Mi consigli un film? – Vol. 43

Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.

Se un film tra quelli recensiti vi incuriosisce, provate a dare un’occhiata all’app JustWatch per scoprire se sia disponibile su Netflix, Amazon Prime Video, RaiPlay, Infinity o altre piattaforme di streaming (non mi pagano per la pubblicità!).

E ricordate: Quentin Tarantino non ha mai visto Eyes Wide Shut, dunque nella vita siete ancora in tempo per tutto.

Di seguito le recensioni di: La classe operaia va in paradiso; Drugstore Cowboy; Cold War; L’uomo caffellatte; Killing Zoe (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico). Via al volume 43!


La classe operaia va in paradiso

Elio Petri, 1971

Se negli anni Sessanta-Settanta il cinema italiano voleva essere politico, state sicuri che lo sarebbe stato senza particolari fronzoli, sottigliezze o paure: da Il caso Mattei di Francesco Rosi (1972) a La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (1966), da Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo (1971) a Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio (1972), quella stagione ha insegnato molto a tutti gli Oliver Stone e Michael Moore successivi.

Su tutti, però, svettano due nomi, che in quanto a impegno politico, denuncia da sinistra e riconoscimenti internazionali non sono secondi a nessuno: Elio Petri come regista e Gian Maria Volonté come interprete, che in quegli anni infilano insieme una serie di film programmatici fin dai titoli: A ciascuno il suo (1967), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970, premio Oscar), La classe operaia va in paradiso (1971, miglior film a Cannes) e Todo modo (1976).

Volonté, trasformista in stile Actor’s Studio come pochi nel cinema nostrano, questa volta è un operaio lombardo chiamato Lulù Massa (capito il sottile riferimento, sì?), noto per avere una produttività altissima ed essere coccolato dai padroni e odiato dai colleghi, che si vedono obbligati a stare ai suoi ritmi.

Gli studenti marxisti all’ingresso della fabbrica vorrebbero convincerlo a rinunciare al cottimo (chi più lavora più guadagna), gli altri operai lo avvisano che finirà per morire in fabbrica, ma lui risponde con una parola: “Indifferente”. Intanto, però, con la sua donna (Mariangela Melato, grandissima) la libido è pari a zero, e un incidente sul lavoro gli farà riconsiderare molte cose rispetto al proprio ruolo di macchina umana.

Un film piuttosto isterico, fatto di strepiti, carrellate vertiginose e immagini apocalittiche, dalla voce gemente di Volonté che sembra Massimo Boldi alle musiche angoscianti di Morricone, dall’ingresso in fabbrica tra il bianco della neve ai movimenti ripetitivi degli operai, che ripropongono in versione drammatica i Tempi moderni di Chaplin.

Ce n’è per tutti: dagli universitari faciloni che pretendono di convertire gli operai alla Melato che rivendica di meritare la pelliccia di visone perché lavora da quando aveva 12 anni, dai sindacati ai padroni, e in mezzo un Volonté sudatissimo e perfetto col maglione, che di fatto in una chiave più seria anticipa di molto Fantozzi, con quell’ironia da poveraccio beffato dalla sorte. Come molti altri dell’epoca, un film buono più in teoria che in pratica, di riflessione più che di qualità, molto forte ma cinematograficamente irrisolto.

Drugstore Cowboy

Gus Van Sant, 1989

Come e prima di Carlito’s Way (1993), questo esordio di Gus Van Sant alla regia inizia con la voce narrante di un uomo trasportato in brutte condizioni su una barella, e in questo caso si tratta di quella faccia d’angelo di Matt Dillon, che per l’ora e mezza successiva ci offrirà una delle sue interpretazioni più memorabili.

Ambientato a Portland nel 1971, Drugstore Cowboy racconta il mondo e l’epoca che il fotografo Larry Clark aveva descritto col suo libro Tulsa nello stesso anno, ovvero le vite sballate, rapide ma non prive di fascino di un gruppetto di tossici che nella vita hanno come sostanziale unico scopo quello di trovare una prossima dose.

Nello specifico, Dillon è un esperto di rapine in farmacia, e si porta con sé come in una famiglia spietata la sua ragazza e un’altra coppia (tra cui una giovanissima Heather Graham), sempre sperando che un burbero ma in fondo umano commissario alla fine non lo becchi davvero, o che l’eroina o i barbiturici non sbrighino il lavoro al suo posto.

Con la sua trama sfilacciata, senza particolari eventi che portino avanti l’azione, Drugstore Cowboy sembra un film della New Hollywood anni Settanta chissà come trapiantato a fine anni Ottanta: dopo il Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede, 1969) e l’Urban Cowboy (1980), il cowboy delle farmacie prosegue nella scia di un cinema crudo e amorale, in cui gli eventi si limitano alla rappresentazione di vite emarginate.

Dillon, con quella faccia da James Dean e dopo il ruolo iconico di Rusty il selvaggio di Coppola nel 1983, poteva essere un altro Tom Cruise, ma si è meritato maggiore rispetto inseguendo i ruoli meno scontati, e qui è talmente carismatico come filosofo da bar con la fobia dei cappelli, che dispiace un po’ non vedergli cucita addosso una storia più elaborata.

Particina per William Borroughs, santo patrono degli artisti tossici.

Cold War

Paweł Pawlikowski, 2018

Nella Polonia di fine anni Quaranta, Wiktor è un maestro di musica in uno dei conservatori più prestigiosi del Paese, patrocinato dal governo sovietico e istituito con lo scopo di promuoverne la gloria, e suo compito è selezionare tra i tanti giovani che si presentano alle iscrizioni sperando così di sfuggire alla povertà.

