Bruce Chatwin – In Patagonia

A livello geografico, la Patagonia è la regione più a sud del continente americano, una terra che comprende parte di Argentina e Cile, e che vede alternarsi città, insediamenti rurali, foreste pluviali, steppa e ghiacciai dove vivono foche e pinguini.

A livello storico, la Patagonia è stata abitata da popolazioni indigene da almeno diecimila anni, per poi diventare nota agli europei nel Cinquecento grazie alle esplorazioni di Magellano (che le diede il nome) e poi Francis Drake e Charles Darwin, che nel 1832 la raggiunse a bordo della nave Beagle per gli studi che furono alla base de L’origine delle specie.

Di tutto questo c’è però ben poco nelle pagine di In Patagonia (1977) di Bruce Chatwin: quella descritta non è una terra necessariamente reale, ma un luogo metafisico ai confini del mondo, lontano dal presente e fatto di leggende, misteri e uomini e donne che sembrano appartenere a un’epoca lontana e imprecisata.

Per capire le persone e i luoghi narrati in questo romanzo-diario – difficile dargli un’unica definizione – bisogna innanzitutto capire il suo autore, che fece della sua stessa vita un romanzo d’avventura ai confini del mondo.

Nato nel 1940 a Sheffield, Inghilterra, Bruce Chatwin era figlio di una famiglia agiata e si abituò presto a letture erudite e interessi artistici, tanto che già a diciott’anni era l’enfant prodige della notissima casa d’aste londinese Sotheby’s, dove lavorò come apprezzatissimo intenditore e valutatore di opere impressioniste.

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In seguito abbandonò questo lucrativo e prestigioso impiego e si iscrisse all’Università di Edimburgo per studiare archeologia, e in questi anni viaggiò molto in Asia e Africa diventando un profondo conoscitore e ammiratore delle tribù nomadi locali.

D’altronde egli stesso scriveva:

Forse dovremmo concedere alla natura umana un’istintiva voglia di spostarsi, un impulso al movimento nel senso più ampio. L’atto stesso del viaggiare contribuisce a creare una sensazione di benessere fisico e mentale, mentre la monotonia di una stasi prolungata o del lavoro fisso tesse nel cervello delle trame che generano prostrazione e un senso di inadeguatezza personale. (da Che ci faccio qui, Adelphi, Milano 1990)

Anche l’università però non era la sua strada, e abbandonò gli studi per fare da corrispondente culturale del Sunday Times Magazine, inviando reportage da luoghi come Afghanistan, Algeria, Mauritania, Iran, Cina, Unione Sovietica, Medio Oriente.

Un giorno del 1972 è a Parigi, intento ad intervistare la 93enne architetta e designer Eileen Gray, e nota nel suo studio una mappa dipinta a tempera della Patagonia. Chatwin stesso ha raccontato anni dopo quel momento di svolta, che lasciamo al suo stile scarno ed essenziale:

“Ho sempre desiderato andarci”, dissi. “Anch’io” – disse lei – “Vacci tu per me”. Ci andai. Mandai un telegramma al Sunday Times: “Andato in Patagonia”. Nel mio zaino misi Journey to Armenia di Mandelstam e In Our Time di Hemingway. Sei mesi dopo tornai con l’ossatura di un libro che venne pubblicato. Mentre legavo insieme le frasi del testo, pensai che raccontare storie fosse l’unica occupazione concepibile per una persona superflua come me. (The New York Times, 27 febbraio 1983)

Così Chatwin partì davvero (anche la sua decisione fu meno immediata di quanto raccontò romanzescamente), e nel novembre del 1974, dopo essere atterrato a Lima, iniziò il suo viaggio di sei mesi in quella terra allora così misteriosa che nel 1977 sarebbe diventata protagonista del suo libro. Da allora non avrebbe più smesso di viaggiare, e il suo mestiere sarebbe definitivamente diventato quello di scrittore.

