Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.
Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se per caso sia disponibile su Netflix, Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).
Di seguito le recensioni di: Il posto delle fragole; Harry a pezzi; L’incredibile storia dell’Isola delle Rose; Duel; I predatori.
Via al volume 28! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Il posto delle fragole (Smultronstället)
Ingmar Bergman, 1957
Ingmar Bergman non è un autore facile, ma se qualcuno fosse desideroso di conoscerlo attraverso un film più accessibile rispetto al resto, probabilmente sarebbe il caso di iniziare da qui. Il posto delle fragole, come già dall’evocativo titolo, è un piccolo gioiello di equilibrio sui sentimenti, che riesce ad essere dolce senza essere melassoso, e al contempo sperimentale senza risultare inaccessibile.
La storia è quella dell’anziano professor Isak Borg, medico insigne al quale la sua vecchia università conferisce un’onorificenza per i cinquant’anni di professione. Interpretato con fare burbero ma lucidissimo dall’ex regista e attore del muto Victor Sjöström (protagonista del Carretto fantasma), il professor Borg decide di recarsi a Lund in auto accompagnato dalla nuora, una Bibi Andersson mai così nordicamente altera ed elegante.
Durante il viaggio on the road avrà occasione di incontrare diverse persone, nonché di conoscere a fondo per la prima volta la donna, e soprattutto tornerà con la mente al suo passato, ripercorrendo alcuni episodi della giovinezza e riesaminando la sua vita spesso vissuta senza mai veramente concedersi agli altri.
Da una parte un ibrido tra Canto di Natale e La vita è meravigliosa di Frank Capra, con Borg che assiste come spettatore ai ricordi di un tempo, e dall’altra un’attitudine formale da grande cinema d’autore europeo, con un andirivieni tra fantasia e realtà, nonché una simbologia stilistica di colori e atmosfere, che verranno saccheggiati a piene mani dal Fellini di 8 ½.
Se volete riconciliarvi con la vita, e allo stesso tempo non cedere alle lusinghe troppo melense di Hollywood, questo è il film da guardare.
Harry a pezzi (Deconstructing Harry)
Woody Allen, 1997
Se avete apprezzato Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (1957), ma l’austerità scandinava vi ha lasciato un po’ di freddo addosso, perché non rifarsi con un omaggio in salsa comica a quel film firmato Woody Allen?
Oltretutto va detto che, ormai abituati ai troppi film del nostro che non superano il grado di “carino”, questo film del 1997, parte di una fase fertile che avrebbe prodotto anche Tutti dicono I love you (1996), è una piacevole sorpresa in quanto a ritmo, prova attoriale di Allen e battute azzeccate (“Non c’è niente di male nella scienza: tra l’aria condizionata e il papa, scelgo l’aria condizionata”).
Il regista qui veste i panni (sempre uguali, visto che porta una giacca già vista in Io e Annie, 1977) di uno scrittore alle prese con il famigerato “blocco”, evidenziato perfino dall’anagrafe visto che si chiama Harry Block. Anche lui, come il professor Borg de Il posto delle fragole, viene insignito di una laurea ad honorem dall’università (che lo aveva espulso), e anche lui si reca sul posto in auto, portandosi però dietro un amico dalla salute cagionevole, il figlioletto rapito all’ex moglie e una prostituta.
Durante tutto il film si intersecheranno vita reale e scene tratte dai racconti di Block, il quale attraverso i suoi personaggi ha sempre svelato fin troppo delle sue vicende personali: capiterà quindi di vedere una scena con Demi Moore a interpretarne l’ex coniuge ricreata nei suoi libri, e poco dopo Kirstie Alley nei panni dell’ex moglie reale.
Il film non sarà particolarmente ambizioso, la morale del creativo che sa giostrarsi nell’arte ma non nella vita è ormai una costante risaputissima in Allen, e i toni sono più volgari del solito, ma il rimo è scoppiettante, con il vezzo di frequenti jump cuts in stile Nouvelle Vague, e invenzioni visive geniali come Robin Williams che, sentendosi “fuori fuoco”, viene mostrato costantemente sfocato, oppure un inferno dantesco imbastito in grande stile da Santo Loquasto alle scenografie. Gruppo d’attori che è il sogno erotico di un direttore del casting: in ordine sparso, Billy Crystal, Robin Williams, Tobey Maguire, Demi Moore, Julia Louis-Dreyfus, Paul Giamatti, Stanley Tucci, Kirstie Alley, Elisabeth Shue, Mariel Hemingway, eccetera eccetera.
