Guida galattica al cinema di François Truffaut

François Truffaut (1932-1984) è stato uno dei registi più amati di sempre, e ancora oggi è considerato il nome-simbolo di quella Nouvelle Vague che negli anni Sessanta rappresentò una rinascita della cinematografia francese.

Nel corso di una carriera iniziata alla fine degli anni Cinquanta e conclusasi prematuramente un quarto di secolo dopo, Truffaut ha comunque avuto modo di realizzare ben ventuno lungometraggi, che hanno esplorato i generi più diversi, tra drammi e farse, tra gialli e film in costume, rimanendo comunque fedeli al racconto dei sentimenti.

Se in una filmografia così vasta e diversificata può essere difficile decidere da dove iniziare, questa guida si propone di aiutare chi voglia scoprire la sua opera a fare le scelte giuste, magari anche iniziando dai film meno consigliati, perché si sa che i gusti non sono mai universali.

Buona esplorazione, e soprattutto buone scoperte a chi ha ancora davanti a sé tutti questi tesori cinematografici.


Imperdibili

I quattrocento colpi (Les 400 coups), 1959

Dopo tre cortometraggi, è qui che Truffaut debutta davvero, e lo fa con uno dei film più noti e riusciti della sua carriera. La storia è fortemente autobiografica, e vede protagonista l’indimenticabile tredicenne Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud), che in un’evocativa Parigi in bianco e nero si barcamena tra maestri severi e genitori mancanti d’affetto.

La scuola, la famiglia, i compagni di marachelle, il riformatorio, la scoperta del mare: la vita di Antoine a riguardarla è molto più tragica di quanto uno ricordi, perché Truffaut ce la mostra senza mai calcare sul patetico.

Un finale struggente e rimasto negli annali, una colonna sonora brillante, ma soprattutto un protagonista che non si può non amare, e che infatti tornerà in altri quattro film fino all’età adulta.


Jules e Jim (Jules et Jim), 1962

Probabilmente il film più famoso di Truffaut, anche se paradossalmente il più diverso dal suo stile abituale. Laddove di solito Truffaut si mantiene discreto e perfino sciatto nella regia, qui sembra voler mettere insieme ogni trucco del cilindro, con musiche presentissime, Cinemascope, fluidi movimenti di macchina felliniani, una voce off che così veloce non si è mai sentita, il formato dell’immagine che cambia, uso di filmati d’epoca.

Per la trama, è quella del triangolo amoroso che si svolge all’inizio del Novecento tra i due del titolo e l’imprendibile Catherine (Jeanne Moreau nel suo ruolo più celebre), che farà soffrire entrambi.

Difficile empatizzare davvero con i personaggi: con lei perché estremamente egoista e volubile; con loro perché succubi del suo giogo. Razionalmente difficile da comprendere, ma forse l’unico vero grande film di Truffaut a livello di stile.


Effetto notte (La nuit américaine), 1973

“I film sono più armoniosi della vita, Alphonse. Non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti: i film vanno avanti come i treni, capisci? Come i treni nella notte”. In questa citazione, che pronuncia proprio Truffaut nel ruolo del regista Ferrand, c’è tutto il suo amore per l’arte che gli ha salvato la vita.

Uno tra i migliori film sul cinema, è la storia, raccontata con buffi bozzetti che anticipano Wes Anderson, di una troupe impegnata a girare un film in costume, con Truffaut attore a dirigere, sempre vestito uguale come nei fumetti. Leggero nel senso migliore del termine, fa amare questo carrozzone di artisti e artigiani con tutti i loro difetti. L’ex diva Valentina Cortese si prende in giro magnificamente (perfino Ingrid Bergman agli Oscar dirà che lo meritava lei), e Jacqueline Bisset è una presenza luminosa mentre Truffaut le sistema il viso in un’immagine iconica. Musiche trionfali di Georges Delerue. “Il cinema impera!”


