Guida galattica al cinema di Wes Anderson

Imperdibili

I Tenenbaum (The Royal Tenenbaums), 2001

Al terzo film, le prove generali sono finite, e tutto si compie, nel bene e nel male: già dai primi trenta secondi, con la voce di Alec Baldwin che ci illustra la storia della famiglia Tenenbaum sulle note di una versione orchestrale di Hey Jude, tutto è più colorato, più fiabesco, più twee, più letterario che in ogni altro film contemporaneo (con la sola eccezione del Fantastico mondo di Amélie, unico paragone possibile).

Anche il parco-attori è di prima qualità: ci sono le icone Gene Hackman e Anjelica Huston che a settant’anni azzeccano due tra i loro ruoli migliori di sempre, ci sono Ben Stiller, Owen e Luke Wilson, la già premio Oscar Gwyneth Paltrow, ancora una volta Bill Murray, Danny “Arma letale” Glover e tanti altri.

La storia è quella, molto romanzesca, di una famiglia newyorchese che definire disfunzionale è riduttivo: i tre figli sono stati tre bambini prodigio (rispettivamente nel tennis, nella drammaturgia e nella finanza), ma arrivati a trent’anni sono tutti in profonda crisi.

Il ritorno nelle loro vite del padre (Hackman), un pazzo senza scrupoli e da sempre una figura poco presente, farà da collante per tante guarigioni personali.

È un mondo intero che viene creato, e assomiglia a una soffitta vista con gli occhi di un bambino, piena di giocattoli, diari, vecchi oggetti, colori pastello, sigarette nascoste, rancori e musi lunghi. In sottofondo, poi, c’è un clima di lutto, sofferenza e depressione, che però ha l’effetto di amplificare il romanticismo cult di Margot che scende dal bus al ralenti e guarda Richie con These Days di Nico in sottofondo, o la gioia nel vedere Gene Hackman sfrecciare felice su un go-kart.


Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore (Moonrise Kingdom), 2012

Per quanto iconici e fonti di innumerevoli immagini di copertina su Facebook per le studentesse di cinema di tutto il mondo, i film di Anderson lungo il primo decennio dei Duemila dopo il grande successo de I Tenenbaum (2001) sono in fondo stati delle riproposizioni piuttosto appannate di uno stile già noto.

Le cose cambiano con Moonrise Kingdom, in cui il buon Wes spinge davvero al massimo la ricreazione di un’infanzia avventurosa, con due protagonisti dodicenni nel 1965, un’isola immaginaria, giovani esploratori, fughe in canoa e una scenografia talmente stilizzata che è un vero e proprio ibrido tra cartoon e film, tra vero e falso, cartapesta e realtà.

I novelli Romeo e Giulietta in fase prepuberale sono Suzy e Sam, lei ragazzina problematica e imbronciata, lui scout orfano e occhialuto, che dopo una fitta corrispondenza epistolare decidono di organizzare una fuga insieme per vivere nella natura come dei Thoreau contemporanei, o come la versione mini di Jean-Paul Belmondo e Anna Karina in Pierrot le fou di Godard (che era proprio del 1965).

La cosa ovviamente non va troppo giù né ai genitori di lei, né al corpo locale degli scout, né alle forze dell’ordine incaricate di ritrovarli, ma tra varie peripezie da manuale delle Giovani Marmotte, alla fine le cose troveranno una soluzione.

Geniale la presenza di Bruce Willis come triste e mansueto commissario di polizia con gli occhiali (chi non lo vorrebbe come padre adottivo?), e irresistibilmente tenera l’immersione nel mondo bambinesco (ma spruzzato da un accenno di sessualità) di questi due giovanissimi Tenenbaum che ballano vecchie hit francesi su una spiaggia deserta.


Grand Budapest Hotel (The Grand Budapest Hotel), 2014

Il più grande successo (finora) al botteghino di Wes Anderson, nonché fonte di numerose candidature agli Oscar e di un salto di notorietà che ha esteso il suo stile così inconfondibile ad un pubblico molto più ampio di quello dei bar di Brooklyn o del Pigneto.

