundy (2019, che avevamo recensito qui), sul serial killer statunitense Ted Bundy. Ora qualcosa di molto simile viene anche dall’Italia, e c’è da complimentarsi per il grado di competenza e allo stesso tempo di spettacolarità raggiunto.

L’andirivieni tra i commenti contemporanei e le immagini sgranate d’epoca è perfettamente equilibrato, le facce del tempo – da Lilli Gruber a Marco Pannella, da Gad Lerner a Bettino Craxi – forniscono la giusta dose di gusto archivistico, e soprattutto le tante ore di filmati contribuiscono alla costruzione di un ritratto insieme affascinante e respingente dell’uomo visto da alcuni come un santo e da altri come un mostro.

Ben vestito ma dotato di sguardo fulminante, caloroso ma fin troppo affettuoso, affabile romagnolo verace ma anche capace di disgustose battute sullo stupro, generoso salvatore ma anche divinità superiore a chiunque: fin dalla sigla, che mischia liscio da balera e musica elettronica, il soggetto al centro della serie è un enigma fatto di doppiezza.

Vincenzo Muccioli (©Netflix)
Dal Corriere della sera del 29 ottobre 1994 (Archivio Corriere della sera)

Forse il documentario più simile a questo è O.J.: Made in America (2016), premio Oscar, sul processo mediatico all’ex giocatore di football americano O.J. Simpson, accusato di aver ucciso la moglie. Qui come allora, è impossibile non notare come materie strettamente legali siano diventate materia sociologica, e poi ancora di più materiale per la società dello spettacolo.

Ecco quindi l’imbarazzo nel vedere Mike Bongiorno che, come fosse uno dei suoi quiz, annuncia festante da un tabellone che la fiducia degli italiani in Muccioli è del 92%; oppure gli inquietanti spettatori del Maurizio Costanzo Show che ridono incuranti quando sul palco si parla dei metodi di “trattenimento” di Muccioli (definiti con un lapsus freudiano di “intrattenimento”); o ancora le dichiarazioni riportate nella serie secondo cui diversi giornalisti RAI fossero poco critici per rispetto dell’allora presidente dell’azienda Letizia Moratti, da sempre vicinissima a Muccioli.

Come si dice a un certo punto, “al processo [a Muccioli] si giocava la politica della droga in Italia degli anni Ottanta”, qualcosa al quale è evidente che lo Stato fosse impreparato, e che probabilmente ha fatto comodo delegare a chi voleva sobbarcarsene la responsabilità. Un’intera generazione di San Patrignano oggi sa poco o niente, ma è importante che questa storia venga raccontata, ed è buono che ognuno possa farsene la propria opinione grazie a un prodotto così ben curato e appassionante pur nella sua durezza.

Come ha riportato uno degli autori, citando le parole di uno degli ex ragazzi di San Patrignano: “Erano più di trent’anni che vi aspettavo, dov’eravate?”.

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