Baci rubati (Baisers volés), 1968

Dopo il breve episodio Antoine e Colette (1962), che ci offriva uno sguardo sulla vita di Antoine Doinel intorno ai 17 anni, qui lo ritroviamo poco più che ventenne e di ritorno da un arruolamento nell’esercito che rispecchia quello dello stesso Truffaut.

Tornato a Parigi e sistematosi in un appartamentino con vista sul Sacré Coeur, Antoine è un pesce fuor d’acqua nella società, e a volte dà proprio l’idea, come fossimo in un Taxi Driver allegro, di non conoscere i costumi che regolano le norme sociali e i rapporti uomo-donna.

Tra impieghi come detective privato, innamoramenti per donne sposate e l’inizio di una relazione con la futura sposa Christine (Claude Jade), alla fine non succederà quasi niente, ma il tono è così grazioso, tra la voce d’antan di Charles Trenet, la pariginità un po’ malinconica del tutto e la stramberia dei personaggi, che si tratta forse del film più tipicamente truffautiano di Truffaut.



Quasi fondamentali

L’ultimo metrò (Le dernier métro), 1980

1942: in una Parigi occupata, Catherine Deneuve è la primattrice del Teatro Montmartre, nonché temporanea direttrice della compagnia, visto che il marito è ebreo e deve nascondersi da occhi indiscreti.

Insieme al cast e alla piccola troupe cercherà di portare in scena uno spettacolo del marito tentando allo stesso tempo di non cedere alle lusinghe di Gérard Depardieu, suo amante sul palco e potenzialmente anche nella realtà.

Tra critici teatrali collaborazionisti, vita dietro le quinte e piccole strategie di sopravvivenza in tempo di guerra, il risultato è un film molto classico e quasi hollywoodiano, che sembra trasporre il clima cameratesco di Effetto notte nell’ambito teatrale aggiungendoci l’ambientazione della Seconda guerra mondiale. Deneuve e Depardieu più trattenuti che in altri casi, ma comunque iconici insieme come simboli del cinema francese.


Gli anni in tasca (L’argent de poche), 1976

L’argent de poche è letteralmente la “paghetta”, e con questo termine Truffaut sembra rievocare per intero la magia di un mondo infantile che, come la parola stessa, sembriamo dimenticare una volta superata una certa età.

Il film è tanto originale nella costruzione della trama quanto modesto nelle immagini, quasi si trattasse di un documentario senza particolari ambizioni di stile. Non c’è un protagonista, ma a susseguirsi sullo schermo sono i bambini di un’intera scuola di provincia, che in un gioco di incastri diventano personaggi principali per poi tornare sullo sfondo.

E’ come se Truffaut avesse spezzettato i vari aspetti della personalità di Antoine Doinel in vari personaggi, dal bambino discolo e maltrattato al sognatore goffo con le ragazzine (che, va detto, qui vengono tralasciate quasi del tutto). Da non dimenticare poi il ruolo degli insegnanti, il cui mestiere necessario e a volte ingrato viene per una volta mostrato nei suoi lati migliori.


L’uomo che amava le donne (L’homme qui aimait les femmes), 1977

Bertrand Morane (Charles Denner) è un Casanova assolutamente anomalo: mai arrogante, mai volgare, mai inopportuno. Semplicemente, è incapace di non desiderare le donne, che ama tutte come un dono divino, e i suoi modi cortesi sono evidentemente ricambiati dal genere femminile, anche se dopo una notte il suo interesse di solito scema già.

La sua vita di uomo che “non vedrete mai in compagnia di uomini dopo le sei di sera” viene raccontata in una serie di episodi tra presente e passato, mostrandoci le sue avventure galanti e in fin dei conti la sua incapacità di trovare la felicità nella stabilità, bensì “nella quantità, nella moltitudine”.

Il soggetto, molto autobiografico per Truffaut (che veste il protagonista con i suoi tipici abiti personali), sarebbe molto accattivante, ma se gli va dato atto di riuscire a mantenere una notevole delicatezza anche su un tema che poteva scivolare nel volgare, il problema sta probabilmente nell’attore protagonista, con una faccia troppo ombrosa e modi troppo freddi per suscitare simpatia, e un’atmosfera in cui si finisce per sentirsi in imbarazzo più che per tifare per lui.