Non stupisce, perché il “mondo di ieri” riportato in vita da Anderson, fatto di Alpi innevate, alberghi color rosa confetto, livree elegantissime, pasticcerie rinomate e inseguimenti in slittino, è davvero il materiale ideale per il suo gusto fatto di atmosfere letterarie, nostalgia ed eleganza demodé.

La storia è narrata attraverso vari salti temporali: c’è la ragazzina che porta un omaggio alla statua di un famoso scrittore, c’è il famoso scrittore che, anziano, rievoca un suo soggiorno presso l’hotel del titolo, c’è lo scrittore da giovane (interpretato da Jude Law) che soggiorna al Grand Budapest e ascolta il racconto dell’anziano proprietario, e c’è la storia vera e propria, quando il proprietario era un giovane garzoncello dell’albergo negli anni Trenta.

All’epoca il concierge dell’albergo era il dandy Monsieur Gustave, interpretato da un Ralph Fiennes in stato di grazia, e la morte di un’anziana signora sua amante innesca una serie di eventi legati a testamenti falsificati, furti di quadri e fughe da sicari così come da militari che ricordano da vicino le SS naziste.

Ancora una volta un’alleanza tra un ragazzo e un mentore eccentrico, ancora una volta toni pastello e fiabeschi (stavolta senza freni), ancora una volta momenti inattesi da sindrome di Tourette nel mezzo del quadretto disneyano, tra fellatio gerontofile, turpiloquio, scontri a fuoco e dipinti pornografici.

In più, c’è una trama che scorre molto più rapida e concatenata che in passato, la riscoperta dello scrittore austriaco Stefan Zweig (qui un articolo per approfondire la sua influenza), e per quanto il film sia come sempre povero di emozioni profonde, c’è molto più ritmo, senso e piacere per gli occhi che in altre occasioni.


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Quasi fondamentali

Rushmore, 1998

Se Un colpo da dilettanti (1996) offriva uno “stile Wes Anderson©” ancora acerbo, in questo secondo lungometraggio il regista texano affina la sua arte e offre una firma inconfondibile, tutta sua, sia a livello di immagini che di dialoghi e personaggi.

Rapidissimi stacchi di montaggio quasi subliminali, Bill Murray, la simmetria ossessiva delle inquadrature, personaggi da raccontino per ragazzi, musiche favolistiche al clavicembalo, scritte illustrative, un’alleanza/scontro tra un ragazzo e un’anomala figura paterna, alcuni inaspettati tocchi di volgarità o morbosità, scenografie e costumi che sprizzano vintage e rifiuto della modernità.

Max Fisher (un iconico Jason Schwartzmann) è un alunno quindicenne della prestigiosa scuola Rushmore, ed è uno dei peggiori studenti della scuola in quanto, come nerd assoluto, preferisce iscriversi a ogni tipo di club scolastico, dalla calligrafia ai dibattiti, dalla scherma al teatro, piuttosto che studiare.

Quando si innamora perdutamente di una giovane maestra (comunque molto più grande di lui), e fa amicizia con un Murray ricco benefattore della scuola, le cose si complicheranno nella sua vita, ma tra scaramucce da cartoon, dichiarazioni d’amore e malinconie adolescenziali, tutto si risolverà.

Un po’ come Juno qualche anno dopo, Max Fisher è uno di quei personaggi che ci sembra di conoscere da sempre, e per quanto non faccia molto per risultare simpatico, è difficile non parteggiare per lui quando rivendica “Io ho salvato il Latino!”, o idealizza inutilmente la donna che ama.

Così come in tante altre opere future, l’abbondanza di stile non sempre compensa la fragilità di una trama che dopo un po’ si sfilaccia, ma è indubbio che un autore che sappia farsi riconoscere in modo così netto sia qualcosa che al cinema capita di rado.


The French Dispatch, 2021

Leggi la recensione in anteprima di Coolturama a questo link.


Non per tutti i gusti

Fantastic Mr. Fox, 2009

Essendo Anderson uno dei pochi che dopo Tim Burton abbia raccolto il testimone di un cinema fantasioso, fiabesco e colorato, non stupisce che, dopo l’adattamento cinematografico de La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl da parte di Burton, sia arrivato anche da parte del regista texano un omaggio al grande scrittore statunitense di libri per ragazzi.

