L’era di ZooTv: quando gli U2 erano l’avanguardia più grande del mondo

Ha ancora senso parlare degli U2 oggi? Triste a dirsi, ma Bono & co. si sono assestati ormai già da diversi anni nella categoria delle rockstar fuori tempo massimo: ancora capaci di riempire gli stadi grazie a un pubblico fedele e a un repertorio intoccabile, ma ormai artisticamente inconsistenti, e irrilevanti come opinion leader.

Più o meno dal 2004 la carriera della band irlandese che un tempo dominava il mondo e pranzava con presidenti e papi si è ripetuta stancamente con album che in quanto a bellezza, influenza e potenza sono stati inversamente proporzionali all’aumentare costante degli appelli di Bono alla pace nel mondo. Il punto più basso è stato toccato probabilmente nel 2014, quando la mossa promozionale di regalare il loro nuovo album Songs of Innocence a ogni utente di iTunes fu vista da molti possessori di iPhone più come un fastidio che come un privilegio.

Sembra quindi davvero strano a dirsi oggi, ma c’è stato un tempo, quando gli attuali dinosauri dominavano la Terra, in cui gli U2 non solo erano la band più popolare del pianeta, ma anche la più cool. Cool nel senso di non essere solo una band che scrive belle canzoni e vende milioni di dischi, ma cavalca l’onda della modernità, fa da faro per gli altri gruppi e vive in cima al mondo con l’ironia e il distacco che sono poi l’emblema del cool.

Non era sempre stato così: per tutti gli anni Ottanta, gli anni che li hanno visti emergere dalle strade periferiche di Dublino, stupire il mondo al Live Aid e infine essere acclamati come i salvatori del rock all’epoca della plastica musicale, gli U2 erano tutt’altro che cool. Semmai erano warm, caldi: ovvero appassionati, sinceri, epici, coinvolti, mai distanti dalla lotta, dall’impegno, dalla passione. Questi U2:

Gli U2 ritratti nel 1986 da ©Anton Corbijn

Basta d’altronde pensare ai loro successi di quegli anni: Sunday Bloody Sunday, il più noto inno contro la guerra civile irlandese tra cattolici e protestanti; Pride (In the Name of Love), una celebrazione di Martin Luther King; Gloria, una sorta di canto liturgico rock che esprimeva la loro fede cristiana; Mothers of the Disappeared, sui desaparecidos sudamericani; Silver and Gold, sull’apartheid sudafricano; Seconds, sul pericolo nucleare; Bullet the Blue Sky, sull’intervento militare degli USA in Nicaragua; Bad, sulla dipendenza da eroina; Red Hill Mining Town, sugli scioperi dei minatori inglesi anti-Tatcher. Di fatto, non c’è stata una causa civile di quegli anni sulla quale Bono non abbia scritto una canzone.

Perfino nei pezzi non esplicitamente politici, come With or Without You, I Still Haven’t Found What I’m Looking For o Where the Streets Have No Name, era sempre presente un alto tasso di credibilità, di serietà, di assenza di ammiccamenti e schermature a favore di un mostrarsi trasparenti e antitetici alla tipica frivolezza delle celebrità musicali.

Una serietà tale che a fine Ottanta soprattutto la critica, e parte del pubblico, cominciava ad averne abbastanza: il documentario Rattle & Hum (1988), con relativo doppio album, era stato giudicato un’autocelebrazione santificatoria, un concentrato eccessivo del loro prendersi sul serio, e lo stesso Bono a fine decennio aveva annunciato che il gruppo si sarebbe preso una pausa “per cominciare a sognare daccapo”.

Mai promessa fu più sincera: per cambiare aria, il gruppo si trasferì nella Berlino fresca di Muro caduto, nei mitici Hansa Studios che avevano visto la creazione della trilogia berlinese di David Bowie, e con Bowie come nume tutelare e Brian Eno ad aiutare nella produzione (lui che della suddetta trilogia era stato uno degli artefici principali), nel 1991 Achtung Baby arrivò nei negozi di dischi.