Al proposito disse: “La mia carriera ha seguito un percorso inverso rispetto alla norma, in quanto ho iniziato come sgradevole piccolo capitalista in una grossa azienda in cui mi sono egregiamente affermato, facendo il leccapiedi, e d’un tratto, arrivato ai venticinque anni, mi sono accorto che odiavo ogni attimo di quella vita. Dovevo trovare un’altra strada”.

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Chatwin comincia il suo racconto nel modo più romanzesco possibile, narrando di quanto da bambino fosse rapito da un prezioso oggetto presente nell’armadietto di sua nonna: un pezzetto di pelle con dei ciuffi di pelo rossiccio, che, gli era stato spiegato, era “un pezzo di brontosauro” proveniente dalla Patagonia.

Lì lo aveva trovato e poi spedito decenni prima il cugino di sua nonna, Charley Midward il Marinaio, che il piccolo Bruce immaginava “come un dio fra gli uomini – alto, taciturno e forte, con neri favoriti e fieri occhi azzurri. Portava il berretto da marinaio inclinato su un lato e l’orlo degli stivali piegato all’ingiù”.

In realtà, l’animale era probabilmente un bradipo gigante e non certo un brontosauro, ma da subito Chatwin ci fa capire che la prima versione è quella che lo affascina di più, e dopo questo brevissimo prologo fantastico in cui si narra l’inizio della sua passione per la Patagonia, con uno stacco di montaggio immediato siamo immediatamente trasportati a Buenos Aires nel 1974.

In Patagonia da quel momento in poi diventa non più un romanzo, ma un libro di storie e di incontri, tantissimi: 97 brevi capitoli che vedono un continuo alternarsi di descrizioni delle persone incontrate durante il suo viaggio e di lunghe digressioni su fatti storici o mitici avvenuti in passato in quelle terre.

Ecco così che si intrecciano le istantanee di vita vissuta (forse, perché in Chatwin nulla è vero con certezza, ma più spesso verosimile) e i personaggi del folklore e del mito, gli agricoltori scozzesi emigrati in Argentina e le storie dei primi esploratori, gli allevatori di cavalli e la vita di Butch Cassidy e Sundance Kid esuli in Sudamerica.

Tutto dà il senso di piccole ma dettagliate polaroid che formano un diario di viaggio come quelli che Chatwin scriveva sulle sue inseparabili agende Moleskine, in cui nessun personaggio viene “spiegato” fino in fondo ma appare per come è apparso al narratore, come se fossimo lì con lui senza sapere altro.

Su tutto aleggia il desiderio di moto perpetuo, l’impossibilità di stare fermi, che l’autore vedeva come il male assoluto. Scriveva infatti:

In uno dei suoi momenti cupi, Pascal dice che tutta l’infelicità dell’uomo proviene da una causa sola: non sapersene star quieto in una stanza. ‘Notre nature’ – egli scrive – ‘est dans le mouvement… La seule chose que nous console de nos misères est le divertissement’. Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo, amore e paesaggio: ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono. (in Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi, Milano 1996)

Tra la verità e la finzione dei suoi racconti, Chatwin sceglie l’ambiguità. Lui stesso dichiarava di aver perso il conto delle bugie raccontate nei suoi libri, sottolineando: “A me l’onestà non interessa affatto”. In Patagonia è sì un travelogue, un diario di viaggio, che dal momento della sua pubblicazione ha fatto da guida a moltissimi viaggiatori solitari che ne hanno voluto ricalcare le orme, ma è anche pura letteratura, una trama di voci, facce e nomi che vanno a formare il volto di una terra indecifrabile, a metà tra il vecchio mondo, con le sue tradizioni e la sua eleganza, e lo spietato nuovo mondo della natura selvaggia.

Da allora la Patagonia stessa è cambiata, e molto del suo appeal si è perso a causa di tutto ciò che oggi ci tiene ancorati al presente (telefoni, computer, GPS…) anche in una terra così lontana. Leggere In Patagonia vuol dire invece perdersi in un racconto frastagliato, a volte ostico nel suo stile così secco e fugace ma quanto mai affascinante, che sembra venire da un’epoca lontanissima in cui era ancora possibile scoprire nell’armadietto di una nonna “un pezzo di brontosauro”.

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