Se c’è un pregio di Rocketman che anche i suoi detrattori non potranno negare, è la sua capacità di assomigliare in tutto e per tutto, nel bene e nel male, al suo protagonista: grandioso, kitsch, non convenzionale, zuccheroso, sincero, simpatico, un po’ vacuo.
In fondo Elton John, il protagonista di cui stiamo parlando, non è mai stato un serioso cantautore alla Dylan o uno sperimentatore inguaribile alla Bowie, non ha mai fatto mistero del suo gusto per la frivolezza ma non ha nemmeno mai celato le sue debolezze e la sua umanità.
Il film diretto da Dexter Fletcher, uscito il 30 maggio al cinema, è un caleidoscopio di suoni, colori e movimenti di macchina che, avvicinandosi tanto al musical più estroso quanto al film biografico più classico, conduce lo spettatore nel luna park di glorie ed eccessi che è stata la scalata al successo di Reginald Dwight, dal 1969 a noi noto come Elton John.
Bastano pochissimi minuti per rendersi conto che il film non è un resoconto pedissequo della cronologia della vita dell’artista, ma una fantasia musical-coreografica alla Moulin Rouge! che attraverso i testi delle sue canzoni (per una volta giustamente sottotitolate in italiano!) esprime i vari stati d’animo che attraversavano la mente del cantante negli anni Settanta.
Sì, perché (e anche questa è un’anomalia notevole) in Rocketman sono molti gli eventi totalmente esclusi dal racconto: la celebre esibizione con Candle in the Wind al funerale di Lady Diana, il duetto con John Lennon, l’incontro con l’attuale marito David Furnish, il successo della colonna sonora del Re leone, e in generale buona parte della sua vita da metà anni Ottanta in poi.
Il film preferisce concentrarsi sugli anni della trasformazione: per contrasto, inizia mostrando il piccolo Reggie Dwight, bambino che cresce privo d’affetto in casa, e che diventa un giovane timido, gay e tendente alla calvizie: quanto di più distante dal physique du rôle della tipica rockstar.
Grazie però alla sua forza di volontà, al talento musicale, ai testi di Bernie Taupin (equivalente internazionale di Mogol per Battisti) e a un’inaspettata presenza scenica, il ragazzo a partire dal 1970 diventa una star mondiale, e comincia a sfornare successi apparentemente senza sosta.
Apparentemente, perché se quei primi anni vedono (nella realtà storica come nel film) una sequenza a getto continuo di ottimi dischi, singoli-capolavoro e tournée spettacolari, già dal ’75 o giù di lì, fisiologicamente, il livello della produzione si abbassa, e Elton diventa più una popstar eccentrica e straricca che un vero artista con un suo percorso personale.
Ascoltare una compilation (Elton John’s Greatest Hits, del ’74) o un live (Here and There, del ’76) che si fermi alla musica prodotta in quel periodo iniziale sbalordisce per la quantità di hit e classici assoluti prodotti in così poco tempo, da Your Song a Bennie and the Jets, da Tiny Dancer a Crocodile Rock. In seguito, il crollo dopo una tale bulimia creativa è pesante.
Prima di mostrarcelo drogato, alcolizzato e sentimentalmente infelice, però, il film si supera nell’inscenare rappresentazioni perfette delle sue canzoni migliori, che sembrano davvero essere state scritte per avere dei piccoli videoclip a corredo: ecco che Saturday Night’s Alright for Fighting è ambientata in una rissa da pub londinese (“Un paio di suoni che mi piacciono davvero sono quelli del coltello a serramanico e di una moto / Sono un giovane prodotto della classe lavoratrice il cui migliore amico sta in fondo ad un bicchiere / Non dateci nessuna delle vostre seccature, ci siamo rotti della vostra disciplina / Sabato sera va bene per fare a botte, mettiamoci un po’ d’azione”); Rocket Man descrive bene il suo alternarsi tra un privato di solitudine e un pubblico di gloria (“Ci si sente soli, nello spazio, in questo volo senza tempo / E credo che passerà molto tempo prima che l’atterraggio mi convinca di nuovo / Che non sono l’uomo che mi si crede a casa: oh no, sono un uomo-razzo”); Goodbye Yellow Brick Road è il ritratto perfetto della sua voglia di tornare alla normalità (“E allora addio strada di mattoni gialli, dove i cani della società ululano / Non puoi installarmi nel tuo attico, me ne torno al mio aratro / Torno al mio vecchio gufo ululante nei boschi, a caccia del rospo dal dorso calloso / Ho finalmente deciso che il mio futuro sarà al di là della strada di mattoni gialli”).