La signora della porta accanto (La femme d’à côté), 1981

Forse uno dei film più impersonali di Truffaut, di cui non si riconosce fino in fondo la firma, che comunque si ritrova nel coraggio del sentimentalismo senza pudori, e nel mostrare quanto possa essere irrazionale la passione.

I personaggi di Ardant e Depardieu (coppia perfetta che ormai è sinonimo di storia d’amore tormentato) sono due ex fidanzati che, per puro caso, si ritrovano a essere vicini di casa. Il problema è che sono entrambi sposati, e lui con prole. Come nel più tipico dei melodrammi, basterà poco a riaccendere la fiamma sopita, e la cosa porterà ad eccessi e sofferenze che coinvolgeranno anche chi li ama.

Come in Jules e Jim, anche qui Truffaut sembra stare coi passionali senza preoccuparsi di chi ne paga le conseguenze: dialoghi forse più convenzionali che altrove e storia in fondo banale, ma questi attori rendono tutto più vero del vero.


Il ragazzo selvaggio (L’enfant sauvage), 1970

Un cartello iniziale ci avvisa da subito: quella che vedremo è una storia vera accaduta nel 1798, e il film è una trasposizione dei diari del dottor Jean-Marc Itard, che qui viene interpretato da Truffaut stesso.

La controparte del dottor Itard è il giovane Victor, nome attribuito a un ragazzo muto e nudo trovato in un bosco francese, dai comportamenti più simili a quelli di un animale che a quelli di un uomo. Se il dott. Itard non sa dare spiegazioni precise su come sia finito in quello stato di natura, e come sia sopravvissuto con le sue sole forze, sa però che può provare ad aiutarlo, e lo porta quindi a vivere con sé tentando una faticosa istruzione.

Anticipando sia L’enigma di Kaspar Hauser di Herzog che The Elephant Man di Lynch, Truffaut ci mostra in un bianco e nero sgranato una figura estranea a ogni norma, inizialmente derisa e temuta, e la fatica necessaria (e forse impossibile) per stabilire una comunicazione e un contatto umano.

Mostrandoci un altro bambino desideroso di libertà dopo Antoine Doinel, Truffaut realizza uno dei suoi film più “hollywoodiani”, che però delude quando, proprio sul più bello, fa finire il film dopo soli 80 minuti, privandoci del finale atteso.



Non per tutti i gusti

Adele H. – Una storia d’amore (L’histoire d’Adèle H.), 1975

Pare che un anziano Luchino Visconti confidò a Gian Luigi Rondi che Adele H. sembrava un suo film, e in effetti la cura della ricostruzione d’epoca unita a un forte impianto melodrammatico sembrano più vicini alla sua sensibilità che all’autore di Mica scema la ragazza!.

Tratto dai diari, scoperti nel 1955, di Adèle Hugo, figlia del grande scrittore Victor, è la storia di una giovane donna dell’Ottocento accecata dall’amore, che arriva alla follia pur di non accettare di non essere amata da un ufficiale, e probabilmente nemmeno dal padre.

La follia ossessiva è uno dei temi ricorrenti in Truffaut, perfino nelle commedie, e qui arriva all’estremo con una protagonista che dal primo minuto è schiava di un sentimento totalizzante e masochista. Tutto il film ruota attorno al volto e alla performance di Isabelle Adjani, giovanissima, e se regge è grazie al suo mix di telegenia magnetica e forza interpretativa, altrimenti il film soffocherebbe nel ricorso troppo frequente alla voce off e a un’ingombrante voglia di fare letteratura invece che cinema.


Finalmente domenica! (Vivement dimanche!), 1983

Ultimo film di Truffaut, che se non fosse per quest’ombra involontaria sarebbe stato probabilmente derubricato a divertissement di passaggio. Tratto da uno dei solito romanzetti gialli spesso adattati dal regista, è la storia in un bianco e nero vintage di un anonimo gestore di un’agenzia di viaggi (Jean-Louis Trintignant, praticamente sempre identico dal ’75 in poi), che viene accusato di vari omicidi.

