La storia di Stoner è contemporaneamente tre storie insieme, tutte e tre molto simili se non fosse per il finale quasi hollywoodiano di una delle tre, che è poi il motivo per cui oggi possiamo leggere, apprezzare e recensire questo libro.
La prima storia è quella narrata nelle sue pagine: quella di William Stoner, sposato e con una figlia, professore universitario di letteratura medievale all’Università del Missouri, nato nel 1891 e morto nel 1956 senza lasciare molte tracce dietro di sé. Un Walter White prima di cominciare a cucinare metanfetamina, potremmo dire.
La seconda storia è quella del suo autore: John Williams, scrittore e professore universitario di scrittura creativa all’Università di Denver, nato nel 1922 e morto nel 1994 senza che le sue opere (nonostante un National Book Award nel 1973) abbiano mai fatto capolino nelle classifiche di vendita o tra le preferenze della critica.
La terza storia, quella apparentemente simile ma dal finale inatteso, è quella di Stoner come prodotto editoriale, e sembra un racconto morale sul non arrendersi: pubblicato nella quasi totale indifferenza nel 1965 (si parla di duemila copie), venne poi dimenticato per decenni, ristampato nel 2003 e di nuovo ignorato, e poi nel 2006 ancora senza successo. Solo nel 2012, quando una scrittrice francese ne acquistò i diritti per farlo tradurre, il libro cominciò a farsi strada in Europa, diventando rapidamente un fenomeno editoriale assoluto, con traduzioni a iosa, centinaia di migliaia di copie vendute e fior fior di scrittori e critici a definirlo “il più bel libro di cui non avete mai sentito parlare”.
La storia sembra ancora più assurda se si considera che Stoner è un libro praticamente privo d’azione in senso stretto, e le sue pagine raccontano una storia talmente ordinaria che una sinossi in quarta di copertina scoraggerebbe chiunque. L’incipit in questo senso è perentorio nel voler mettere da subito in guardia i lettori su cosa c’è da aspettarsi: “William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido”. Più sincero di così…
Se però la trama può essere riassunta in quelle pochissime righe, questo è solo un dato di merito per l’autore, che nonostante queste basi riesce a coinvolgere il lettore dall’inizio alla fine, dall’adolescenza alla morte, in una vita che in fondo è “solo” quella a cui la maggior parte dei viventi è destinato. Una vita senza sobbalzi, senza entrare nella Storia, senza successi particolari, con gioie medie (in questo caso anche meno che medie) e infelicità altrettanto medie: insomma, la vita che statisticamente quasi tutti viviamo.
Ecco quindi che nel leggere della vita ordinaria di William Stoner, un uomo mite e all’antica, il cui massimo momento di splendore è il breve interludio amoroso con una sua studentessa, si genera una malinconia profonda, ma anche un’enorme empatia, per lui e per noi.
Perché William Stoner non è solo medietà (la parola mediocrità è davvero ingiusta per lui), ma è anche un uomo con una vita interiore ricca e profonda, che quando per la prima volta sente recitare il Sonetto 73 di Shakespeare capisce, lui figlio di agricoltori, che la letteratura sarà la sua vita; un uomo che è quasi in trance quando da professore cerca di trasmetterla, riuscendoci appena, quella passione; e che nei rari momenti con la sua amante vive una gioia vera, seppur breve, in un amore che la moglie non gli ha mai dato.
Seguendolo come unico protagonista fino alla fine, nei suoi insuccessi accademici, nel suo matrimonio infelice, non possiamo che sentirlo vicino, realizzare che in fondo le nostre avventure sulla terra saranno probabilmente limitate, ma allo stesso tempo essere grati per il fatto che tutto quello che avremo pensato e provato anche nella vita più ordinaria è degno della più alta letteratura. Come questa.