Mi consigli un film? – Vol. 40

Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.

Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se sia disponibile su Netflix, Amazon Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).

E ricordate: Quentin Tarantino non ha mai visto Eyes Wide Shut, dunque nella vita siete ancora in tempo per tutto.

Di seguito le recensioni di: Donne amazzoni sulla luna; Che ho fatto io per meritare questo?; Cobra verde; La bocca del lupo; Fino alla fine del mondo (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico). Via al volume 40!


Donne amazzoni sulla luna (Amazon Women on the Moon)

Joe Dante, Carl Gottlieb, Peter Horton, John Landis, Robert K. Weiss

Film collettivo con almeno due nomi di garanzia tra i registi (Landis e Dante), Donne amazzoni sulla luna non ha (quasi) niente da invidiare a classici del cinema demenziale come L’aereo più pazzo del mondo, o alla comicità surreale dei Monty Python, ma purtroppo non ha avuto in sorte lo stesso successo.

L’impianto sembra ripreso da un altro film di Landis del ’77, Ridere per ridere, che montava insieme sketch di ogni tipo con l’unico filo rosso dell’umorismo. Anche questa volta le scenette si susseguono apparentemente senza senso, se non per l’esile pretesto di uno zapping televisivo tra un canale che sta mandando in onda il film di fantascienza del titolo e una decina di altri programmi fittizi.

A sorpresa, in situazioni sempre più demenziali, compaiono grandi star dell’epoca, da Michelle Pfeiffer a Carrie “Principessa Leila” Fisher, oppure lo Steve Guttenberg di Scuola di polizia o il grande bluesman B.B. King. Difficile e piuttosto inutile sintetizzare i temi degli sketch: dal funerale in cui il morto viene deriso al chirurgo che vuole convincere i neo-genitori di aver messo al mondo Mr. Potato, vanno via talmente rapidamente che ne rimangono principalmente le risate.

Atmosfera di libertà totale che ricorda i classici sopracitati e anche quelle commedie all’italiana ricche di inventiva come Signore e signori, buonanotte (1976), che partiva proprio dalla stessa idea del palinsesto televisivo e che forse dei cinefili come questi registi avranno intercettato.

Che ho fatto io per meritare questo? (¿Qué he hecho yo para merecer esto?)

Pedro Almodóvar, 1984

Il cinema di Pedro Almodóvar, un po’ come quello di Fellini, Buñuel o Lynch, è talmente personale e riconoscibile che riassumerne le caratteristiche a chi non lo conosca risulta difficile, e inutile a chi lo conosca, visto che dopo poche inquadrature sarà chiara la firma dell’autore.

Qui siamo ai primissimi anni di carriera del massimo esponente della cinematografia iberica, ma gli eccessi, la surrealtà, i colori accesi, il gusto della trasgressione e un incredibile humor nero ci sono già tutti, e prima che diventino un successo di massa pochi anni dopo con Donne sull’orlo di una crisi di nervi.

La protagonista, qui come in quel film, è Carmen Maura, che interpreta Gloria, una donna delle pulizie quarantenne che vive in un grigissimo palazzone di Madrid e ha una famiglia che definire disfunzionale sarebbe un enorme eufemismo. Suo marito è appassionato di firme false ed è ancora innamorato di una sua ex fiamma tedesca; il figlio quattordicenne spaccia eroina; l’altro figlio più piccolo va a letto col padre di un compagno di scuola (e la madre approva); la suocera offre da bere ai nipoti e porta ramarri in casa; la vicina di casa è una prostituta che a volte invita Gloria a fare da spettatrice, e la stessa Gloria sniffa colla e si abbandona ad amplessi adulteri nelle docce della palestra per cui fa le pulizie. Insomma, un quadretto che al confronto la finta sitcom di squallore famigliare di Assassini nati è una parodia innocua.

Sembra che Almodóvar (che compare come cantante/torero in tv) abbia dichiarato di aver voluto omaggiare il neorealismo italiano, e in effetti quell’elemento di degrado e tinelli tristi c’è, ma il suo tocco sta proprio nel contrasto tra le case popolari con la carta da parati orrenda e il colorato e oltraggioso mondo parallelo che le abita.

Incredibilmente cattivo nella sua comicità, senza pudore nel tirare in mezzo i bambini e ricco di inventiva, anche se tante risate e stupori alla fine ci si chiede se da qualche parte ci sia anche un po’ di sincerità.

Cobra verde

Werner Herzog, 1987

Un uomo invasato e ossessivo con la faccia spiritata e terrorizzante di Klaus Kinski; la regia del ragazzo selvaggio del cinema tedesco Werner Herzog; un’impresa folle da portare a termine in un posto sperduto del mondo meno civilizzato. Vi suona? Be’, non è un caso, visto che si potrebbero sintetizzare così anche gli ingredienti di Aguirre, furore di Dio (1972) e Fitzcarraldo (1982), e che Cobra verde si inserisce perfettamente nella stessa linea.