Sarà la sua segretaria (una spigliatissima Fanny Ardant vestita con un trench da eroina di Hitchcock sopra a una calzamaglia da paggio rinascimentale) a tirarlo fuori dai guai, intraprendendo un’indagine parallela a quella della polizia.

Vari cliché da giallo di serie B, tra maniche della giacca strappate con dentro indizi decisivi e storie d’amore  anni Cinquanta un po’ fasulle, in mezzo ai quali Truffaut non resiste a buttare qualche riflessione ad alta voce sul genere thriller e sulle follie che si fanno per le donne.


Fahrenheit 451, 1966

Primo film a colori di Truffaut, Fahrenheit 451 è una notevole anomalia nella sua filmografia, in quanto all’epoca (e anche più tardi) in pochi si sarebbero aspettati di vederlo impegnato nella fantascienza.

Il materiale di base è quello del romanzo di Ray Bradbury, in cui si immagina un futuro distopico e dittatoriale in cui i pompieri sono un corpo speciale adibito a bruciare i libri, almeno fino a quando uno di loro (l’Oskar Werner già Jules di Jules e Jim) non conoscerà una bella ribelle (Julie Christie) in grado di fargli aprire gli occhi.

Il connubio Nouvelle Vague-fantascienza non dà risultati propriamente eccezionali: in un genere in cui si è abituati a personaggi eroici e scenografie magniloquenti, le scelte d’autore di un protagonista scialbo e di una cornice visiva che oggi risulta più datata di Star Trek sembrano stonate.

Bella l’idea dei titoli di testa recitati invece che scritti (in linea con la trama) e bel finale sulla forza dei libri.


La sposa in nero (La mariée était en noir), 1967

Quentin Tarantino ha dichiarato di non aver mai visto questo film prima di realizzare il suo Kill Bill (2003-4), ma evidentemente il suo subconscio ne conosceva la trama, visto che Jeanne Moreau vi interpreta una “Sposa” impegnata a fare fuori uno dopo l’altro i suoi nemici.

Il movente è la vendetta, visto che un gruppo di persone si è reso corresponsabile della morte del marito, e il film non è che la rappresentazione, senza troppi cambi di programma, del suo piano per uccidere cinque uomini in modalità ogni volta diverse. Le musiche di Bernard Herrmann, compositore preferito di Hitchcock, fanno capire qual è l’ispirazione, ed è assolutamente hitchcockiano anche il finale con un colpo di scena risolutivo, ma la protagonista, donna ossessiva e in grado di soffocare senza rimorso un padre di famiglia, non favorisce certo l’empatia dello spettatore. Senza contare che Hitchcock avrebbe sicuramente fatto in modo di farla innamorare di qualche sua vittima o di complicarne i piani, mentre qui tutto procede senza gli intoppi necessari.


Non drammatizziamo… è solo questione di corna (Domicile conjugal), 1970

Quarto episodio del “ciclo Doinel” dopo I 400 colpi, Antoine e Colette e Baci rubati. Dopo il corteggiamento del film precedente, Antoine e Christine sono sposati e in attesa di un pargolo, ma il contrasto tra la saggezza e responsabilità di lei e il suo essere un eterno, indeciso adolescente, creeranno qualche complicazione alla coppia.

Titolo italiano indifendibile, ma c’è da dire che il tono è comunque più banalotto rispetto al passato: i personaggi minori sono una folla di eccentrici, la regia non è particolarmente elegante e le gag vivono tutte di una leggerezza che a volte sconfina nell’inconsistenza. In particolare, poi, il personaggio di Antoine sembra troppo estroverso rispetto al passato, col risultato straniante di non riconoscere più il ragazzino ammusonito di un tempo o il timido corteggiatore di Baci rubati.


Mica scema la ragazza! (Une belle fille comme moi), 1972

Tratto anche questo da un romanzetto, è uno dei film più esili e privi di ambizioni del regista, ma il ritmo è talmente scoppiettante e la protagonista talmente energica, che in fondo come spettatori ci facciamo volentieri sedurre da lei come gli uomini che imbroglia lungo la trama.