Rispetto a La fabbrica di cioccolato o Le streghe (anche quello adattato già due volte al cinema), però, Furbo, il signor volpe (1970) è una storia piuttosto classica e priva di traumi eccessivi, e Anderson sceglie di approfittarne per farne un cartone animato adatto (più o meno) a tutte le età.

Probabilmente i racconti per bambini ambientati nei boschi, tra volpi geniali, topi ghiotti di sidro, tassi riflessivi e case dentro gli alberi, sono proprio la realizzazione ideale del talento dell’autore, da sempre a suo agio in questi mondi da libro d’epoca, anche se perfino in quest’occasione sente il bisogno di infilarci un padre assente e un ragazzino geloso del cugino.

C’è poco da fare: è un film per bambini, carino quanto si vuole, stilizzato e lussuosissimo nel cast (da George Clooney a Meryl Streep), ma niente di più. Di certo però è la prima volta che in un cartone per bambini compaiono Street Fighting Man dei Rolling Stones e la musica di Georges Delerue per Effetto notte di Truffaut.

Prima collaborazione con Alexandre Desplat alle musiche (anche lui già con Burton, e futuro collaboratore fisso), e Noah Baumbach come co-sceneggiatore.


L’isola dei cani (Isle of Dogs), 2018

Quando tutti lo aspettavano al varco dopo il grande successo di Grand Budapest Hotel, Anderson spiazzò un po’ tutti tornando (nove anni dopo Fantastic Mr. Fox) all’animazione, in questo caso attingendo alla cultura di un Paese che di cartoni se ne intende: il Giappone.

L’omaggio di Anderson non è però tanto agli anime, di cui mancano i tratti più caratteristici: semmai il film sembra una classica storia di salvataggio alla Toy Story, o un classico film d’avventura stile Salvate il soldato Ryan o Il ponte sul fiume Kwai, ovviamente “deviato” dalle abituali manie del regista.

Lo scenario è quello di un Giappone più mitico (e a volte stereotipato) che reale, in cui un malvagio sindaco ha messo al bando l’intera razza canina su un’isola di spazzatura, dove molti cani muoiono a causa di una misteriosa epidemia e i pochi sopravvissuti vivono di stenti.

Il nipote dodicenne del tiranno, però, non accetta di perdere in questo modo il suo cane, e con un piccolo aeroplano atterra sull’isola, dove cercherà di recuperare l’animale grazie a una squadra di aiutanti canini.

Simpatica l’idea di far parlare i cani nella nostra lingua e di lasciare che gli umani parlino in giapponese, e simpatico il gruppo di cani protagonisti, che come al solito al reparto doppiaggio vedono alcune tra le più grandi star di Hollywood e non solo (perfino Yoko Ono fa una comparsata).

Per il linguaggio e i contenuti (si parla anche di suicidio), sicuramente non un film per bambini in senso stretto, quasi che il regista provi un gusto particolare, anche quando potrebbe fare concorrenza alla Pixar, a non esagerare col nazionalpopolare.

Per il resto, però, il film è un concentrato di buoni sentimenti, agnizioni e una struttura a “quadri di videogioco”, e se si parte con l’idea che il film sarà questo e non molto altro, offre un buon intrattenimento di stampo disneyano.


Per completisti

Le avventure acquatiche di Steve Zissou (The Life Aquatic with Steve Zissou), 2004

Durante l’immaginario festival cinematografico italiano di Loquasto, con il vero Antonio Monda (giornalista e direttore della Festa del cinema di Roma) a moderare gli incontri, l’oceanografo e documentarista Steve Zissou (Bill Murray, chi altri?) presenta il suo ultimo film.

L’accoglienza non è delle più calde, e lo stesso Steve non vive i suoi giorni migliori dopo la morte del suo socio ucciso da un famigerato squalo giaguaro, ma quando Owen Wilson gli si presenta e suggerisce che potrebbe essere suo figlio, Zissou gli offre di unirsi alla sua ciurma nella sua prossima avventura marina. Si tratterà di inseguire, come Achab con Moby Dick, lo squalo mangiauomini, accompagnato da una variegata fauna umana che include un minaccioso Willem Dafoe e un marinaio che interpreta canzoni di David Bowie in portoghese.