La scelta di limitarsi a mostrare prima la sua scalata al successo, e poi la sua “caduta dalla grazia” tra alcol, droghe e pessimi dischi, senza seguire nel dettaglio le sue vicende personali e discografiche, non si rivela in fondo sbagliata, perché purtroppo in quel caso avremmo ottenuto un film in larga parte basato sul “recente” Elton John: uomo di spettacolo, grande indossatore di costumi, re di Las Vegas, ma fondamentalmente irrilevante dal punto di vista musicale da quarant’anni.
E qui è inevitabile tirare in ballo quello che gli anglofoni chiamano “l’elefante nella stanza”: l’argomento finora non citato che però incombe con la sua ombra su tutto un progetto come questo, vale a dire Bohemian Rhapsody.
Dopo 900 milioni di incasso (solo negli USA), quattro Oscar, una colonna sonora vendutissima, un regista in comune (Dexter Fletcher terminò il film dopo l’allontanamento di Bryan Singer), il tutto a soli pochi mesi di distanza, è impossibile non fare confronti.
In fondo le figure di Elton John e Freddie Mercury hanno una quantità di punti in comune impressionante: entrambi inglesi del Middlesex e coetanei, entrambi brutti anatroccoli diventati star, entrambi grandi pianisti, entrambi assurti alla celebrità nei primi anni Settanta, entrambi con un penchant per l’eccesso e il cattivo gusto, entrambi gay, entrambi sposati con una donna e poi pentiti, entrambi con un nome d’arte, entrambi con il dono dell’inno pop, entrambi dediti a una musica di alto intrattenimento più che di impegno o profonda introspezione.
Le loro differenze però esistono, e si riflettono nei rispettivi film andando di volta in volta a vantaggio dell’uno o dell’altro.
Innanzitutto c’è da dire una cosa molto poco gradevole ma innegabile: un eroe morto, preferibilmente giovane, sarà sempre meglio di un eroe vivo. L’epica, la leggenda, sono fatte per narrare le imprese di chi ci ha lasciato prematuramente, e il mondo dell’entertainment non fa eccezione, da John Lennon in giù.
Forse Freddie Mercury ha fatto dei pessimi album mentre era in vita, ma purtroppo o per fortuna se n’è andato senza diventare un vecchio grassone pettegolo vestito da Re Sole che fa soldi sfruttando canzoni scritte quarant’anni fa. E a livello di ingredienti per un buon biopic, questo non è da poco.
Se però prendiamo l’aspetto caratteriale, nonostante tutto l’impegno di Rami Malek per offrire un Freddie Mercury sensibile e fragile, è indubbio che quest’ultimo non fosse un campione di simpatia o umanità. Il suo personaggio pubblico è sempre stato quello di un re/regina nato per dominare i suoi sudditi dall’alto di un palco, eccentrico negli abiti (nella sua fase anni Settanta) o “duro” negli anni Ottanta coi suoi baffi, il look da sportivo e le pose messianiche.
Per quanto a rileggerla ora sia assolutamente esagerata nel suo rigore ideologico e nei suoi toni d’accusa, una recensione comparsa su Rolling Stone nel 1979 rende l’idea di come una parte del pubblico potesse percepire il modo di porsi dei Queen: “Questo gruppo è arrivato per rendere perfettamente chiaro chi è superiore e chi inferiore. Il loro inno, We Will Rock You, è un ordine di marcia: non sarete voi a scuoterci, saremo noi a scuotere voi. Per dirla tutta, i Queen potrebbero essere la prima band autenticamente fascista”.