Il primo singolo, The Fly, e insieme il video che lo accompagnava, furono uno choc paragonabile solo a uno dei travestimenti di Bowie: Bono era vestito di pelle nera da capo a piedi, con “i pantaloni di Jim Morrison e il giubbino di Elvis”, aveva i capelli tinti di nero, un sigaro in mano e gli occhi coperti da un paio di enormi occhiali da sole rubati a Lou Reed. Testo e musica del pezzo non erano da meno: la chitarra di The Edge un rumore distorto uscito da qualche fabbrica berlinese e immerso in un wah-wah hendrixiano, il ritmo di Adam Clayton e Larry Mullen un ballabile metropolitano da club sadomaso, e sopra Bono a cantare versi come “Non è un segreto che una coscienza a volte possa essere una piaga/Non è un segreto che l’ambizione mangi le unghie al successo/Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro/Tutti uccidono la loro ispirazione e poi cantano del lutto”.

Il resto del disco era poi un perfetto gioco d’equilibrio tra il mantenimento di quell’intuito melodico che aveva fatto la loro fortuna (qui esplicitato nel pezzo più noto, One, ma anche in So Cruel o Who’s Gonna Ride Your Wild Horses?) e una spalmata pesante di avanguardia, distorsione, sesso e perdizione. I pezzi non erano ancora totalmente privi di anima, ma avevano acquistato una luce sinistra, moderna e sensuale che trovava il suo apice in pezzi come Ultraviolet (Light My Way) e Love Is Blindness.

Una scommessa decisamente azzardata, ma che diede i suoi frutti: nonostante il disorientamento iniziale, i fan sembrarono seguire la band in quest’evoluzione inaspettata, l’album fu un successo e per almeno due anni Bono si calò completamente nella parte di The Fly: una rockstar decadente, ironica e distaccata – esattamente il contrario di quello che era stato fino ad allora.

A detta di Bono, “Sam Shepard ha affermato: ‘E’ al centro della contraddizione il posto in cui stare’. E il rock ‘n roll ha più contraddizioni di qualsiasi altra forma d’arte. Gli U2 hanno trascorso gli anni Ottanta nel tentativo di risolverne alcune. Ora abbiamo iniziato gli anni Novanta celebrandole”.

Ciò che però portò il tutto a un livello ancora superiore fu il tour che seguì all’album, e che prese il via a febbraio 1992: si sarebbe chiamato ZooTv Tour, e sarebbe stato qualcosa di mai visto prima. Certo, gruppi come Pink Floyd e Rolling Stones avevano già fatto vedere al mondo il grado di gigantismo (a volte pacchiano) che poteva raggiungere un concerto rock, ma in questo caso la spettacolarità sarebbe stata accompagnata da una fortissima dose di innovazione, una vera installazione artistica dedicata alla assordante cacofonia mediatica della modernità.

Il palco dello ZooTv ©Stufish

Il “Tv” del titolo spiegava già molto, mentre “Zoo” era sicuramente un riferimento alla fermata della metro berlinese del giardino zoologico, ma anche alla cosiddetta zoo radio, un formato di programmi radiofonici aggressivi, caotici, sprizzanti realtà (un corrispettivo italiano odierno potrebbe essere La Zanzara di Radio 24).

Il palco – largo 75 metri – vedeva un dispiegamento incredibile di schermi, 36 piccoli e 4 enormi, intervallati da quelle che sembravano torri di trasmissione, e a completare il tutto, 11 automobili variopinte – le Trabant diffusissime nell’ex Germania Est – che penzolavano sulla testa dei musicisti.

Quello che si sarebbe ripetuto per decine di date fino a fine 1993 non era un semplice spettacolo musicale, ma un frullato schizofrenico di musica, arte visiva, radio, televisione, scherzi telefonici e chi più ne ha più ne metta. Già dai primi pezzi Bono ammiccava al pubblico brandendo un enorme telecomando e facendo zapping in diretta sugli schermi del palco, chiedendo agli astanti: “Non sarete mica venuti fino a qui per guardare la tv, vero?”.