Ci sarà spazio per giornaliste incinte (Cate Blanchett), mogli scontrose (Anjelica Huston), altri oceanografi rivali (Jeff Goldblum), assalti di pirati filippini, incidenti tragici e viaggi in un sottomarino giallo molto beatlesiano, ma di infantile queste avventure hanno ben poco.

Nei panni di un alter ego di Jacques Cousteau, Murray è finalmente mattatore completo, e dopo Lost in Translation entra definitivamente nel suo “personaggio anni Duemila”, più uguale a se stesso che ai personaggi che interpreta.

Il film però va a casaccio, va male al botteghino e cominciano a sentirsi dei topoi ormai fin troppo ricorrenti: la donna misteriosa e affascinante, la rivalità tra due personaggi per lei; i ritrovamenti tra padri e figli; i lutti passati; volgarità piuttosto eccessive e gratuite; la comicità deadpan alla Buster Keaton, imperturbabile, come stile di vita.

Scritto con l’altro campione della commedia chic anni Duemila, Noah Baumbach.


Il treno per il Darjeeling (The Darjeeling Limited), 2007

Dopo il fiasco al botteghino de Le avventure acquatiche di Steve Zissou, che però aveva cementato la sua fama di artista fantasioso e riconoscibilissimo, sorta di Disney con un debole per i dettagli morbosi e le parolacce, Wes ci riprova trasferendo le tende addirittura in India.

È qui che, dopo una comparsata iniziale di Bill Murray, a bordo di un treno in stile Orient Express diretto verso l’Himalaya prende la scena il fenomenale trio dei “nasi importanti”, composto da Owen Wilson, Jason Schwartzmann e Adrien Brody (di cui ci si chiede come non abbia ancora interpretato un biopic su John Lennon).

Si tratta di tre fratelli, ancora una volta segnati dal recente lutto per la morte del padre, che cercano di ritrovare se stessi, il loro legame e non da ultimo la madre che si è fatta suora (un po’ in stile Narciso nero) attraversando l’India su rotaia.

Come terzetto di attori i protagonisti sono ottimi, ma li vedremmo decisamente meglio in una storia migliore, che per buona parte del film è fatta di dialoghi senza sorrisi e ripicche famigliari, e quando prova a toccare qualche emozione riesce a diventare incredibilmente di cattivo gusto, facendo estetica hipster di un evento drammatico.

Un’ode alle belle facce fotogeniche dei tre, solitamente serie e silenziose e perfette per Instagram, e niente di più.


Un colpo da dilettanti (Bottle Rocket), 1996

Volete provare l’ebbrezza di guardare un film di Wes Anderson che non sembri (del tutto) un film di Wes Anderson? Il suo esordio, risalente al lontano 1996, offre questa rara, anzi unica, opportunità.

Questo non significa che tanti ingredienti non siano già dall’inizio quelli di sempre: Owen Wilson (che allora era solo l’ex compagno di dormitorio universitario del regista, e non la star che è oggi) è già protagonista e co-sceneggiatore; a fargli compagnia c’è il futuro Tenenbaum Luke Wilson (suo fratello nella vita reale); c’è già l’attore indiano Kumar Pallana (il futuro Pagoda); ci sono le canzoni vintage poco note, e ci sono tutte quelle forme di estrema cortesia, strampalatezza e romanticismo sognante che si ritroveranno in seguito nei suoi film.

Mancano ancora però le scenografie artificiali, i colori accesi, i manierismi nelle panoramiche orizzontali, l’attenzione spasmodica alla simmetria: tutto sembra essere ancora a una fase embrionale, come se lo stile fosse ancora da trovare.

Per il resto, il film sembra avere un debito con Tarantino, che all’epoca andava per la maggiore (Owen osa addirittura un “Dillo di nuovo!” alla Samuel L. Jackson): i protagonisti sono una scalcagnatissima gang intenzionata a compiere una rapina, ma il leader è un imbranato, e il suo complice preferisce innamorarsi di una cameriera messicana invece di preparare il “colpo da dilettanti” del titolo.

Dinamiche alla Godard, con criminali da strapazzo un po’ filosofi e un po’ gentiluomini, ma se i protagonisti sono adorabili, di fatto il film si trascina senza che succeda quasi nulla.


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