Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.
Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se sia disponibile su Netflix, Amazon Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).
E ricordate: Quentin Tarantino non ha mai visto Eyes Wide Shut, dunque nella vita siete ancora in tempo per tutto.
Di seguito le recensioni di: The Endless Summer; (500) giorni insieme; Il fantasma della libertà; Pubblicitario offresi; Nirvana (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico). Via al volume 38!
The Endless Summer
Bruce Brown, 1964

“L’estate infinita”: che grande titolo, e soprattutto che grande esperienza per chi l’ha vissuta davvero, ovvero il documentarista Bruce Brown e i due surfisti Mike Hynson e Robert August (nomen omen), che nei primi anni Sessanta hanno pensato bene di viaggiare intorno al mondo inseguendo il sole e l’onda perfetta.
Narrato dal regista con voce sbarazzina e molto poco istituzionale, quasi fosse uno di quei vecchi cartoon con Pippo protagonista, questo documentario è il Sacro Graal dei cavalcatori di onde, e insieme alla musica dei Beach Boys ha avuto un ruolo notevole nel diffondere il verbo del surf in tutto il mondo.
La storia è semplicissima: due campioni californiani partono, seguiti dalla macchina da presa del regista, per un viaggio che, con prima tappa Dakar, Senegal, li porterà tra Africa, Hawaii, Oceania, Tahiti e paradisi tropicali vari per sfuggire all’inverno e approfittare delle onde finché il clima lo permette.
Sarà anche un’occasione per un incontro tra culture, visto che, per dire, in Ghana non hanno mai visto una tavola da surf, e i ragazzini locali fanno la fila per fare un giro su questo misterioso oggetto, e sarà un’occasione per scoprire angoli nascosti di mondo che dopo il film diventeranno mete turistiche per surfisti, come Cape St. Francis in Sudafrica.
In fondo un film più divertente che interessante a livello di approfondimento psicologico dei protagonisti o entusiasmante a livello di immagini, visto che le tecniche di ripresa in quelle condizioni sarebbero poi migliorate notevolmente in tempi di Go-Pro e affini, ma quell’atmosfera tipicamente californiana di spensieratezza si fa ancora apprezzare. Come dicono i titoli di coda, “Un ringraziamento speciale al vecchio re Nettuno per aver provveduto alle onde”.
(500) giorni insieme ((500) Days of Summer)
Marc Webb, 2009

Tom fa il copywriter per bigliettini d’auguri a Los Angeles; Summer (o Sole, in italiano) è la collega appena arrivata in ufficio; i due sono giovani, carini, si piacciono, si innamorano, si amano, dopo 500 giorni si lasciano, ma forse… Sì, lo abbiamo già visto in almeno duemila film, e proprio per questo è un miracolo raro quando una commedia romantica riesce a fare di questi ingredienti qualcosa che si distingua dal resto.
Come Io e Annie negli anni Settanta, o Harry ti presento Sally negli Ottanta, (500) giorni insieme merita la palma del Film Romantico Fatto Bene, oggetto rarissimo in casa Hollywood, e a dosi inevitabili di saccarina aggiunge stile nella messa in scena, realismo e dialoghi non banali.
Innanzitutto perché, proprio come in Io e Annie, la storia d’amore viene destrutturata e ricomposta in ordine sparso, con Tom che ricostruisce andando avanti e indietro nei ricordi il momento in cui qualcosa si è spezzato; poi perché, dal narratore che sembra uscito dal Favoloso mondo di Amélie ai musical improvvisati per strada alle alle citazioni di Jules e Jim, Il laureato e Il settimo sigillo, tutto sembra una sorta di Nouvelle Vague spiegata ai millennial; e poi perché, c’è poco da fare, è diabolicamente in grado di rappresentare le sofferenze amorose degli inguaribili romantici.
I due difetti stanno nello sforzarsi un po’ troppo di fare il simpatico alternativo e nella struttura spezzettata che lo rende ripetitivo, ma non posso essere troppo severo con un film che usa gli Smiths come metodo per far innamorare i protagonisti. Micidiale la dedica iniziale (del co-sceneggiatore): “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale… Nello specifico a te, Jenny Beckman… Stronza”.
Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté)
Luis Buñuel, 1974

L’incubo di ogni appassionato di cinema: raccontare un film di Luis Buñuel, e magari riuscire a far capire perché meriti di essere visto. Si potrebbe dire che come tutti i grandi, Buñuel era una persona col senso dell’umorismo, ma se in linea di massima i geni del cinema d’autore vengono visti come dei visionari deprimenti che ogni tanto concedono una risata, lui faceva ridere per davvero.
In particolare, con la trilogia di film che avrebbe chiuso la sua carriera (Il fascino discreto della borghesia, 1972, Il fantasma della libertà, 1974, Quell’oscuro oggetto del desiderio, 1977), e che nonostante l’età avanzata dell’autore è considerata tra i suoi picchi, il regista spagnolo riuscì contemporaneamente ad essere il Maestro apparentemente più vicino alla fruibilità dei film di cassetta e allo stesso tempo a smontare il cinema come un giocattolo.
Qui non troverete lunghe sequenze di silenzi riflessivi, bianchi e neri struggenti o frasi profonde e altisonanti: no, il film scorre rapido, visivamente modesto e pieno di battutacce su sesso, preti e funzioni corporali, ma ciò che fanno i protagonisti e come si incastrano le loro storie è talmente surreale e apparentemente insensato che è difficilissimo sintetizzarne la trama.
Un nipote adolescente in fuga d’amore con la vecchia zia; Milena Vukotic che si ritrova a giocare a poker con dei frati a tarda sera in una camera d’albergo; un pranzo borghese in cui invece di mangiare si sta seduti sul water a tavola; gendarmi bambinoni e soldati necrofili. Ogni “sketch” si trascina con una tale serietà fino alla fine che a far ridere è la dedizione con cui si finge normale ciò che normale non è, come in un film dei Monty Python (probabilmente la cosa che gli si avvicina di più, anche nel tirarla troppo per le lunghe), o come Una pezza di Lundini in tv.
Avrei pagato parecchio per assistere a una sessione di scrittura tra gli sceneggiatori Buñuel e Jean-Claude Carrière, e capire come nascessero certe idee assurde.
Pubblicitario offresi (Lost in America)
Albert Brooks, 1985