Ma “guardare la tv” era invece sicuramente parte di ciò che la serata offriva: innanzitutto nelle immagini proiettate sugli schermi era centrale l’intera estetica di MTV, che aveva aveva cambiato il linguaggio televisivo e dominato l’immaginario giovanile del decennio precedente attraverso videoclip, spot, montaggi frenetici e il coinvolgimento di maestri degli effetti speciali e videoartisti. Nel corso del concerto poteva poi capitare di vedere sullo schermo scritte bianche, a volte lunghe quanto un flash subliminale, con frasi come “Guarda più tv”, “Tutto quello che sai è sbagliato”, “Il futuro è una fantasia”, “Il gusto è nemico dell’arte”: un riferimento a Jenny Holzer, un’artista contemporanea che da anni era solita appendere scritte al neon di questo genere all’interno dei musei o perfino su un grattacielo di Times Square.

Jenny Holzer: Messages to the Public, Times Square, 1982

Il ricorso ad altre forme d’arte o ad altri artisti era una costante di quegli U2: a un certo punto, durante una cover di Satellite of Love di Lou Reed, lo stesso Reed appariva d’incanto sullo schermo in un duetto virtuale pre-registrato con Bono. Una canzone di Achtung Baby, Until the End of the World, era parte della colonna sonora dell’omonimo film di Wim Wenders, così come nel 1993 Stay (Faraway, So Close!) lo era del successivo film di Wenders Così lontano, così vicino (un pessimo seguito de Il cielo sopra Berlino).

Durante le ore di attesa prima del concerto, una troupe allestiva interviste con il pubblico e perfino un “confessionale” pre-Grande Fratello, le cui immagini venivano trasmesse a un certo punto dello show. Nel pieno di Tryin’ To Throw Your Arms Around the World, Bono faceva salire sul palco una ragazza e con una piccola videocamera collegata in diretta agli schermi del palco le faceva riprendere il loro ballo improvvisato: un video-selfie con artista vent’anni prima delle stories di Instagram.

Come apertura dei concerti c’era poi un “blob” di spezzoni televisivi e musicali in stile MTV che spesso includeva anche elementi di satira politica: tra questi, il video di George Bush padre che “canta” We Will Rock You dei Queen, realizzato dagli Emergency Broadcast Network e diventato virale via videocassetta molto prima che su YouTube George Bush Jr. “cantasse” (ironia della sorte) Sunday Bloody Sunday. Durante la tappa berlinese del tour la band arrivò addirittura a proiettare sugli schermi le immagini de Il trionfo della volontà (1935) di Leni Riefenstahl, braccio cinematografico di Hitler, col pubblico di giovani che inizialmente applaudiva per poi rendersi conto che quello che vedeva era la testimonianza di un raduno nazista.

Non male come information overflow.

Nel mezzo di 157 date in palazzetti e stadi di tutto il mondo per oltre 5 milioni di spettatori, il gruppo si sentì abbastanza galvanizzato da organizzare viaggi notturni in jet privato dopo diverse serate al fine di registrare un nuovo album frutto di quell’atmosfera, che uscì il 5 luglio 1993 col titolo di Zooropa.

Zooropa come lo ZooTv, certo, ma anche come l’Europa che mai come in quell’inizio di anni Novanta stava radicalmente cambiando: nel 1989 la caduta del Muro e la riunificazione delle Germanie; nel 1991 la dissoluzione dell’Unione Sovietica; nel 1992 la firma del Trattato di Maastricht che gettava le basi per l’Euro; negli stessi anni gli accordi di Schengen per l’abolizione delle frontiere tra stati; ma anche l’inizio del conflitto che avrebbe dilaniato l’ex Jugoslavia.

Questo magma di caos e speranza positivista per un futuro radioso era un brodo in cui Bono e soci sguazzavano felici, ma senza dimenticare di proseguire e ampliare il discorso sulla dipendenza dai media che in quegli anni di moltiplicazione dei canali televisivi e di guerra del Golfo in diretta era più sentito che mai. E non era ancora arrivata Internet.

