Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.
Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se per caso sia disponibile su Netflix, Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).
Di seguito le recensioni di: La mia notte con Maud; Il decalogo, 3; Trappola di cristallo; Smoke; Fanny e Alexander.
Via al volume 25: Speciale Natale
🎅! (qui l’archivio con tutte le altre puntate)
La mia notte con Maud (Ma nuit chez Maud)
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Éric Rohmer, 1969

Se si dovesse spiegare a qualcuno lo stile di Éric Rohmer, probabilmente lo si potrebbe descrivere per contrasto: prendendo un film come John Wick, per dire, con protagonisti taciturni impegnati in azioni spettacolari e inverosimili, il cinema del regista francese sarebbe l’esatto contrario.
Questo non per sminuire i film d’azione, ma perché è incontestabile che pressoché tutta la (lunga) filmografia di Rohmer sia basata su storie molto ordinarie, prive di eventi, con ambientazioni borghesi e protagonisti intellettuali a cui però piace parlare all’infinito, e spesso di cose interessanti.
Questo fa sì che il film qui recensito (probabilmente il più grande successo dell’autore) sia stato memorabilmente citato in Bersaglio di notte (1975) con un mitico Gene Hackman che, alla proposta della moglie di andare a vederlo, risponde: “Una volta ho visto un film di Rohmer. È stato come sedersi a guardare una mano di pittura che si asciuga”.
Non fatevi però traviare dal buon Hackman: ne La mia notte con Maud succede davvero poco, è vero, ma la sua arte sta proprio nel tenerci comunque incollati allo schermo. La trama vede un retto ingegnere trentaquattrenne (Jean-Louis Trintignant, eternamente in parte come serioso timidone) che nella cittadina di Clermont-Ferrand partecipa alla messa di Natale e, intravvedendo una giovane bionda tra le navate, decide seduta stante che quella diventerà sua moglie. Il problema è che, proprio la notte di Natale, viene invitato da un amico a bere qualcosa a casa della Maud del titolo, una pediatra recentemente divorziata.
I tre conversano a non finire di tutto e senza inibizioni, dal cattolicesimo (praticato dall’ingegnere) alle teorie di Pascal, dalla fedeltà in amore (praticata dall’ingegnere) alla fortuna, con arguzia e atteggiamento bohémien, e a un certo punto della nottata natalizia, mentre la neve scende, l’amico se ne andrà lasciando i due soli.
Il resto è da vedere, ma basti dire che gli ambienti sono pochissimi, quasi fosse un adattamento da una pièce teatrale, e il vero piacere sta nel vedere per una volta sullo schermo qualcosa che assomiglia incredibilmente alla vita reale, con il gioco della seduzione mai rappresentato così fedelmente al cinema, quasi che non si tratti di un film ma di una voyeuristica candid camera.
Il protagonista diviso tra una donna mora più matura e una bionda più giovane anticipa il Woody Allen di Manhattan, le stimolanti conversazioni su argomenti totalmente anti-cinematografici sono quelle che si sentiranno anche ne La mia cena con André (che lo cita sin dal titolo), mentre il bianco e nero austero e gli ambienti invernali fanno pensare al grande nordico Bergman.
In più, però, c’è un mistero quasi mistico, un gioco del destino, un discorso sulla scelta, un’incomprensibilità stuzzicante che è poi ciò che rende speciale qualcosa in fondo di totalmente ordinario e privo di eventi, forse perché a differenza del cinema anche la vita spesso lascia senza spiegazioni. Françoise Fabian nel ruolo della libera e matura Maud è uno dei personaggi più seducenti di sempre.
Il decalogo, 3 (Dekalog, trzy)
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Krzysztof Kieślowski, 1990

