Mi consigli un film? – Vol. 11

Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.

Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.

Via al volume 11! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)


Mattatoio 5 (Slaughterhouse-Five)

George Roy Hill, 1972

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Ecco un film davanti al quale non ho problemi ad ammettere la mia totale incapacità di comprensione. Si tratta dell’adattamento del romanzo omonimo di Kurt Vonnegut Jr. del 1969, che all’epoca fu anche un notevole successo, e tuttora viene lodato come un grande esempio di letteratura sperimentale.

Di Vonnegut ho letto solo Quando siete felici, fateci caso (2013), ovvero l’idea editoriale piuttosto originale di collazionare alcuni discorsi tenuti dall’autore presso varie cerimonie di laurea tra il 1978 e il 2004. Di sicuro però da quei discorsi non potevo aspettarmi lo stile di questo film, la cui trama è riassumibile con estrema difficoltà, e potrebbe essere qualcosa del tipo: continui salti tra spazio e tempo di un tizio che vediamo prima come giovane soldato americano in Germania durante la seconda guerra mondiale, poi padre di famiglia in un ambiente borghese, e infine abitante di un appartamentino arredato su un pianeta immaginario chiamato Tralfamadore, dove convive con un’attrice di film erotici e parla con gli alieni. Chiaro, no?

Film di guerra antimilitarista, film di fantascienza, satira sulla famigliola americana: il mix di atmosfere è indubbiamente originale, ma la noia dovuta alla mancanza di coinvolgimento subentra molto presto.

Sicuramente è incredibile quanto fosse libero e moderno il cinema americano dei primi anni Settanta, che univa l’audacia sperimentale degli anni Sessanta europei alla grandeur e alla professionalità di Hollywood, però davvero non ci ho capito niente, e non è nemmeno uno di quei “non ci ho capito niente ma è stato bello comunque”. (La scena finale con i fuochi d’artificio nello spazio, però, è molto bella)

E la nave va

Federico Fellini, 1983

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Il periodo tra fine anni Settanta e inizio anni Ottanta fu un momento centrale per la storia del cinema italiano, perché nel giro di pochi anni tutti i massimi registi del passato passarono al grado di “venerati maestri” ormai fuori dai giochi. Alcuni perché defunti (De Sica, 1974; Pasolini, 1975; Visconti, 1976; Rossellini, 1977), altri perché anziani e ormai più abituati alle retrospettive celebrative che a sfornare film che intercettassero ancora il gusto del pubblico (Antonioni, Fellini).

E’ lo stesso periodo in cui lo studioso di cinema Paolo Bertetto pubblica un libro chiamato Il più brutto del mondo (1982), intendendo il cinema nostrano, ormai orfano dei grandi visionari e affidato a una generazione di giovani autori-attori come Verdone, Troisi, Moretti, Benigni e Nuti più votati alla comicità e al pauperismo.

Questo E la nave va è quindi uno dei primi film “postumi” di Fellini, inteso come successivo ai suoi successi e totalmente agli antipodi col gusto dell’epoca (è lo stesso anno del Ritorno dello Jedi), col grande vecchio che sembra quasi per ripicca puntare sull’ermetico e l’antiquato.

La storia è quella di una grande nave che nel 1914 parte per un viaggio nel Mediterraneo con lo scopo di gettare in mare le ceneri di un grande soprano. A bordo ci sono tutti i suoi colleghi del mondo dell’opera, oltre a personalità quali generali e politici, nonché un giornalista-narratore e un operatore cinematografico.

Il giornalista passa l’intero film rivolgendosi al pubblico, il che rende il film una sorta di mockumentary su questi agiati nobiluomini un po’ vacui, almeno fino a quando la Storia, e nello specifico la Prima guerra mondiale, non farà sentire la sua eco perfino in alto mare.

Non c’è un intreccio ben congegnato e non ci sono personaggi particolarmente approfonditi: il film è volutamente un susseguirsi di scene più felliniane che mai (un rinoceronte malato d’amore a bordo della nave, una gara d’acuti nella sala macchine, l’ipnosi di una gallina, il mare di cartapesta) miste a una satira della frivolezza della nobiltà e ad alcune trovate decisamente sperimentali come la rivelazione, in stile La montagna sacra di Jodorowsky, che… è tutto un film.

Nonostante la tarda età del regista, uno dei suoi film più ermetici, come se avesse deciso di spogliare la sua arte dalla narrazione abituale e dell’identificazione col Mastroianni di turno, lasciando solo simboli e metafore. Il che lo rende forse un film da ammirare intellettualmente, ma con poca anima.

E morì con un felafel in mano (He Died with a Felafel in His Hand)

Richard Lowenstein, 2001

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A volte ci si rende conto dell’importanza di alcune opere anche solo notando quanti tentativi d’imitazione hanno generato, finendo magari per dare un’impronta a un decennio intero.

Per quanto riguarda gli anni Novanta, probabilmente due film incredibilmente influenti da questo punto di vista sono stati Pulp Fiction di Tarantino e Trainspotting di Danny Boyle, le cui tracce a base di dialoghi bizzarri, grande colonna sonora, grandangoli e inquadrature sghembe si possono ritrovare in film diversissimi quali Il grande Lebowski, Lola corre, Paura e delirio a Las Vegas o Santa Maradona.

Questo è uno di quegli epigoni, ma purtroppo fa parte delle imitazioni meno riuscite. Avevo letto da giovanissimo il libro omonimo che l’ha ispirato, ed ero curioso di vederne la versione cinematografica, che racconta delle traversie di un giovane australiano nelle sue varie esperienze come coinquilino in diverse case una più folle dell’altra.