Da questo punto di vista, l’affascinante title track, e traccia d’apertura dell’album, è l’esempio perfetto di un album multimediale, postmoderno, futuristico: la prima strofa appare come un invito all’ottimismo, che però a una seconda lettura altro non è che un pout-pourri di slogan pubblicitari dell’epoca:

Zooropa… Vorsprung durch Technik (Audi)

Zooropa… Sii tutto quello che puoi essere (Esercito statunitense)

Sii un vincente (Lotteria inglese), mangia per dimagrire (Slimfast)

Zooropa… una sfumatura di bianco più blu (detersivo Persil)

Zooropa… potrebbe essere tua stanotte

Siamo verdi e delicati, e perfettamente puliti (lavapiatti Mild Green Fairy)

Zooropa… migliori per definizione (Toshiba)

Zooropa… vola nei cieli amichevoli (United Airlines)

Attraverso l’applicazione della scienza (elettrodomestici Zanussi)

Abbiamo il cerchio dell’autostima (dentifricio Colgate)

Se Achtung Baby era un album oggettivamente bello, degno contraltare del capolavoro della “prima era” The Joshua Tree, Zooropa era oggettivamente confusionario, frastagliato, discontinuo: un’insalata di ingredienti diversissimi tenuta insieme da un’atmosfera genericamente tecnologica, computerizzata, sintetica, venuta dal futuro. Questo non vuol dire però che, a un ascolto meno distratto, non possa riservare delle vette di estremo coraggio per una band che poteva benissimo, se avesse voluto, evitare di rischiare e andare sul sicuro.

C’è Numb, un pezzo cantato non da Bono ma da The Edge, in cui il chitarrista più che cantare parla, elencando con voce monotona e intorpidita (“numb”, appunto) una serie di comandi: “Non muoverti, non parlare fuori tempo, non pensare, non preoccuparti”; c’è The Wanderer, epica ballata da western distopico che gli U2, con vero fiuto da apripista, fanno cantare alla leggenda del country Johnny Cash, in un periodo in cui il suo rilancio era ancora di là da venire e nell’ambiente musicale era considerato una reliquia; c’è la marcia industrial-sovietica di Daddy’s Gonna Pay For Your Crashed Car, fianco a fianco alla delicatissima The First Time; c’è Lemon, probabilmente il vertice del disco, sette minuti di falsetto elegantissimo su un ritmo ipnotico e ballabile tra Prince e i Talking Heads, e un video che cita gli esperimenti pre-cinematografici di un pioniere dell’immagine in movimento come Eadweard Muybridge.

Come commentò il giornalista Bill Flanagan, autore di un libro-reportage sulla tournée, “Achtung Baby parlava dell’essere tentati a lasciare gli impegni convenzionali dalla frenesia della Città della Notte, ma il personaggio di Achtung Baby sapeva sempre dov’era casa sua: stava solo testando quanto si sarebbe potuto allontanare per poi tornare indietro. Il personaggio in queste nuove canzoni ha perso la sua mappa. Si ricorda a malapena cosa pensava o chi era”.

Questo appariva ancora più evidente dal comportamento di Bono sul palco e durante le interviste: sempre più ironico, sempre più sarcastico, sempre più “autorizzato ad essere un egomaniaco”, sempre più propenso a far parlare delle maschere al suo posto. C’era The Fly, il rocker decadente; c’era Mirror Ball Man, un predicatore evangelico votato al Dio denaro; e soprattutto Mr. MacPhisto, un misto tra Mefistofele (con tanto di corna e trucco da Joker) e un vecchio intrattenitore di Las Vegas caduto in rovina.

Uno dei compiti principali di MacPhisto era quello della telefonata in diretta durante il concerto: un momento dello show in cui Bono, adottando quella personalità grottesca, chiamava praticamente chiunque, spesso senza avere risposta: Pavarotti per cantargli I Just Called To Say I Love You; Speedy Pizza per ordinare 10.000 pizze da portare al concerto (arrivarono davvero, ma solo un centinaio); la compagnia aerea KLM per comprare un biglietto per Singapore; il cancelliere tedesco Helmut Kohl; Madonna; Lady Diana; il Papa (per dirgli che Giulio Andreotti avrebbe voluto confessarsi con lui e aveva molto da dire); Jean-Marie Le Pen; Bettino Craxi (per dirgli che Di Pietro lo stava cercando); Alessandra Mussolini (per dirle che stava facendo un ottimo lavoro nel continuare il lavoro di suo nonno); e più di tutti, nella tranche 1992 del tour, il presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush, che non rispose mai.