Da subito si capisce che tra le aspiranti musiciste c’è una studentessa bionda di canto che gli interessa non solo per l’estensione vocale, e a breve i due instaurano una relazione clandestina nascosta alla compagna di lui così come all’istituzione musicale.

Zula, questo il suo nome, è stata in galera per aver accoltellato il padre violento, e in generale nonostante le trecce da ragazza alpina è un tipo piuttosto folle e impossibile da capire, con un fare che ricorda la Jeanne Moreau di Jules e Jim: irresistibile per chi masochisticamente la ama, ma di fatto una fonte inesauribile di sofferenze illogiche.

Il buon direttore d’orchestra, con un’aria un po’ troppo da hipster di Brooklyn per sembrare uscito dagli anni Cinquanta, ci casca con tutte le scarpe, e la loro storia è un’ossessione che si protrae per molti anni, con il sottofondo della Guerra fredda del titolo che farà la sua parte nell’impedire un amore più sereno.

Dopo innumerevoli precursori quali La La Land, New York, New York, Once o Tutti i santi giorni, Cold War è un’altra storia di artisti innamorati, in questo caso con un pedigree d’autore, una fotografia in bianco e nero stilosissima e una lunga serie di premi all’attivo, ma anche una delle storie in cui i protagonisti rimangono più inconoscibili e incomprensibili.

Il fatto è che dietro il bellissimo bianco e nero e i salti temporali non c’è la trascendenza mistica di un Bergman o di un Kieslowski, e nemmeno una narrazione più hollywoodiana, e per quanto una storia come questa nella vita reale sarebbe poetica, al cinema a volte serve di più, visto che a differenza che nella vita siamo più abituati alle storie eccezionali.

L’uomo caffellatte (Watermelon Man)

Melvin Van Peebles, 1970

Tipico esempio di film che 1) ci si chiede perché non fosse stato ancora girato prima del 1971, vista la geniale premessa iniziale, e 2) ci si chiede quale reazione susciterebbe oggi, in un mondo in cui quella premessa è una delle più scottanti del dibattito sociale.

L’idea in questione è piuttosto semplice: un uomo bianco sui quaranta, sposato e con due figli, tipico esponente della piccola borghesia statunitense con casetta, cortile e lavoro in ufficio, si sveglia una notte dal sonno, va in bagno e quando si guarda allo specchio… è diventato nero.

La cosa è ancora più scioccante perché il tizio in questione, nella sua “vita da bianco”, fa continue battutine razziste e si disinteressa delle rivolte razziali in tv, e a livello cinematografico è un grande trucco perché l’attore che lo interpreta è lo stesso, pesantemente “impallidito” col trucco durante i primi minuti del film.

Sin dall’inizio, dal montaggio frenetico alle musichette da vaudeville, si capisce che sarà una satira farsesca alla Jerry Lewis, e buona parte del film è dedicata a scenette grottesche come la moglie che vedendolo esclama “Perché non ho nascosto i soldi!”, o lavaggi con la candeggina, salvate dal fatto che il regista, Melvin van Peebles, fosse non solo nero, ma anche un intellettuale politicamente impegnato.

Dopo diverse lungaggini evitabili, però, del film emerge la carica di denuncia, che di fatto illustra ai non afroamericani tutte le variegate forme di razzismo, implicito ed esplicito, che si possono manifestare nella società statunitense, dai commessi nei negozi che mettono le mani in alto quando entra il protagonista, o un tassista che gli fa “Bel quartiere, ci fai il giardiniere?”.

L’attore è formidabile, con una faccia che avrebbe meritato altri ruoli comici, così come la moglie che finisce per ammettere “Sono ancora antirazzista, ma fino a un certo punto”, e se il film di per sé è piuttosto scadente e tirato per le lunghe, la sua forza satirica è spumeggiante e amara.

Killing Zoe

Roger Avary, 1994

Si sa che l’avvento di Quentin Tarantino sulla scena del cinema indipendente negli anni Novanta ha generato forse più danni che benefici a causa dei tanti imitatori con meno talento comparsi sulla scena, ma che dire quando uno di questi imitatori senza talento è il co-sceneggiatore di Pulp Fiction, e quando il suo filmaccio è prodotto proprio da Tarantino?

È la storia di Killing Zoe, con il quale Roger Avary esordisce, e che gli dà anche qualche notorietà sulla scia della Tarantinomania, nonostante non meriti più di un rapido sguardo utile a ricordarci la differenza tra Le iene e un qualsiasi film di rapine.

La rapina in questione qui è ambientata a Parigi, con un americano interpretato da Eric Stoltz che ritrova dei vecchi compari di crimine per svaligiare una banca in pieno giorno. Il problema è che il capo della banda è un tossico fuori di testa interpretato con grande carisma da Jean-Hugues Anglade (già protagonista di Betty Blue, 1986), e che nel giro di pochi minuti la banca diventerà un lago di sangue.

Per qualche ignoto motivo, e con un ruolo pressoché inutile se non per dare senso al titolo, c’è anche Julie Delpy, che nonostante qui si prostituisca e parli di prestazioni sessuali con pipì inclusa, non riesce a smettere di essere adorabile.

Stoltz ha la faccia di chi non ci sta capendo niente dall’inizio alla fine, Delpy si vede a malapena, quindi a reggere il film c’è solo Anglade, pericoloso e psicopatico il giusto, come il coevo Gary Oldman di Léon. Per il resto, di Tarantino ci sono il sangue a fiotti e le volgarità assortite, non certo la genialità dei dialoghi e della storia.

Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.

Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)

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