La fama del regista polacco Krzysztof Kieślowski è basata quasi essenzialmente su due sole opere, Il decalogo (1989-90) e i Tre colori (1993-94, che avevamo approfondito qui), ma chiunque abbia la curiosità di immergersi nel loro mondo si renderà conto di quanto in alto lo pongano nel pantheon della storia del cinema.
Il Decalogo in realtà non è nemmeno cinema, visto che si tratta di dieci episodi da un’ora circa realizzati per la televisione polacca, ma lo stile e i temi sono tutt’altro che “televisivi”, e in un’epoca in cui le serie tv non erano ancora così degnamente considerate, questa tv d’autore rese Kieślowski internazionalmente noto e mostrò al mondo quanta forza ci potesse essere in una storia di un’ora.
Visto che, come da titolo, l’opera è ispirata ai Dieci comandamenti di ebrei e cristiani, il terzo episodio dovrebbe corrispondere a “Ricordati di santificare le feste”, e i conti sembrano tornare, ma va anche detto che Kieślowski non volle mai affibbiare nettamente un comandamento a ogni episodio.
La storia è quella di Janusz, un tassista e padre di famiglia di Varsavia che la sera di Natale va a messa con moglie e figli e in chiesa coglie la presenza di Ewa, che tre anni prima aveva avuto una relazione extraconiugale con lui. La donna però si presenta da lui nella notte, e all’insaputa della moglie di lui gli chiede di aiutarla a cercare il marito, uscito di casa per una commissione e al momento irrintracciabile.
Janusz vorrebbe evitare, visto che la loro storia è finita da tempo ed è la notte di Natale, ma si impietosisce e con una scusa accompagna la donna per tutta la notte in taxi per una città fredda e innevata, tra centrali della polizia, ubriachi e stazioni ferroviarie. Il peregrinare dei due, con lei ancora amichevole e lui attento a mantenere il suo distacco di ex, finirà al mattino con una rivelazione commovente che sembra uscita dalla penna di Tom Waits. Anche per noi spettatori sarà come aver partecipato al Natale più vero, quello dei più soli, dei più dimenticati, senza banchetti e feste nel freddo reale e metaforico di una grande città.
Se vi piacerà, saprete che nove altri episodi uno più emozionante dell’altro vi aspettano.
Trappola di cristallo (Die Hard)
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John McTiernan, 1988

All’interno della popolazione dei più nullafacenti tra i nerd, il dibattito sull’eventualità in cui Trappola di cristallo possa considerarsi o meno un “film di Natale” è arrivato a tali livelli che il regista John McTiernan quest’anno ha fatto un’apposita intervista al riguardo, e anni fa la Fox ha diffuso scherzosamente un trailer che lo vendeva come una commediola per famiglie.
In realtà, che lo si consideri o meno un “film di Natale” per il fatto che è effettivamente ambientato sotto Natale, Die Hard è sicuramente uno dei massimi esempi di film d’azione degli anni Ottanta, e probabilmente se la gioca solo con Arma letale (1987) per la palma del migliore.
Se però nel film di Richard Donner il bello nasceva dal contrasto da buddy movie tra il pacato e “umano” Danny Glover col fuoriclasse e fuori di testa Mel Gibson, qui il mix tra ottimo tiratore e maritino preoccupato è riunito nella stessa persona, e che persona.
John McClane (un nome ormai iconico) è un poliziotto che per Natale si sta godendo la festa aziendale della moglie in un grattacielo di Los Angeles, quando all’improvviso un commando di terroristi tedeschi prende in ostaggio tutti i presenti eccetto lui, scampato per caso all’attacco. A questo punto, mentre i criminali trattano con la polizia capitanati da uno dei migliori cattivi di sempre, l’Hans Gruber di Alan Rickman (poi Severus Piton), lui da solo si incaricherà di mettere fuori gioco la gang, attraverso azioni di guerriglia tra gli uffici deserti.
In un’epoca in cui nei ruoli da protagonisti del genere imperversavano superuomini infrangibili alle pallottole come Stallone e Schwarzenegger, Bruce Willis diventò una star grazie a una perfetta miscela di ironia, vulnerabilità e, sì, anche una giusta dose di muscoli, mitragliate e canottiere sporche. Il suo McClane sarebbe tornato in una serie di sequel ormai innumerevoli (il migliore, che non sfigura nemmeno a confronto dell’originale, è il terzo, Die Hard – Duri a morire, 1995), e la sua carriera sarebbe stata improntata a ricreare personaggi che sapessero dare cazzotti tanto bene quanto uscirsene con battute immortali come “Yippee ya-yeh, pezzo di merda”.
Smoke
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Wayne Wang, 1995

