Mi consigli un film? – Vol. 26

Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.

Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se per caso sia disponibile su Netflix, Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).

Di seguito le recensioni di: Nymphomaniac; Il diavolo; La vita è meravigliosa; La talpa (1979)/La talpa (2011); Nightmare 3 – I guerrieri del sogno.

Via al volume 26! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)


Nymphomaniac

Lars von Trier, 2013

© Concorde Film

Su Lars von Trier i giudizi medi tendono a essere rari: o lo si venera come un visionario autorizzato a dire e fare qualsiasi cosa, o lo si considera un miracolato del cinema la cui unica vera abilità è l’autopromozione attraverso lo choc e lo scandalo.

Personalmente mi rifaccio più al secondo punto di vista, e mi sono quindi ritrovato a guardare il secondo capitolo di questo film (che uscì in due parti a poche settimane di distanze l’una dall’altra) a ben sei anni di distanza dal primo, a dimostrazione di un’urgenza non propriamente bruciante di sapere come sarebbe andato a finire.

La storia è quella della campionessa di scandalo (d’altronde buon sangue non mente) Charlotte Gainsbourg, che qui interpreta Joe, una donna che per buona parte della sua vita ha dovuto fare i conti con la propria ninfomania, che l’ha spinta ad inseguire il sesso in forme sempre più estreme e degradanti, e fondamentalmente senza mai trarne una vera felicità.

Narrando la sua storia in flashback a un anziano intellettuale che l’ha trovata ferita (Stellan Skarsgård), Joe divide la sua esistenza in otto capitoli, ognuno segnato da un approccio nuovo al sesso, dal sadomasochismo all’amore coniugale, e di quando in quando l’anziano signore, apparentemente asessuale, commenta con nozioni di storia, matematica, musica e affini.

Difficile non vedere nell’intera operazione un continuo stuzzicare gli istinti più bassi dello spettatore, che più che dare dignità ai sentimenti dei personaggi finisce per chiedersi quale trovata scandalosa, quale nudo integrale, quale scena di sesso non simulato, quale provocazione di apparente realismo farà la sua comparsa sullo schermo nel capitolo successivo. La stessa trama, con i suoi innesti di humor nero, o il contrasto con l’insensibile anziano ascoltatore sempre intento a intellettualizzare anche gli istinti più biechi, sembra fatta per essere vista per quello che è: un riempitivo a cui nemmeno il regista crede davvero.

Un po’ come Tarantino con Kill Bill, ci si può godere il tutto come il fantasioso delirio di onnipotenza di un regista astutissimo, oppure chiedersi se dietro tanto spettacolo ci sia anche qualche emozione reale. Applausi in ogni caso per aver convinto un cast del genere e per la capacità di catturare la curiosità con la promessa dello scandalo, ma se questo è il suo più grande merito, qual è la differenza con Cinquanta sfumature di grigio?

Il diavolo

Gian Luigi Polidoro, 1963

Nel 1963 il cinema italiano aveva raggiunto un tale prestigio e una tale popolarità mondiale che una commedia con Alberto Sordi come questa, quasi completamente dimenticata e pressoché invisibile in tv, fu lodata dal New York Times, vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino e fece guadagnare ad Albertone un Golden Globe come miglior attore (battendo gente come Cary Grant e Frank Sinatra!).

La trama è quella, sempreverde, dell’italiano all’estero, e in questo caso vede protagonista Amedeo Ferretti, commerciante di pellami di mezz’età, che lascia a casa la moglie per qualche giorno e sale su un treno diretto a Stoccolma, dove dovrà partecipare a un’asta per lavoro.

Non è però l’unica ragione che lo porta in Svezia: la mitologia dell’epoca lo ha convinto che le donne svedesi, di cui legge voracemente sulla sua guida turistica, siano delle creature ormai liberate e moderne che non vedano l’ora di gettarsi su un tipo mediterraneo senza poi pretendere alcun vincolo sentimentale.

Se però per buona parte del film Sordi manterrà la speranza di abbordare, o più che altro di farsi abbordare, dalla ragazza giusta, i suoi incontri saranno la conferma che il carattere italiano, contemporaneamente così intriso di morale cattolica e facile alla tentazione sessuale, sia incompatibile con l’atteggiamento disincantato degli scandinavi.

Ci sarà posto, nell’ordine, per una stangona di un metro e ottanta che si rivelerà essere una tredicenne, rapidamente abbandonata per paura di conseguenze legali; poi per una sedicenne con cui finirà in camera d’albergo senza combinare niente, perché lei, donna libera, se ne andrà dopo una conversazione di imbarazzo cringey; una festa in casa di una donna il cui marito approva l’adulterio, che però non si consuma; una sauna collettiva con successiva corsa nella neve.