Albert Brooks è un volto molto poco noto in Italia, ma negli Stati Uniti ha riscosso un certo seguito come comico tra gli anni Settanta e Ottanta, non solo interpretando i suoi ruoli, ma scrivendo e dirigendo film che esprimono il suo carattere da nevrotico homo metropolitanus.
In questo caso è un trentenne di successo in una nota agenzia pubblicitaria californiana, dotato di completi eleganti, ufficio con vista, Mercedes in arrivo e una moglie (la Julie Hagerty de L’aereo più pazzo del mondo) altrettanto in carriera.
Il problema sorge quando, dopo una promozione mancata, dà di matto e in preda a un attacco di fricchettonismo tardivo in piena era yuppie, convince la moglie a lasciare improvvisamente casa e lavoro e comprare un camper per scoprire la vera America, “proprio come in Easy Rider“.
Nonostante i tentennamenti iniziali, anche la coniuge si entusiasma all’idea, ma già a Las Vegas le cose cominceranno a prendere una piega inattesa, e quello che doveva essere un viaggio di liberazione dalle gabbie sociali si rivelerà presto meno dorato del previsto.
Brooks sembra il fratello maggiore del George Costanza di Seinfeld, con gli stessi tic nevrotici e gli stessi attacchi di rabbia; Julie Hagerty fa bene la parte della dolce svampita, e i dialoghi surreali sono ottimi, ma col grande difetto di trascinarsi più a lungo del dovuto, esasperando le situazioni fino a renderle inverosimili e noiosette.
Uno strano genere di film, che non si capisce a che pubblico sia rivolto: non ci sono star, i protagonisti sono di mezz’età, l’umorismo è cartoonesco ma fatto di parole… Probabilmente sarà stato più apprezzato da quei figli delle utopie anni Sessanta che negli Ottanta si ritrovavano schiavi delle corporation.
Nirvana
Gabriele Salvatores, 1997

Nel 1997 Gabriele Salvatores è sì un nome più che noto della cinematografia italiana, essendosi accaparrato un (discutibile) Oscar per Mediterraneo (1991), ma si può dire che fino a quel punto abbia sempre navigato nelle stesse acque, variando in mille salse sul tema degli uomini in fuga, da Marrakech Express a Puerto Escondido a Turné.
Tanto di cappello, dunque, per il coraggio di uscirsene a sorpresa con una co-produzione internazionale che sfidando tradizioni secolari tenta la via della fantascienza all’italiana, con tanto di scenografie alla Blade Runner, visori di realtà virtuale, e un generale clima da Matrix prima di Matrix.
Il protagonista è l’ex Highlander francese Christopher Lambert, un creatore di videogame in un’Italia futuristica che deve entrare nel suo stesso gioco e violare un sistema con l’aiuto di un hacker (Sergio Rubini!) per uno scopo che in due ore di film non risulta chiaro.
Dicevamo: il coraggio va applaudito, la tecnica registica c’è e la povertà di mezzi europei in fondo non si fa troppo sentire, ma i risultati sono piuttosto surreali: come altro definire uno scenario fantascientifico con un protagonista inespressivo da action movie in cui però compaiono Bisio e Abatantuono, e in cui Rubini (pur bravissimo) è un Morpheus con l’accento pugliese?
I dialoghi poi sono la manifestazione più tipica di quelle robe alla “Hai mai zigoviaggiato?” di morettiana memoria, e certi topoi narrativi infarciti di ricordi del passato, comparse asiatiche e occhiali virtuali le abbiamo veramente viste troppe volte, da Strange Days in giù.
Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.
Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
“500 Giorni Insieme” è stato uno dei miei cult della fase post-universitaria, chi non ha avuto nella vita una Zoey Deschanel che l’ha fatto tribolare? Grande colonna sonora, oltre agli Smiths ricordo anche i Clash (credo) e i Pixies.
Di “Nirvana”, visto solo una volta su Tele+, ricordo solo le tette di Stefania Rocca. Però è sicuramente un film interessante nel panorama italiano dell’epoca, qualche anno fa ho addirittura conosciuto lo scenografo (!).
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Ahah sempre un piacere averla qui, dottore, non sapevo di questa passione post-universitaria! Sai che gli americani hanno addirittura dato un nome (“manic pixie dream girl”) alle varie Zooey che ci hanno fatto tribolare, nei film o nella vita? Per quanto riguarda Nirvana, direi che del film potevi ricordare cose decisamente peggiori.
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