Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.
Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se per caso sia disponibile su Netflix, Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).
Di seguito le recensioni di: Incontri ravvicinati del terzo tipo; Collateral; Puerto Escondido; Un lupo mannaro americano a Londra; I guerrieri della notte.
Via al volume 29! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind)
Steven Spielberg, 1977

C’è uno Spielberg che tutti – o almeno tutti quelli di una certa età – conoscono come se facesse parte dei programmi scolastici: E.T., Jurassic Park, Indiana Jones, Hook, Lo squalo… C’è poi un altro Spielberg che, un po’ per effettive mancanze, e un po’ per scelta dei programmatori televisivi, non è entrato nell’inconscio collettivo (quantomeno italico) anche quando lo avrebbe meritato.
Incontri ravvicinati… è un caso emblematico: quando uscì bissò il successo de Lo squalo, fu definito dallo scrittore Ray Bradbury (Fahrenheit 451, Cronache marziane) il più bel film di fantascienza di sempre, ha una colonna sonora straordinaria ed ha alcuni tra i momenti più emozionanti del cinema spielberghiano, ma nonostante questo oggi molti si limitano a conoscerne il parodiatissimo titolo.
La storia fu scritta da Spielberg stesso (caso raro), e lascia trasparire l’animo di un vero seguace delle teorie sugli UFO: il protagonista è un tranquillo elettricista dell’Indiana (Richard Dreyfuss), sposato con figli, che un giorno vede con i suoi occhi delle inconfondibili navicelle spaziali nel cielo notturno, e da allora non riesce a pensare ad altro.
La stessa cosa succede a diverse altre persone vicine e lontane, e lo porterà in contatto con una donna a cui è stato rapito il figlioletto e con uno scienziato francese che studia un modo per comunicare con il cielo (un memorabile François Truffaut, nell’unico ruolo da attore in un film che non fosse suo).
Il film ha il difetto di perdersi nella parte centrale, passando da un inizio intrigante a un finale spettacolare e memorabile senza veramente farci empatizzare col protagonista o creare occasioni per tenere alto il ritmo, il che è anomalo per un mago degli equilibri come Spielberg. Forse però il fatto di essere meno oliato di altri suoi film, meno perfetto, lo rende ancora più curioso come ibrido tra l’imperfetta New Hollywood e i blockbuster seguenti. Insomma, un film dedicato all’infantilismo senza essere infantile, ammiratore di Disney (le citazioni da Pinocchio) senza essere troppo disneyano, un’ode al rimanere sognatori e ingenui (anche rinunciando ai doveri dell’età adulta e della famiglia), ma senza scadere nel bambinesco come in futuro capiterà al regista.
Meglio lasciarlo dire al vecchio decano dei registi francesi Jean Renoir, che a Truffaut scrisse così: “L’autore è un poeta. Nel sud della Francia si direbbe che è un po’ fada [svitato]. Fa pensare al significato esatto di questa parola in Provenza: il fada del villaggio è colui che è posseduto dalle fate”.
Collateral
Michael Mann, 2004

Los Angeles, esterno notte: un taxi fa salire a bordo un distinto signore ben vestito con la faccia brizzolata ad arte di Tom Cruise. Alla guida c’è Jamie Foxx, a cui viene offerta una bella sommetta per scarrozzare l’uomo d’affari per tutta la notte, visto che deve portare a termine un lavoro in diverse tappe.
Il problema è che il distinto signore altri non è che un killer professionista, e il povero tassista si troverà costretto sotto minaccia di morte ad accompagnarlo in una sequela di missioni sempre più pericolose, nelle quali si troverà progressivamente sempre più coinvolto.
Alla regia c’è Michael Mann, creatore di Miami Vice (nonché di Heat – La sfida, per rimanere sui thriller metropolitani), e la città notturna che viene mostrata, tra palme, narcotrafficanti, musica latina e una generale estetica cafona sembra proprio Florida più che Los Angeles.
Gli scambi di battute tra i due attori sono probabilmente la cosa migliore del film: Tom Cruise, chissà perché, è sempre in parte nei ruoli da psicopatico senza sentimenti, e anche Foxx se la cava bene facendo la parte dell’uomo della strada tirato in mezzo ai guai, di fatto riprendendo un po’ il ruolo che era stato di Samuel L. Jackson in Die Hard – Duri a morire (1995).
Il tutto dopo un inizio più che promettente vira troppo sull’action pacchiano e inverosimile, con Cruise libero di fare carneficine in discoteca senza che nessuno muova un dito, ma il finale si riscatta con un bel gioco del gatto col topo a metà tra Il braccio violento della legge (la metro) e Il silenzio degli innocenti (l’ufficio).
Puerto Escondido
Gabriele Salvatores, 1992