C’è stato un momento negli anni Novanta in cui il cinema indipendente, quello fatto di piccole storie e grandi idee, vedeva una fioritura rara, e a guardare bene, da qualche parte c’era sempre di mezzo quel grande attore che è Harvey Keitel.
Nel giro di pochi anni a partire dal 1991, Keitel compare in robetta come Thelma & Louise di Ridley Scott (1991), Le iene (1992) e Pulp Fiction (1994) di Tarantino, Il cattivo tenente (1992) di Abel Ferrara, Lezioni di piano di Jane Campion (1993), Clockers di Spike Lee (1995), nonché in questo piccolissimo ma grande film.
Il regista Wayne Wang non si farà particolarmente notare nel corso degli anni, ma lo sceneggiatore è il grande romanziere Paul Auster (Trilogia di New York), che ebbe l’idea di raccontare le vite di un piccolo gruppo di frequentatori di una tabaccheria di Brooklyn gestita da Auggie Wren, il Keitel di cui sopra.
Tra gli avventori che passano ad acquistare il loro tabacco preferito c’è lo scrittore Paul Benjamin (William Hurt), ancora traumatizzato dalla morte della moglie in un incidente, e che ritroverà un senso alla vita accogliendo a casa sua Thomas, un giovane in conflitto col padre (Forest Whitaker).
Le storie si intrecciano con lentezza e senza grandi eventi, in una poesia della vita quotidiana che ha il suo vertice indimenticabile nel finale, una sorta di film a sé stante basato sul vero racconto di Auster Il racconto di Natale di Auggie Wren, pubblicato sul New York Times nel 1990. Lo scrittore Paul, di fatto interpretando Auster, confida infatti al tabaccaio Auggie di aver ricevuto l’incarico di scrivere un racconto per il prestigioso quotidiano, e l’amico per dargli uno spunto gli racconta, in un lungo piano sequenza fisso su un magnifico Keitel, una storia almeno apparentemente autobiografica di macchine fotografiche rubate e nonne cieche.
Quando il racconto finisce, ne vediamo la rappresentazione per immagini con il sottofondo cullante di Innocent When You Dream di Tom Waits, e il tutto è quanto di meno tradizionale ma di più profondamente natalizio che si possa immaginare (lo trovate qui).
Per chi apprezzerà: sempre nel ’95 è uscito una sorta di film-gemello con gli stessi personaggi, Blue in the Face, dai toni più leggerini ma comunque piacevoli.
Fanny e Alexander (Fanny och Alexander)
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Ingmar Bergman, 1982

Solitamente, le famiglie di Ingmar Bergman non sono esattamente quelle con cui uno vorrebbe passare le feste: ne L’ora del lupo (1968, già recensito qui) una coppia in attesa di un bambino cadeva vittima di terribili incubi; nel Silenzio (1963) due sorelle manifestano la loro incomunicabilità; in Scene da un matrimonio (1973) una coppia cade lentamente a pezzi tra noia e infedeltà; in Sussurri e grida (1972) due donne si ritrovano in una casa per accudire la sorella morente.
Per il suo ultimo film (poi avrebbe realizzato solo opere per la televisione), però, il maestro svedese decise che era tempo di rifarsi, e realizzò una storia autobiografica che, per quanto intrisa di dolore e contrasti famigliari, è anche una delle più belle rappresentazioni del calore della famiglia, dei suoi riti e in particolare di quella festa così nordica e insieme calorosa che è il Natale.
La storia parte nel 1907 in Svezia e segue le vicende della nobile famiglia Ekdahl, che vediamo impegnata in un memorabile pranzo di Natale in grado di farci contemporaneamente apprezzare le leccornie in tavola, gli abiti sgargianti e tutte le tipiche interazioni sociali che porta con sé una riunione famigliare.
I più piccoli alla tavola sono i due bambini del titolo, fratello e sorella, circondati da zii, nonni e dall’affetto del padre Oscar. Se fosse durato non sarebbe stato un film di Bergman, ed ecco quindi che Oscar muore e la madre decide di risposarsi con un sadico, bigotto e odiosissimo pastore protestante.
I due bambini sono i primi a risentirne, e le vicende che seguiranno mostreranno come possano avvicendarsi le fortune di una famiglia, e come il calore natalizio possa mutare rapidamente quando mancano gli affetti. Ma non tutto è perduto.
Scenografia, costumi e fotografia sono impareggiabili (e infatti vinsero l’Oscar), e per quanto Bergman si sforzi di infondere tragedia al tutto, il film (che esiste anche in versione miniserie da 312 minuti) sa offrire una delle migliori rappresentazioni delle vicende di una famiglia nel corso del tempo.
Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.
Alla prossima puntata! (qui l’archivio)
Ciò che ho visto è esattamente come lo ricordavo, ciò che non ho visto è esattamente ciò che vorrei vedere (e infatti recupererò qualcosa dopo averne letto da te, come al solito)
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Grande, mi fa sempre piacerissimo se una recensione mette voglia di vedere un film che mi è piaciuto. Il miracolo di Natale prosegue! 😄
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Eheh per ora il miglior consiglio è stato Il Mistero della Ragazza Scomparsa! Che filmone
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