Come se l’aria nordica rendesse perfino Sordi più bergmaniano, il film è più controllato che in altre sue prove, sottotono, una satira comprensibilmente apprezzata all’estero per come deride certi nostri approcci, ma che tiene troppo a freno il suo protagonista agli occhi di chi lo ha visto in tanti altri film.

Ancora attuale però il discorso di fondo secondo cui “non saranno mai tue, perché loro sono angeli, e tu il diavolo”, ovvero la frustrazione verosimile di un uomo concreto guidato dal desiderio alle prese con una tipologia di donna che sembra vivere nell’iperuranio, guardando al sesso come a un interesse di seconda categoria. Come ha detto lo sceneggiatore Rodolfo Sonego nel bel libro di Tatti Sanguineti Il cervello di Alberto Sordi, “Quello che mi affascinava e sgomentava della Svezia era la tangibile presenza di un futuro che sarebbe toccato a tutti. Non lo spavento delle guerre atomiche diffuso in quegli anni, ma un destino di solitudine e di indipendenza nell’uomo, nella donna, nella coppia”.

La vita è meravigliosa (It’s a Wonderful Life)

Frank Capra, 1946

Mettiamo in chiaro una cosa: se la vista di Jimmy Stewart con i suoi bambini in braccio che cantano “Auld Lang Syne” vicino all’albero di Natale non vi fa commuovere, c’è una buona probabilità che non siate umani ma replicanti. Questo film è la definizione stessa di “edificante”, e contende probabilmente solo al Canto di Natale di Dickens la palma di opera d’arte in grado di infondere nei cuori la voglia di trattare gli altri con maggiore buon cuore ed apprezzare la propria vita più del solito.

Il protagonista assoluto è James Stewart, nel ruolo che, tra i tanti che ha interpretato (da La donna che visse due volte a L’uomo che uccise Liberty Valance), è rimasto come il più iconico: George Bailey da Bedford Falls, USA. Bailey è un quarantenne di provincia che gestisce una società di costruzioni e prestiti, e per tutta la vita non ha fatto che rinunciare al proprio interesse per aiutare il prossimo, una sorta di “re dei buoni” la cui vita è stata un susseguirsi di sacrifici e rinunce alle proprie ambizioni personali.

Per quanto lodevole, questo fa sì che la sera della vigilia di Natale si ritrovi indebitato e infelice, tanto da pensare di farla finita. È qui che entra in gioco Clarence, angelo “di seconda classe” che proprio come un Fantasma del Natale futuro dickensiano si incaricherà di farlo rendere conto di quanto la sua vita sia stata fondamentale per il benessere dei suoi concittadini, e di come sarebbe sciocco porle fine.

Il film in realtà non fu da subito un classico, e anche la sua attuale notorietà sembra un piccolo miracolo natalizio: se infatti all’uscita non riscosse un’accoglienza strepitosa, negli anni Settanta molti canali televisivi statunitensi approfittarono del fatto che il suo copyright non era stato rinnovato per trasmetterlo ogni anno sotto Natale, visto che non gli costava nulla. Da allora, il film è stato trasmesso ogni anno e per ogni cittadino statunitense è sinonimo di Natale e americanità, citato e parodiato all’infinito (basti pensare a Ritorno al futuro – Parte II, in cui il distopico futuro alternativo è ripreso pari pari da qui).

In realtà il film non è solo un concentrato di innocui buoni sentimenti, ma anche un potente apologo semi-socialista, in cui il capitalismo spietato dell’affarista Potter è condannato a favore dello spirito comunitario, inclusivo e disinteressato dell’idealista Bailey. Anche cinematograficamente è più anomalo di quanto si possa pensare: la “visione” di Bedford Falls occupa soltanto l’atto finale, e il resto è un lunghissimo antefatto che si prende fin troppo tempo per descriverci chi sia l’aspirante suicida, dall’infanzia al presente. Se non fosse lesa maestà si potrebbe dire che una mezz’ora in meno sulle due ore e dieci complessive non avrebbe guastato, ma ogni difetto vale poco rispetto a quella massima finale: “Caro George, ricorda che nessun uomo è un fallito se ha degli amici”.

La talpa/La talpa (Tinker Tailor Soldier Spy/Tinker Tailor Soldier Spy)

John Irvin, 1979/Tomas Alfredson, 2011

Sapevate che fino agli anni ’70 la parola “talpa” per indicare una spia infiltrata tra i nemici non esisteva né in inglese né in italiano? E da dove è nato questo termine? Esatto: da La talpa, il romanzo spionistico del 1974 a firma John le Carré, scrittore britannico recentemente deceduto e unanimemente considerato il principe del genere.