L’incredibile storia dell’Isola delle Rose
Sydney Sibilia, 2020
Tra i tanti tentativi di rivoluzione degli anni Sessanta, uno spicca più di tutti per originalità, ed ebbe luogo in un posto decisamente improbabile: le acque internazionali al largo di Rimini. Si tratta dell’idea utopistica frutto della mente dell’ingegner Giorgio Rosa, bolognese, che prima riuscì a costruire una piattaforma artificiale nel mezzo dell’Adriatico, e poi la autoproclamò Stato indipendente prima che il governo italiano dimostrasse di non gradire.
Sembrerebbe una storia troppo bella per essere vera, ma lo è, ed è semmai anomalo che, escludendo qualche documentario e un libro di Veltroni (L’isola e le rose, 2012), finora per gli italiani fosse una storia pressoché dimenticata.
Bravo quindi Sidney Sibilia, alla sua prima prova dopo la saga d’esordio di Smetto quando voglio, a scegliere un soggetto così accattivante: una storia vera ma assurda; l’ambientazione nostalgica della Romagna anni ’60, tra utopia libertaria e grande colonna sonora come in I Love Radio Rock (2009); un irresistibile Elio Germano con esagerato accento emiliano nel ruolo dell’ingegnere-Archimede Pitagorico che, fuori posto nella società conformista della terraferma, decide di costruirsi una società ex novo in mare aperto.
Tanto per gradire, si aggiungono una regia molto stilosa e una produzione che in alcune scene è da kolossal internazionale (anche se Sibilla ha il vizio della fotografia con i filtri Instagram del 2012), e un cast di contorno che mischia un irriconoscibile Luca Zingaretti nei panni del presidente del Consiglio Leone, Fabrizio Bentivoglio come ministro dell’interno Restivo e addirittura Tom Wlaschiha, attore tedesco già interprete nientemeno che di Jaqen H’ghar nel Trono di Spade.
Purtroppo però le premesse si sfaldano man mano, e anche se lo si vorrebbe amare, il film va per le lunghe (da quando è diventato obbligatorio fare commedie o film d’azione di almeno due ore?), e superata la boa della metà la spinta iniziale si esaurisce, senza veri colpi di scena che rendano meno ripetitivo il tutto.
Duel
Steven Spielberg, 1971
Ci sono talenti che quando sbocciano si fanno notare, e non sorprende che questo piccolo film per la tv andato in onda sulla ABC il 13 novembre 1971 abbia avuto un successo tale da essere rimontato per uscire al cinema, abbia segnato l’esordio di una carriera folgorante e sia ancora oggi considerato un cult, visto che dietro la macchina da presa c’era un venticinquenne chiamato Steven Spielberg.
La storia è tratta da un racconto pubblicato su Playboy da Richard Matheson (qui anche sceneggiatore), ed è sorprendente nella sua assoluta semplicità: un uomo qualunque viaggia in macchina; sorpassa un’autocisterna, e da quel momento viene inseguito per un’ora e mezzo dal veicolo in questione, il cui ignoto autista è determinato a speronarlo e ucciderlo.
Un ubriaco? Un cowboy ferito nell’orgoglio automobilistico? Un pazzoide che ha trovato la sua preda? Non lo sappiamo, ma sappiamo che è pericoloso.
Come è facile intuire, di fronte a una trama così scarna, con un protagonista di cui sappiamo poco e niente messo di fronte a un Male senza ragioni e senza volto, e in un ambiente che dall’inizio alla fine è una strada in mezzo al deserto californiano, il colpo da maestro sta nel tenere incollato lo spettatore allo schermo per tutta la durata del film, creando di continuo momenti di tensione senza dare un senso di monotonia.