Personaggio centrale è Camille, una sboccata e irresistibile criminale interpretata da Bernadette Lafont (che era stata protagonista già nel 1957 del primo cortometraggio di Truffaut). Mischiando un’aria sexy a un tono da Pippi Calzelunghe, Camille racconta la sua vita, i suoi uomini e le sue avventure illegali a un sociologo che vuole farne il soggetto di un libro, ma che ovviamente finirà per essere il suo prossimo pollo da spennare.

Personaggi da cartoon, volgarità e nudità più presenti del solito, scenette demenziali, uno spirito un po’ alla Woody Allen primissima maniera che sembra fatto apposta per chi crede che Truffaut sia solo malinconia. (Il tema dei titoli di testa verrà ripreso felicemente in Frances Ha di Noah Baumbach nel 2012).


La camera verde (La chambre verte), 1978

Nel 1928, il signor Davenne (di nuovo Truffaut in veste di attore protagonista) si occupa di necrologi sul giornale locale, e mette una cura particolare nel suo mestiere perché è ossessionato in prima persona dal tema della morte.

Sua peculiarità che lo rende quantomeno accusabile di gusto del macabro è il fatto di aver restaurato una cappella trasformata in un vero e proprio tempio a memoria della moglie defunta undici anni prima, e anche di tutti quelli che hanno contato nella sua vita, tra foto e candele accese.

Tratto da tre racconti di Henry James, è un film estremamente lugubre, in cui il protagonista in fondo non è che l’ennesimo ossessivo del cinema di Truffaut, un gemello maschio di Adele H. che non sa rapportarsi con la vita presente perché bloccato nella celebrazione del passato. Tetro e melodrammatico, merita sicuramente un plauso per il coraggio, ma viene voglia di tornare alle avventure di Doinel subito dopo.



Per completisti

L’amore fugge (L’amour en fuite), 1979

Ultimo film della saga di Antoine, rispetto agli altri è un film-collage che fa molto uso dei flashback dai film precedenti (e perfino da altri film con gli stessi attori!), e se rivedere Jean-Pierre Léaud bambino che gioca al luna park crea un commovente legame col passato, spesso c’è un che di appiccicaticcio nell’insieme.

Bella l’idea di far reincontrare ad Antoine la sua ex fiamma Colette, oggi libera e matura, e in generale di riallacciare molti dei fili delle storie già vissute, ma il tutto sembra più una confessione felliniana di Truffaut sulle sue debolezze private, e il fatto che Léaud sia vestito esattamente come il regista sembra confermare l’identità tra i due.

Un finale un po’ in minore per un personaggio la cui simpatia va a calare col passare dei film: peccato.


La calda amante (La peau douce), 1964

Lui è un famoso intellettuale di mezz’età, sposato e con una figlia, sovrappeso e dallo sguardo triste; lei una bionda e giovane hostess in minigonna con il viso di Françoise Dorléac. Per la solita magia dei film, i due diventano amanti, e il povero diavolo con la faccia da vecchio maniaco perde completamente la testa mandando all’aria il suo matrimonio.

Un po’ come in Lolita, con quest’uomo maturo che si innamora follemente di una ragazza che si capisce da subito essere più accorta di lui, e con un finale da thriller decisamente triste. Ben raccontate le scene di seduzione, bravi attori e bella musica di Delerue, ma il tutto sembra l’esatto opposto, come ritmo, originalità e protagonisti, della vitalità di Jules e Jim.


La mia droga si chiama Julie (La sirène du Mississipi), 1969

Rispetto al film con Jeanne Moreau, la sposa è in bianco stavolta, ma non meno pericolosa. Catherine Deneuve infatti usa tutto il suo fascino glaciale e impenetrabile per interpretare la Julie del titolo, sposa per corrispondenza che scende dal piroscafo Mississipi sull’Isola della Réunion per convolare a nozze con l’industriale Belmondo.

