Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.
Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se sia disponibile su Netflix, Amazon Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).
E ricordate: Quentin Tarantino non ha mai visto Eyes Wide Shut, dunque nella vita siete ancora in tempo per tutto.
Di seguito le recensioni di: Sir Alex Ferguson – Mai arrendersi, La carrozza d’oro, The Lighthouse, Deadpool, Inside Out (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico). Via al volume 37!
Sir Alex Ferguson – Mai arrendersi (Sir Alex Ferguson: Never Give In)
Jason Ferguson, 2021

Non mi considero un grande esperto di sport, ma ci sono alcune figure che in qualche modo finiscono per rappresentare un’intera professione sportiva, che siano Pierluigi Collina per il ruolo dell’arbitro, Tiger Woods per il golfista o Hulk Hogan per il lottatore di wrestling.
Ecco, Alexander Chapman Ferguson, di Glasgow, classe 1941, è forse più di tutti la personificazione dell’Allenatore di calcio: britannico, feroce, malvestito, paonazzo in volto, incredibilmente vincente, legato alla stessa squadra – il Manchester United – per ben ventisette anni (qualcosa di pressoché unico in qualsiasi sport) e costantemente incazzato.
Questo documentario uscito di recente è una grande occasione per conoscerlo da vicino, anzi da vicinissimo, visto che porta la firma di suo figlio Jason, e che quindi il buon vecchio Fergie (nominato Sir per i suoi meriti sportivi) si sia concesso a parlare di sé e delle sue vicende più intime senza barriere, pur mantenendo sempre la sua scorza coriacea e un accento incomprensibile.
Prendendo come spunto l’emorragia cerebrale che lo ha colpito nel 2018, un’occasione in cui ha dimostrato di avere una memoria ancora impareggiabile, Ferguson ripercorre la sua vita dall’infanzia coi filmati d’epoca a Glasgow alle sue imprese come calciatore, per poi passare alle sue inaspettate vittorie con l’Aberdeen in Scozia e infine al suo status di icona immortale per lo United.
Quello che manca è probabilmente un lavoro di montaggio più completo, che intersechi alle bellissime interviste contemporanee una cronologia più precisa della sua carriera e una maggiore presenza di ospiti illustri: basti pensare che (forse per lo scarpino che Fergie gli tirò in faccia in uno spogliatoio) nemmeno David Beckham dice due parole sul suo mentore.
Il focus qui però è sull’uomo, che si dimostra fatto di una pasta dura e spietata ma capace con l’età di intenerirsi e di commuovere, dal ricordo di quando fece pace col padre dopo aver segnato una tripletta come calciatore a quando, durante la finale di Champions League del 1999, sentì il Fato che gli diceva: “È il tuo turno, Alec”.
La carrozza d’oro (Le Carrosse d’or)
Jean Renoir, 1952

Ci sono film che reggono all’urto del tempo, riuscendo a parlare a generazioni lontanissime dai tempi in cui sono stati realizzati, e film che pur essendo mossi da intenti nobili e realizzati da grandi maestri, non possono non apparire ormai distanti dal gusto contemporaneo.
Qui abbiamo uno dei riconosciuti padrini del cinema francese, Jean Renoir, che dirige la più celebrata attrice italiana, Anna Magnani, in un film in Technicolor talmente amato da François Truffaut che questi battezzò la sua casa di produzione “Les Films du Carrosse”… E nonostante questo, risulta difficile oggi non considerarlo alla stregua di quei film in costume prodotti in serie che rimpolpano il palinsesto pomeridiano estivo di ReteQuattro.
La storia, che si svolge nel Settecento, è quella di una scalcinata compagnia di attori italiani della Commedia dell’arte che attraversano l’oceano da emigrati per ritrovarsi a recitare in un ancor più scalcinato teatro in un villaggio sperduto del Perù. “Come vi sembra il Nuovo Mondo? Sarà bello quando sarà finito!”, dice qualcuno, e invece per il momento la scena è quella di una distinzione netta tra una viziata corte reale in parrucca e un popolo povero e contadino.
Presto il film si trasforma in una trama da Commedia dell’arte anche fuori dal palco, con la primattrice della compagnia (Magnani) che si divide tra tre amanti come Arlecchino, corteggiata da un impresario, da un torero e da un nobile locale che le regala la carrozza del titolo.
Già pochi anni prima, con Amanti perduti (1945) il cinema francese aveva descritto con lo stesso affetto il mondo del teatro meno prestigioso, e nel proporre un personaggio popolare ma raffinato la Magnani è ovviamente bravissima, ma i vari intrecci amorosi e gli amanti nascosti dietro le tende ricordano in una farsa, e rendono tutto troppo datato e privo di quell’approfondimento che invece, per ironia della sorte, sarebbe stato al centro del cinema dei giovani turchi dei Cahiers du cinéma che tanto amarono questo film.
The Lighthouse
Robert Eggers, 2019