Di Spielberg c’è già molto: il protagonista commesso viaggiatore con occhiali e baffetti, un tipo che più normale non si può (alla Walter White di Breaking Bad), gettato in pasto alla violenza irrazionale della natura e di uomini selvaggi quanto il loro ambiente (un po’ come in Un tranquillo weekend di paura, 1972); i movimenti di macchina con la gru che si avvicinano alla faccia del protagonista creando emozione non con l’azione rappresentata ma con le scelte di regia; la capacità di creare tensione a partire da ciò che è sconosciuto e inspiegabile, con il tubo di scappamento del camion che diventa lo sbuffo di Moby Dick o la futura pinna dello squalo, fondamentalmente dilatando la sequenza dell’aereo di Intrigo internazionale per un intero film, e aggiungendoci per gradire la musica di Psyco.
Il finale forse dà meno soddisfazione catartica di quanto potesse, e la scelta in alcune non troppo frequenti occasioni di far sentire i pensieri del protagonista forse toglie un po’ di “purezza” allo sperimentalismo e al minimalismo del tutto, ma sono peccati veniali quando si è in grado di incollare alla sedia solo con un camion, un uomo e una strada deserta.
I predatori
Pietro Castellitto, 2020
Ecco uno di quei film che, per il loro tentativo di dare nuova linfa al cinema italiano, meritano a priori un applauso d’incoraggiamento. Pietro Castellitto è giovanissimo e ha sulle spalle il peso di un cognome noto, ma risulta convincente sia come attore (con una faccia impossibile), sia come autore di dialoghi brillanti, che come regista di rara eleganza.
La storia è corale, e vede protagonisti principali i membri di due famiglie, una borghese e l’altra proletaria: da una parte quella del medico sessantenne interpretato da Massimo Popolizio (che vorremmo vedere ovunque) e della moglie regista radical chic (un’ottima Manuela Mandracchia); dall’altra, quella del venditore di armi e piccolo malavitoso col volto di Giorgio Montanini, grande scoperta dopo una carriera da stand-up comedian di razza.
Castellitto si ritaglia il ruolo del figlio stralunato e sull’orlo di una crisi di nervi dei borghesi, ma in realtà ad essere sull’orlo della crisi sono tutti i personaggi, che portano in scena il peggio delle loro classi sociali e delle diverse generazioni rappresentate, tutti uniti dalla sgradevolezza di una certa romanità molto realistica e da uno humor nerissimo.
Si ride spesso, ma è una risata isterica, tesa, sempre con l’idea che da un momento all’altro possa scoppiare l’apocalisse. Castellitto come regista unisce un realismo tesissimo simile a quello di Gomorra di Matteo Garrone ma anche un surrealismo elegante alla Sorrentino (la hit kitsch Aeroplano di 883 e Caterina in colonna sonora, il distacco dei ricchi rispetto alle situazioni più gravi); una follia giovanile e ribelle che ricorda le prime, provocatorie prove di Bellocchio e Bertolucci (I pugni in tasca o Prima della rivoluzione), ma anche un incrocio di scherzi del destino che fa pensare a Kieslowski o a qualche racconto russo.
In un film del genere, che fa montare la tensione senza tregua, il finale dovrebbe essere il momento culminante, ma purtroppo in questo caso si perde in una risoluzione irrealistica e deludente, che finisce per far perdere forza anche al senso del resto del film senza riunire tutti i fili tesi. Un peccato davvero, ma le speranze per le prove future sono alte.
Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.
Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Dei due film italiani abbiamo già parlato, “Il Posto delle Fragole” è probabilmente il mio preferito di Bergman (e uno dei meno ostici), “Harry a pezzi” l’ho sempre trovato sottovalutato, gran film. Sono mesi che vorrei vedere “Duel”, bene avermelo ricordato!
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Sì, io ho rivisto “Harry a pezzi” (visto alla mitica saletta video della mai abbastanza lodata biblioteca del DAMS) senza aspettarmi molto di più del classico Woody Allen recente, e invece il livello era decisamente migliore, e tutti quegli attori oggi un po’ spariti mi hanno commosso. Attendo il capitolo cinefilo su Duel allora!
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