La coppia d’assi del cinema francese dovrebbe teoricamente fare faville, anche perché Bébel era già stato protagonista perfetto di simili avventure pulp con Godard, ma il risultato è molto deludente, e dopo una prima mezz’ora con il tema tipicamente hitchcockiano dei neo-coniugi (da Il sospetto a Rebecca a Marnie), il resto è una storia d’amore e di crimine piuttosto inverosimile che sfrutta molto poco due attori del genere.


Le due inglesi (Les deux anglaises et le continent), 1971

Tratto dal secondo romanzo di Henri-Pierre Roché, già autore di Jules e Jim, è di fatto una variazione sullo stesso tema, sempre ambientato a cavallo tra Ottocento e Novecento e sempre incentrato sul triangolo amoroso tra tre giovani.

Stavolta, per cambiare, a essere due sono le donne, nello specifico due sorelle britanniche, che a turno flirtano con un giovane nobiluomo (Jean-Pierre Léaud) che frequenta la loro villa.

Tra le pagine del libro inquadrate sui titoli alla solita voce off troppo presente, anche stavolta Truffaut eccede in letterarietà, scadendo in un dramma borghese, artefatto e melodrammatico che tocca punte di morboso decisamente sgradevoli. L’alternanza continua tra francese e inglese non aiuta.


Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste), 1960

Forse il film più godardiano di Truffaut, che decide di far seguire alla delicatezza commovente de I 400 colpi un noir metropolitano nervoso, violento e jazzato, sicuramente molto Nouvelle Vague ma più simile a un esercizio di stile che a un film davvero sentito.

Le vicende narrate (tratte da un romanzo) sono quelle di Charlie Kohler, pianista in una bettola dal passato misterioso che si ritrova immischiato in un regolamento di conti tra gangster, finendo per mettersi nei guai se stesso e una ragazza che lo ama.

All’epoca poteva stupire per i giochini di montaggio, le gag da cinema muto e un generale ritmo indiavolato, ma eccettuando la grande performance di Aznavour, le emozioni vere non sono molte.


Antoine e Colette, episodio di L’amore a vent’anni (L’amour à vingt ans), 1962

Non abbiamo incluso i cortometraggi in questa filmografia (ci sarebbero anche Une visite, 1954, L’età difficile, 1957, e Une histoire d’eau, 1958), ma visto che questo episodio del film collettivo L’amore a vent’anni è parte integrante del ciclo delle avventure di Antoine Doinel, possiamo fare un’eccezione.

Avevamo lasciato Antoine tredicenne scapestrato alla fine de I 400 colpi, e ora lo ritroviamo indipendente e impiegato presso una fabbrica di vinili intorno ai diciassett’anni. L’età è quella giusta per l’interessamento all’altro sesso, e così con la complicità dell’amico di sempre René si dedica a corteggiare a dir poco insistentemente la bella Colette, che però non sembra pazza di lui.

Un bozzetto breve e incompiuto, che forse si accanisce troppo sul povero Antoine e gli nega sadicamente un po’ di meritata felicità. Fortunatamente ci saranno altri tre film per trovarla, e la stessa Colette tornerà protagonista a chiudere il cerchio ne L’amore fugge quando avranno entrambi il doppio degli anni.


9 risposte a "Guida galattica al cinema di François Truffaut"

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  1. “L’amore fugge” mi ha commosso più di quanto credevo fosse possibile. Forse proprio perché è un collage. “Finalmente Domenica” lo amo molto, è la sua grande dichiarazione d’amore nei confronti di Hitchcock. Alcuni altri (la maggior parte) non li vedo da un paio di decenni, visti una volta e mai più rivisti, anche se mi erano piaciuti pressoché tutti. Forse se proprio devo trovarne uno che mi ha lasciato freddino è “Il ragazzo selvaggio”.

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    1. Su “L’amore fugge” giudicato un po’ severamente credo abbia influito il fatto che stavolta l’ho rivisto un giorno dopo gli altri, quindi mancava l’effetto “Ma dai, ti ricordi??”. Però molto carino il ritorno a sorpresa di Colette.

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