Uno di quei casi cinematografici che si possono incrociare di quando in quando, per cui un film che non avrebbe teoricamente alcun requisito per diventare un successo diventa quantomeno un cult, propagandato da siti di cinema e accolto come IL film da vedere.
In realtà l’opera seconda del giovane Eggers è sicuramente originale, ma talmente folle e sopra le righe che si finisce per mischiare spaventi e risate senza stabilire un vero rapporto con i suoi protagonisti, come invece poteva essere stato per la Anya Taylor-Joy di The Witch (2015), esordio del regista.
Frullando insieme cinema e letteratura, con qualcosa di Lynch, Kubrick e La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, The Lighthouse è una continua allucinazione, cosa che in fondo non stupisce considerando che i personaggi sono solo due e si trovano da soli sull’isolotto di un faro. Se poi si aggiunge che il film è in bianco e nero e girato in formato 1,19:1 (quasi quadrato), il quadro si completa.
Nel Maine dell’Ottocento, Willem Dafoe e Robert Pattinson sono rispettivamente il vecchio e il giovane guardiano, il primo somigliante a un Quint de Lo squalo nei suoi toni ruvidi e nel suo incredibile gergo marinaresco, e il secondo ribelle e insofferente al suo nonnismo. Tra sirene, gabbiani maledetti, visioni oniriche intrise d’alcol e lotte tra questi due uomini bisognosi di prevalere l’uno sull’altro, si arriva alla fine con l’impressione di aver buttato un’ora e mezzo in cambio di un pugno di scene memorabili nella loro visionarietà, che però non si appigliano ad alcuna emozione reale.
Deadpool
Tim Miller, 2016

Se dando un’occhiata a una delle innumerevoli produzioni Marvel siete rimasti positivamente sorpresi nel notare come in fondo le storie dei culturisti in tutina non difettino in quanto ad autoironia, Deadpool dovrebbe fare per voi.
Questo perché è la versione all’ennesima potenza del lato comico/oltraggioso di qualsiasi Avenger abbiate visto finora, zeppo com’è di battute VM18 e citazioni sorprendenti impensabili in altri film del genere (due su tutte: “Zitta, Sinéad O’Connor!” a una supereroina dai capelli rasati, e un riferimento alla sitcom di razza Fawlty Towers).
La storia è quella di un ex mercenario sboccato e antieroico che si ritrova controvoglia trasformato in supereroe, ma non perde nessuna delle sue cattive maniere, e mena senza troppe giustificazioni morali.
Spassoso sin dai titoli di testa nel non prendersi sul serio, sessualmente scatenato e con un gusto per il metatestuale che lo porta addirittura a citare nella trama l’attore protagonista Ryan Reynolds, sa essere anche terribilmente tetro per un film del genere, tirando in ballo un cancro terminale, torture immani e squartamenti a iosa.
Forse alla lunga il giochino del fare i più ironici di tutti diventa stucchevole, con l’effetto di non stupire più, ma d’altronde lo si dice anche esplicitamente nel film a un certo punto: “Pensavate di vedere un film di supereroi?”.
Inside Out
Pete Docter e Ronnie del Carmen, 2015

La recente uscita di Luca (già recensito qui), l’ultima produzione Disney-Pixar, ha fatto notare a molti come quel film perdesse chiaramente il confronto in quanto a coraggio inventivo della trama rispetto a precedenti prove Pixar come Inside Out.
Cosa può essere infatti più coraggioso che produrre un cartone animato per bambini che si svolge quasi interamente nei meandri della mente umana, con protagoniste che si chiamano Gioia o Paura e avventure cerebrali per recuperare ricordi felici? Si potrebbe obiettare che Esplorando il corpo umano lo aveva fatto trent’anni prima, però va detto che non era mai riuscito a commuoverci con un elefante immaginario color fucsia.
Sicuramente una scommessa vinta, anche se ci si chiede quanto davvero i più piccoli possano cogliere dei continui riferimenti adulti, che vanno dall’ambito delle neuroscienze (confuso anche per chi ha più di 12 anni) alle citazioni cinematografiche più raffinate (“Lascia stare, Jake, è Cloudtown”).
A volte l’allegria zuccherosa di Gioia, l’emozione che fa da protagonista, contagia un po’ troppo il tutto, e i mondi cerebrali attraversati dai protagonisti sono un circo disneyan-felliniano fin troppo complesso, ma avercene di film per bambini che sappiano tenersi in piedi su questo equilibrio.
Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.
Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Ovviamente non sono d’accordo su Lighthouse ma in linea su Inside Out 🙂 Ma la truccatrice della Magnani in questo film è Simonetta? 😅
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Ahah allora mi recupererò la tua recensione… Io sono semplicemente rimasto freddo, del tipo ok, grande fotografia, bravi attori, immagini deliranti, dialoghi assurdi, ma a fine film che mi rimane di tutto questo eccesso? E’ talmente sopra le righe che potrebbe succedere qualsiasi cosa e uno lo accetterebbe senza scomporsi, come se alla fine non avesse molta importanza.
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Ahah è anche vero, ma è talmente ipnotico che mi sarei bevuto tutto! 🙂
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