Da figlio degli anni Ottanta, nella mia vita di cinefilo ho sempre avuto una certa curiosità “sociologica” per i film italiani degli anni Novanta che non ho vissuto in prima persona, quelli dei registi arrivati dopo la fine dei Grandi Vecchi, che si sono ritrovati a rappresentare il loro Paese e la loro generazione non sempre riuscendo allo stesso tempo a fare grande cinema.
Salvatores è sicuramente un buon esempio: il suo Marrakech Express (1989) per molti connazionali dell’epoca è un perfetto film generazionale, sorta di Fandango all’italiana, e negli anni successivi il suo cinema fu essenzialmente una riproposizione degli stessi temi di fuga e cameratismo maschile con lo stesso manipolo di attori (Abatantuono, Bisio, Bigagli, Bentivoglio…), arrivando addirittura ad un (esagerato) Oscar per Mediterraneo (1991).
Puerto Escondido è la sua prima prova dopo il successo internazionale, e lo vede riunito con i soliti compari nell’adattamento di un romanzo di fuga di Pino Cacucci.
Abatantuono è un banchiere yuppie milanese che, a causa di una vicenda da thriller decisamente troppo fantasiosa, è costretto a fuggire nella località del titolo, in Messico, e lì conoscerà una coppia di italiani (Claudio Bisio e Valeria Golino), che tra povertà, libertà e droghe, hanno una concezione della vita decisamente meno consumista della sua.
L’inizio sembra quasi Jungle Fever di Spike Lee, con una Milano che pare New York e la macchina da presa che si mette in mostra, mentre nella parte messicana la storia diventa un misto tra Zabriskie Point di Antonioni, con il peyote nel deserto, e un road movie sgangherato che anticipa Aldo Giovanni e Giacomo.
I protagonisti sono anche simpatici, ma il messaggio di fondo mutuato da Guantanamera (“con i poveri della terra voglio dividere la mia sorte”) è decisamente semplicistico, e tra rapine, carceri e ospedali, lo yuppie pentito alla fine della storia non avrà poi grandi vantaggi dalla sua conversione all’avventura.
Un lupo mannaro americano a Londra (An American Werewolf in London)
John Landis, 1981

Due giovani americani stanno girando l’Europa con lo zaino in spalla, e fanno tappa tra le nebbiose brughiere dello Yorkshire, dove si rifocillano al pub dal nome poco rassicurante de “L’agnello macellato”, che ha avventori ancora meno rassicuranti.
Il problema è che si tratta di una notte di luna piena, e quando i due riprendono il cammino nella notte vengono attaccati da un’orribile creatura che, secondo uno dei più classici motivi dell’horror, si rivela un lupo mannaro. Da quel momento per uno dei due il proseguimento della vacanza inglese si farà complicato, visto che a quanto pare la licantropia è contagiosa, e se si è stati morsi si finisce per mordere.
Un film veramente strano, c’è poco da dire, soprattutto per il fatto che nasce dalla penna di John Landis, i cui due film precedenti erano stati Animal House e The Blues Brothers, classici della commedia demenziale che dimostravano una perfetta padronanza della materia cinematografica. Qui invece la commistione tra commedia e horror, con un continuo andirivieni tra battutine da liceali e arti mozzati, gag banalotte e scene cariche di tensione che non sfigurerebbero in un film di Dario Argento (la sequenza in metropolitana in primis), è davvero disorientante.
Il trucco firmato da Rick Baker, maestro in grado qui di mostrare la trasformazione in lupo senza alcun effetto computerizzato, è straordinario, ma risulta sprecato in un mix che sembra prendere in giro lo spettatore passando come niente fosse da una morte drammatica a un’allegra versione rockabilly di Blue Moon.
I guerrieri della notte (The Warriors)
Walter Hill, 1979

Se per film di culto intendiamo qualcosa che all’epoca dell’uscita non fu accompagnato da troppe fanfare, costruendosi nel tempo una fama underground che ha lasciato traccia soprattutto come iconografia nella cultura pop, I guerrieri della notte è indubbiamente un cult movie.
Tutto nel film dà l’idea di un prodotto fatto con poco, destinato a un pubblico principalmente di maschi adolescenti, che però grazie all’immaginario che disegna, al ritmo incalzante e all’uso degli spazi urbani si rivela un ottimo intrattenimento dall’anima punk.
La storia è addirittura ispirata all’Anabasi di Senofonte (IV secolo a.C.!), dove al posto dei mercenari greci di Ciro il grande, costretti a ritirarsi dal territorio nemico attraverso mille insidie militari, c’è una gang metropolitana, quella dei Guerrieri di Coney Island, che dopo essere stata ingiustamente accusata di aver ucciso il leader di tutte le gang di New York, deve riuscire ad attraversare la città in una notte e fare ritorno al proprio “territorio” evitando la furia delle bande nemiche.
L’unità di tempo e la breve durata fanno sì che lo spettatore segua con apprensione le vicende dei Guerrieri, giovani coriacei dai toni duri che si riempiono la bocca di insulti oggi decisamente censurabili e non disdegnano la violenza sessuale, ma per i quali è difficile non fare il tifo alla fine (seppur con qualche riserva morale).
Il resto è stile e scene che restano: le battaglie a colpi di coltello nei bagni della metropolitana, la colonna sonora a base di sintetizzatori che anticipa Fuga da New York (anche quello un grande b-movie), la deejay di cui si vedono solo le labbra, l’odioso nemico che provoca i Guerrieri invitandoli a “giocare a fare la guerra”.
Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.
Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Ahah allora è vero che ci vuole una vita in metro per Coney Island! Sul tutti capolavori temo di non potermi dire d’accordo: Collateral mi è piaciuto ma mi aspettavo qualcosina di più, Un lupo mannaro l’ho rivisto dopo tanti anni e ora come allora mi ha molto spiazzato il suo mix di generi, avrei preferito una direzione precisa sull’horror o sulla commedia. Comunque in generale, avendo rivisto diversi film di recente, mi sto rendendo conto di quanto per me sia poco utile riguardare film che ho amato, perché alla seconda visione, ricordando anche poco la trama, tendo sempre a svalutarli un po’ 😀
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“Puerto Escondido” a parte, che è carino ma sta prendendo polvere nella cantina dei miei ricordi, gli altri sono tutti, a mio parere, capolavori. La lavorazione di “The Warriors” è particolarmente interessante e la mitologia che ha generato il film di Hill è quasi unica. Una volta mi sono imbarcato in un viaggio di oltre un’ora in metropolitana pur di raggiungere Coney Island e visitare il territorio dei Guerrieri. Tra l’altro, al mio arrivo a NY, avevo appuntamento con l’amico che mi avrebbe ospitato fuori dalla metro di Union Square e ti lascio immaginare il mio fomento 😀
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