Il suo commento fu: “Non ho niente contro gli U2. Hanno cercato di parlarmi tutte le sere durante i loro concerti, ma la prossima volta che affronteremo una crisi di politica estera, lavorerò con John Mayor e Boris Eltsin, mentre Bill Clinton può consultare Boy George”.

Ironia della sorte: proprio l’atteggiamento più giovanilista e “rock” di Clinton lo portò a rubargli la presidenza alla fine di quell’anno. Per spiegare la differenza: durante un’intervista radiofonica degli U2 l’allora candidato Clinton chiamò in diretta, e il conviviale scambio di battute tra lui e Bono fu: “Come vuole che la chiami? Governatore o Bill?”, “No, chiamami Bill”, “Ok, e tu puoi chiamarmi Betty”.

bono-macphisto4.jpg

Si trattò solo di uno tra i tanti incroci d’alto profilo che popolarono la vita del gruppo in quel biennio: furono raggiunti sul palco dallo scrittore Salman Rushdie; dimostrarono in mare con Greenpeace contro una centrale nucleare; duettarono con Axl Rose; con gli ABBA; con Frank Sinatra (nell’ottima I’ve Got You Under My Skin); si fecero aprire i concerti da gruppi come i Pearl Jam; improvvisarono collegamenti satellitari con la gente di Sarajevo.

Proprio in casi come quest’ultimo per il gruppo fu difficile mantenere quella facciata d’ironia che aveva ammantato tutto il tour: come dice un personaggio di Giovani, carini e disoccupati, l’ironia è “quando il vero significato è il contrario di quello letterale”, e Bono non aveva fatto altro per mesi, facendosi beffe dell’idea di celebrità nel rock ‘n roll.

Come raccontò The Edge, “Uno dei vertici fu quando Bono chiamò il Ministro della Pesca norvegese per congratularsi con lui sulla caccia alle balene, proibita dall’Unione Europea ma legale in Norvegia. Il Ministro rispose e invitò pure Bono a farsi una bistecca di balena con lui!”.

“È plastica, nel senso migliore della parola” – diceva lo stesso Bono del suo nuovo look – “Quando indosso quegli occhiali, tutto è concesso. Sono gli accessori della tipica rockstar. Ho dovuto smettere di ‘non bere’, ho dovuto fumare incessantemente, ho imparato a essere insincero, ho imparato a mentire. Non mi sono mai sentito meglio!”. E qual è il tratto comune delle band contemporanee più alternative, più indie, più cool, se non un’ironia gli faccia prendere poco sul serio il rock e anche loro stessi?

Come ogni gioco, però, anche quello di ZooTv e degli U2 come paladini della decadenza durò poco: già al tempo dell’album successivo, Pop, del 1997, il pubblico era stanco di un gruppo così assorbito in masturbazioni metatestuali, ironie e mascherate, e solo quando i quattro tornarono a giocare a volto scoperto, con All That You Can’t Leave Behind del 2001, ormai quarantenni senza trucco, i fan tornarono in massa.

Ci sarebbero stati altri dischi e altri tour, tutti ben accolti da un pubblico ormai affezionato più alla band che al suo percorso, ma gli U2, un po’ per colpa di un Bono sempre più messia e un po’ per un’ispirazione artistica calante, non sarebbero più stati allo stesso tempo così popolari e così alternativi come ai tempi dello ZooTv Tour.

Quando ai Grammy 1994 i quattro vinsero proprio il premio per il Best Alternative Album con Zooropa, Bono col suo fare ormai ben rodato da rockstar spavalda disse in diretta televisiva: “Vorrei inviare un messaggio ai giovani d’America: continueremo ad abusare della nostra posizione e a mandare a puttane il mainstream”.

Avevano compiuto il giro completo: da giovani emergenti a re del rock, e poi, quando non c’era più altro da conquistare, di nuovo alternativi. Come canta Johnny Cash con la sua voce da profeta biblico in The Wanderer, “Andai là fuori in cerca di esperienze/Per assaggiare e toccare/E provare ogni sensazione che un uomo può provare/Prima di pentirsene”.

Non è durato molto, ma per un po’ l’hanno fatto davvero.

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