Stavolta, però, il congegno herzoghiano sembra arrugginito, se non proprio rotto, e la storia del feroce bandito brasiliano Cobra verde, spedito in Africa per organizzare un enorme commercio di schiavi da inviare oltreoceano, risulta non solo poco appassionante, ma anche fastidiosa a livello ideologico.

Kinski è più imperscrutabile del solito (non fa un sorriso a pagarlo), e Herzog sembra crogiolarsi nelle grandi scene un po’ inutili di suprematismo bianco, con le comparse africane impegnate a frotte in azioni visivamente spettacolari o rappresentate nella loro distanza dai nostri costumi, come in alcune scene di danze tribali con ragazzine nude che sconfinano nella pedopornografia.

Di quando in quando, poi, appare una “scena alla Herzog” di furia prometeica uomo vs. natura, come Kinski che cerca di trascinare una barca in mare, oppure il re africano con una distesa di teschi nella sala del trono, o Cobra che guida la carica degli schiavi.

Stile da western coloniale vecchio stampo, noia che a volte anticipa l’altrettanto noioso Silence di Scorsese nelle lunghissime scene di prigionia presso popoli diversi, e piuttosto fasulle le frasi di pentimento nel finale sulla schiavitù che è un crimine… Nelle due ore precedenti non gli era venuto in mente?

La bocca del lupo

Pietro Marcello, 2009

Se c’è un film che più di qualunque altro è riuscito a incapsulare nella sua atmosfera le poesie urbane di Fabrizio De André, quelle dedicate alla Genova dei vicoli, delle prostitute e dei ladri, questo è La bocca del lupo.

Esordio nel lungometraggio di Pietro Marcello, che nel 2019 avrebbe sfondato anche all’estero con Martin Eden, si tratta di un documentario che racconta la storia di due incredibili abitanti del capoluogo ligure, Enzo e Mary, e insieme a loro ritrae quei “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”.

Enzo è un siciliano dai baffi folti che ha passato pressoché una vita intera in carcere, estroverso e scherzoso ma anche rude e guardingo; Mary è la sua compagna amatissima, anche lei già detenuta ed ex tossicodipendente, e non si può omettere il fatto che sia una transessuale.

I due, superati i cinquant’anni, si riabbracciano dopo che per dieci anni Mary ha aspettato la fine della pena di Enzo, e raccontano alla macchina da presa di Marcello la nascita e l’evoluzione del loro amore così imprevedibile.

Il sottobosco che incrocia le loro vite, ripreso senza abbellimenti, è a metà tra squallore e tenerezza, e lascia quasi un senso di voyeurismo, lasciando trasparire sì la surrealtà di quel mondo ma anche tutto il trasporto e la fedeltà di cui sono capaci i protagonisti.

Purtroppo, come per Martin Eden dieci anni dopo, il film è intervallato da immagini d’epoca e scene di vita cittadina che sembrano girate con Windows Media Player, tra virati in rosso e fotogrammi sgranati che lasciano un senso di finta poesia decisamente superflua.

Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt)

Wim Wenders, 1991

La discontinuità di Wim Wenders ha un che di irritante, perché quando vuole sa tirar fuori dei capolavori, e quando non vuole riesce con le stesse mani a produrre roba che meriterebbe il macero immediato: basti pensare a quell’orrore di Così lontano, così vicino (1993), che faceva da seguito a una vetta del cinema di poesia come Il cielo sopra Berlino (1986).

Qui purtroppo siamo dalle parti del macero, in un film da pieno delirio di onnipotenza, lungo quattro ore e mezza (nella sua versione approvata dal regista), ricco di star, ricco di canzoni firmate, ricchissimo di location, ma poverissimo di stile e trama.

Siamo in un futuro verosimile, senza auto volanti o simili ma con i navigatori satellitari che parlano (come in effetti sarebbe successo negli anni seguenti), e la protagonista è Claire (la Solveig Dommartin acrobata del Cielo sopra Berlino), che attraverso una serie di peripezie avventurose si ritrova a viaggiare per l’intero globo terrestre, un po’ inseguita e un po’ all’inseguimento.

Intorno a lei, principalmente tre uomini: William Hurt, Sam Neill e Rüdiger Vogler, che lei ama ognuno a modo suo, e partecipazioni speciali di mostri sacri a caso tipo Max von Sydow e Jeanne Moreau, nel mezzo di una trama che ha a che fare con l’idea piuttosto poetica di registrare immagini del mondo per farle vedere a una donna cieca con un congegno avveniristico.

Purtroppo il fatto che gli attori siano di ogni nazionalità e parlino tutti inglese lo rende inutilmente ridicolo, e in generale recitato da cani un po’ da tutti, con situazioni veramente risibili e una storia che è un pretesto esilissimo per farsi un viaggio intorno al mondo e mostrare tecnologie avveniristiche ma nemmeno tanto (non è Terminator 2, né Atto di forza).

Il kolossal fantascientifico di marca europea mostra tutta la sua vacuità: meglio rimanere sulle cose che sappiamo fare, se questi devono essere i risultati.

Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.

Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)

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