Ecco, a Elton John questo tipo d’accusa sarebbe stata rivolta con difficoltà: nonostante le sue follie appariscenti e le sue folle adoranti, è sempre rimasto visibile in lui il Reginald Dwight fragile e stempiato, un ordinary guy con un talento per la musica e l’intrattenimento, sempre più votato alla carezza pop che alle marce trionfali. Nel film, grazie all’ottima prova di Taron Egerton, la simpatia del pubblico per questo nerd coi capelli rossicci è istintiva, e risulta dunque facile fare il tifo per lui e perdonargli i suoi sbagli.
Ma è proprio questo aspetto che, cinematograficamente parlando, lo penalizza: a Elton John manca il lato epico, l’impresa eroica, il drama di cui era impregnato il finale di Bohemian Rhapsody: lì avevamo un combattente macho che, saputo di essere prossimo alla morte (in barba al realismo della cronologia), teneva in pugno 80.000 spettatori con venti minuti di carisma rock assoluto.
In Rocketman questo momento manca: certo, c’è la trascinante e quasi sacrale esibizione su Crocodile Rock, ma in questo caso è la canzone della svolta per il successo, non il gran finale, che è invece affidato a un paio di pezzi dimenticabilissimi che non citerò per evitare spoiler.
E’ rischioso infilarsi nel terreno della sociologia spicciola, ed è doppiamente rischioso farlo quando si parla di orientamenti sessuali, ma se questo film (com’è probabile) non raggiungerà il successo del precedente, sarà anche dovuto ad un fattore: per stile musicale aggressivo, aspetto fisico, presenza sul palco e assenza di coming out pubblici, Freddie Mercury rappresenta tuttora un’omosessualità che un pubblico maschile eterosessuale non vede come poco virile. Uno spettatore uomo del 2019 non ha quindi problemi ad identificarsi con un Freddie Mercury atletico, baffuto, eroico, di successo, circondato da tre amici-guerrieri e morto stoicamente senza invecchiare.
Nel caso di Elton John, invece, il successo di pubblico potrebbe rimanere meno esteso perché la storia raccontata nel film è molto sincera nel dipingere quello che egli è: un settantenne energico ma fragile, che scrive ballate delicate oppure spumeggianti pezzi camp, tendenzialmente vittima di chi gli sta intorno (vedi il suo manager), eccentrico all’inverosimile, maniaco dello shopping, apertamente gay, sposato con un uomo e con due figli a carico. Una manifestazione dell’omosessualità che sembra quindi aprirsi senza problemi a una simpatia e a un’accettazione da parte del pubblico maschile eterosessuale, ma probabilmente non a un’identificazione e una venerazione conseguente, elementi che sicuramente favoriscono il successo in sala.
Staremo a vedere.
In definitiva, a livello di originalità, di empatia, di coraggio nell’approccio e di spettacolarità registica, Rocketman è uno dei migliori film biografici musicali in circolazione, che supera di gran lunga Bohemian Rhapsody in questi aspetti, ma avrebbe avuto bisogno di uno slancio epico, eroico, nel finale, che gli sceneggiatori non hanno saputo imbastire, o che forse semplicemente mancava nella biografia del protagonista. Eppure, un Elton John sobrio, maturo e commosso che canta Candle in the Wind al funerale di Lady D era un finale che aspettava solo di essere ricreato.
Una cosa è certa: non si tratta di un film perfetto, ma la quantità di canzoni che ne compongono la colonna sonora sono la testimonianza del fatto che, quarant’anni fa, Elton John ha scritto con la massima facilità quelle che sono tra le più belle gemme pop di sempre. Purtroppo, però, gli eroi son tutti giovani e belli.
Approfondimento come sempre interessantissimo
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Grazie mille Alessio!
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