Già la primissima scena prende in giro Tarantino con una tarantinata, quando due coinquilini discutono della possibile omosessualità tra Mr. Orange e Mr. White de Le iene, e il resto è un po’ L’appartamento spagnolo con i tossici di Trainspotting come inquilini e qualche riferimento sparso all’umorismo imperturbabile di Godard.

Già dopo mezz’ora le esagerazioni (case che crollano, gente che fa motocross dentro casa, invasioni di naziskin) fanno sì che l’interesse cali notevolmente, e soprattutto l’idea di mischiare del dramma esistenziale alle varie scenette porta il film molto fuori tema.

Curiosità: il protagonista (bravo, anche se non è il nuovo Mark Renton) è il futuro cattivo del Trono di Spade che fa fare una brutta fine alla mano a uno dei personaggi più noti.

Hardcore

Paul Schrader, 1979

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Paul Schrader è un mistero notevole del cinema americano: è stato per anni stimatissimo sceneggiatore di fiducia di Scorsese, e come regista ha diretto un classico dell’eleganza sexy come American Gigolò, ma per il resto si è perso tra tanti fiaschi rimasti dimenticati… tra cui questo.

Specializzato come il suo idolo Robert Bresson in personaggi tormentati e intrisi di senso del peccato (basti pensare a Taxi Driver e Toro scatenato), qui Schrader racconta un incubo moderno con la storia di un padre di famiglia fervente calvinista (come suo padre), tutto casa e chiesa nella provincia più tradizionale, che viene informato della misteriosa sparizione di sua figlia adolescente durante una gita a Los Angeles.

C’è di peggio, perché l’uomo, dopo aver assunto un investigatore privato, scopre che la figliola modello ha recitato in un film pornografico, e si vede quindi costretto a cercarla negli ambienti più squallidi e malfamati di una California peccaminosa e completamente antitetica ai suoi valori, un po’ come John Wayne tra gli indiani di Sentieri selvaggi o come Liam Neeson in Io vi troverò.

Le peregrinazioni notturne tra i cinema porno ricordano molto Taxi Driver (il direttore della fotografia è lo stesso), e qualcuno ha detto che il personaggio (ben interpretato da George C. Scott) è il Travis Bickle di De Niro in versione papà, anche lui capace di trasformarsi e tirare fuori una personalità inaspettata.

I risultati qui sono decisamente peggiori, però: se il disagio del padre alla vista del filmino della figlia è reale, il film spesso sconfina nel ridicolo, con il protagonista che smette i completi grigi e compra camicie assurde, baffi finti e parrucca pur di spacciarsi per un finto produttore di porno (memorabili però le battute rivolte ai registi di tali film, tipo: “Ma chi credi di essere? Antonioni?”).

L’intrigo man mano si fa più hitchcockiano, ma non è un bene, perché l’indagine anche interessante sul confronto tra questo padre bigotto ma ben intenzionato e il mondo sordido della nascente industria pornografica, tra provincia lynchiana e città tentacolare, tra vecchie e nuove generazioni, si perde in un finale di inseguimenti, spari e risoluzioni frettolose poco soddisfacenti.

L’occhio che uccide (Peeping Tom)

Michael Powell, 1960

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Insultato in ogni modo dai critici al tempo della sua uscita, che evidentemente non seppero reggere l’impatto degli aspetti che oggi ce lo fanno considerare moderno, questo film è stato in seguito rivalutato e considerato uno degli horror più riusciti e influenti di sempre.

Dal canto mio, per quel che vale, mi associo alla rivalutazione, perché si tratta di un film che, pur non possedendo forse la perfezione anarchica e rivoluzionaria di uno Psyco (che uscì lo stesso anno), tocca temi piuttosto simili (la devianza, un rapporto malato coi genitori, l’assassinio seriale) con grandissima maestria.

La storia, ambientata a Londra, è quella di un giovane dall’aspetto piacevole e inoffensivo che si guadagna da vivere come fotografo e cameraman, ma che nel tempo libero sente l’impulso perverso di uccidere giovani donne, filmare con la sua cinepresa portatile i loro ultimi istanti di vita e poi guardare il risultato una volta tornato a casa.

Già di per sé sarebbe qualcosa di decisamente forte per l’epoca, ma il tutto viene complicato dal fatto che il protagonista non ha solo la faccia d’angelo, ma sembra anche essere un puro di cuore, che solo un’infanzia terribile ha reso quello che è ora, mettendoci come spettatori in una situazione di notevole imbarazzo.

La musica è inquietante, i flashback del passato inediti per l’epoca nella loro crudeltà verso un bambino, la fotografia, granulosa e satura, eccezionale, e gli omicidi in soggettiva del serial killer sembrano dare vita all’intero genere dello slasher movie, che avrebbe avuto epigoni sia di lì a breve con Mario Bava (Sei donne per l’assassino, 1964), che con Dario Argento o John Carpenter negli anni Settanta.

Il fulcro psicologico del film, poi, tutto incentrato sul voyeurismo e sulla cattura delle emozioni tramite i mezzi tecnologici (peeping Tom significa “guardone”), al giorno d’oggi assume ancora più valore se confrontato con l’abitudine ormai diffusa di registrare continuamente la nostra vita come se fosse un unico, lungo film.

Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)

3 risposte a "Mi consigli un film? – Vol. 11"

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  1. “Felafel” bello, a me ai tempi era piaciuto ed era diventato un piccolo cult anche se adesso avrei fatica a dirti di che parla (Noah Taylor tra l’altro lo abbiamo visto ai tempi anche in “Vanilla Sky” e “Quasi famosi” di Crowe e in “Steve Zissou” di Wes Anderson, ebbe comunque una discreta carriera soprattutto in quel decennio).

    “Peeping Tom” mi ha sempre incuriosito ma non l’ho mai visto.

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