Gli agenti segreti di le Carré sono sempre stati considerati gli anti-Bond: pensosi, anzianotti, sovrappeso, miopi, taciturni, sciatti, più a proprio agio tra le scartoffie di un ufficio che in un cocktail bar di qualche paese esotico con una bionda sottobraccio.

George Smiley, il protagonista de La talpa, è esattamente tutto questo, ma nondimeno è riuscito a conquistare un ampio pubblico in tre forme diverse: nei diversi romanzi in cui compare; in un adattamento televisivo di cinque ore per la BBC nel 1979, con Alec “Obi-Wan” Guinness ad interpretarlo; e infine come film uscito nel 2011 con Gary Oldman dietro gli occhiali a fondo di bottiglia.

La miniserie andò in onda anche in Italia nel novembre 1980, ma non ha lasciato particolari tracce qui, mentre in Inghilterra è considerata patrimonio nazionale, perché “pervaso da quella che Paul Gilroy ha chiamato ‘malinconia postcoloniale’”, come ha scritto Mark Fisher in un (altezzoso) saggio.

Difficile sintetizzarne la trama perché, come in un noir anni ’40, bisognerebbe avere continuamente uno specchietto dei personaggi sottomano per capirci qualcosa, ma il succo è che c’è un infiltrato ai vertici dell’MI6 (i servizi segreti britannici), e per stanarlo viene richiamato in servizio il vecchio ma esperto Smiley, che si troverà ad indagare in segreto sui suoi colleghi.

Difficile non apprezzare il talento nel totale controllo delle emozioni di Guinness, “capace di evocare una vita di rimpianti con la minima smorfia”, ma il racconto è talmente privo d’azione e fitto di dialoghi tra freddi burocrati che è difficile non avere nostalgia di qualche acrobazia in deltaplano del buon 007.

Il discorso non cambia particolarmente per il film di Tomas Alfredson del 2011: cast eccezionale col meglio del cinema british, un Oldman sibillino, stile alle stelle, ma stessa incomprensibilità, accentuata dal fatto che nessuno faccia il minimo sforzo per spiegare allo spettatore gli antefatti delle vicende. Dopo una sfilza di nomi in codice come “Strega”, “Karla”, “Gerald”, “calderaio”, “sarto” e simili, ci si può giusto limitare ad apprezzare l’estetica del tutto, e godersi un montaggio finale scandito dalle note di La mer che rivaleggia con pochi altri nel cinema recente, e sarà piaciuto a Francis Ford Coppola.

Nightmare 3 – I guerrieri del sogno (A Nightmare on Elm Street 3: Dream Warriors)

Chuck Russell, 1987

Qualche tempo fa avevamo recensito il secondo capitolo della saga ideata da Wes Craven con protagonista il diabolico Freddy Krueger, e il giudizio non era stato dei migliori.

Deve averlo pensato lo stesso Craven (regista del primo episodio), che per salvare la baracca è tornato in veste di co-sceneggiatore e ha portato con sé Heather Langenkamp, che nel primo film era l’adolescente tormentata dall’uomo con la mano armata di lame.

Questa volta il cast è corale, una sorta di Breakfast Club in salsa horror, e vede protagonisti un gruppo di ragazzi rinchiusi in una struttura psichiatrica, tutti dopo aver avuto sogni molto realistici in cui compariva Krueger. Seguiti dalla Langenkamp di cui sopra, che ora è diventata psicologa, e da un suo collega, gli adolescenti cercano come possono di unire le forze per evitare gli assalti del nemico, ma nondimeno muoiono come mosche prima di riuscire a combatterlo.

Come ogni sequel che si rispetti, questo terzo capitolo è l’occasione per dare al pubblico una origin story, un antefatto che racconti la nascita del personaggio Krueger, in questo caso anche piuttosto cruda. Il resto è una buona sequenza di omicidi fantasiosi realizzati con grande maestria tecnica, e il lato comico di Freddy si fa apprezzare in scene di humor nerissimo come quando decapita la madre di una ragazza e la testa della signora prosegue imperterrita con i rimproveri.

Nel cast una Patrica Arquette ragazzina, un Lawrence Fishburne infermiere e Angelo Badalamenti alle musiche. Finale deludente che non dà soddisfazione allo spettatore e nemmeno gli garantisce un brivido all’ultimo minuto, ma d’altronde il film non è niente più che una buona serie B.

Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.

Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)

3 risposte a "Mi consigli un film? – Vol. 26"

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