Se ci si trovasse a guardare la quinta puntata della prima stagione di Designated Survivor (2016-19), una recente serie in cui un politico di basso rango si ritrova improvvisamente presidente degli Stati Uniti, si potrebbe sentire la seguente battuta rivolta al protagonista: “L’intera legittimità della sua presidenza dipende da questo: se la missione è un successo, lei è Reagan. Se fallisce, lei è Carter”.
È una dichiarazione piuttosto anomala alle orecchie di un europeo, magari di vedute progressiste, che vedrebbe in Carter un esempio di serietà e responsabilità e in Reagan l’esatto contrario, ma sta a dimostrare quanto nell’immaginario collettivo statunitense la figura di Ronald Reagan, presidente dal 1980 al 1988, sia tuttora sinonimo di un’America forte, ricca, vincente e rimpianta.
Per capire come questo sia successo, può essere utile dare un’occhiata a The Reagans, miniserie documentaria in quattro episodi da un’ora diretta da Matt Tyrnauer e andata in onda sul canale Showtime dal 15 novembre al 6 dicembre 2020.

Il documentario, che come ormai molti altri omologhi recenti fa un ottimo uso dei materiali d’archivio di un’epoca distante ma già molto mediatizzata, si propone sin dal titolo di ricostruire in primis la parabola del presidente repubblicano, ma senza dimenticare la figura di sua moglie Nancy, da sempre molto coinvolta nelle sue decisioni.
Non si tratta però solo di un esercizio di memoria storica: al giorno d’oggi, la presidenza Reagan è ancora particolarmente significativa perché sia a livello di programma politico, sia a livello di storia personale, le somiglianze sono evidenti con un altro presidente repubblicano: Donald Trump.
Se Trump ha basato le sue candidature sull’immagine di un’America forte e spavalda ma fondamentalmente inesistente, lo stesso aveva fatto Reagan già nel 1980; se Trump è arrivato allo Studio Ovale dopo una vita da personaggio da tabloid e protagonista di reality show televisivi, Reagan negli anni Quaranta e Cinquanta era stato un attore hollywoodiano; se Trump è stato ripetutamente accusato di essere un ignorante più in grado di parlare alla pancia degli elettori che di guidare un Paese, le stesse accuse di grande carisma e scarsa competenza venivano mosse a Reagan quarant’anni fa.
Se poi vogliamo parlare di slogan, sapete qual era quello di Reagan per la campagna della rielezione nel 1984, e che giustamente gli autori del documentario mostrano mentre sventola sui cartelli dei suoi sostenitori? “Let’s make America great again”.


D’altronde, a onore di Reagan va detto che i suoi toni sono sempre stati decisamente più pacati e paterni rispetto all’arroganza trumpiana, e che le sue politiche, per quanto inique, erano probabilmente dettate da un amore sincero per il proprio Paese più che da interessi personali o soddisfazioni patologicamente narcisistiche.
La figura politica di Reagan, secondo quanto emerge dalla miniserie, sembra sgorgare direttamente dal suo percorso come attore in ruoli da eterno buono, un eroe All-American fermo a un mondo piccolo-borghese in bianco e nero, in cui tutti dovrebbero essere dei valorosi patrioti e c’è una torta di mele a ogni finestra. Come viene detto a un certo punto, Reagan era “un esperto di una mitologia americana basata su un’America che non esisteva”, e “una caricatura della cultura americana”, e basterebbe vedere un suo spot elettorale del 1984, tutti a base di case da Mulino Bianco, mattini di gloria e lavoratori sorridenti, per rendersene conto.
Dopo una carriera cinematografica iniziata nel 1937 e un primo matrimonio con la star Jane Wyman, la sua stella cominciò a offuscarsi quando i ruoli diminuirono e l’amore finì a causa del suo eccessivo coinvolgimento, per massima ironia, nel sindacato degli attori. Fu il suo battesimo politico e anche l’inizio di una nuova storia con la seconda moglie Nancy Davis, che rimarrà la sua consigliera più fidata fino alla morte.
In questi anni Reagan viene assunto come sponsor dalla General Electric, che gli fa girare diversi spot pubblicitari e soprattutto lo spedisce in giro a tenere discorsi in qualcosa come 138 fabbriche sparse nel Paese, davanti a un totale di circa 200mila persone. È lì che capisce che sa catalizzare l’attenzione della gente, ed è indubbio che guardando le sue immagini nel tempo non stupisce: Reagan mantiene costantemente un tono di voce pacato, caldo, mai collerico, unito alla battuta pronta, all’autoironia e a una buona capacità oratoria. Spesso quel che dice può essere pura aria fritta, o peggio può dichiarare cose politicamente crudeli, ma quell’atteggiamento bonario da buon padre di famiglia lo salverà sempre.
Uno degli aspetti più forti della serie è infatti proprio quello relativo alla legge, oggi fondamentale, della politica come spettacolo e del politico come uomo simpatico più che competente, per cui, come viene narrato, a volte basta una battuta azzeccata durante un dibattito per vincerlo, anche quando nella stessa occasione si sono ammessi gravi scandali internazionali.
A confermarlo è proprio chi lo ha conosciuto bene, ovvero il figlio Ron jr., che qui si dona con grande generosità alle telecamere e soprattutto sembra avere uno sguardo molto lucido, equilibrato e spesso critico sulle vedute del genitore, offrendo aneddoti privati e commenti mai adulatori.
Il documentario non ha voce narrante, e alterna le immagini d’epoca, seguendo una linea tendenzialmente cronologica ma senza regole ben precise, con gli interventi di vari commentatori contemporanei (tutti critici) e di ex consiglieri di Reagan, nessuno dei quali esageratamente tenero nei confronti dell’ex capo. Forse l’assenza di altri nomi forti, per esempio di altri presidenti successivi, oppure delle figlie dei Reagan, o di figure che offrissero, anche solo per contestarlo, un punto di vista più vicino alle vedute del protagonista, è un punto a sfavore del documentario, che così risulta di premere troppo sul pedale delle accuse.
Di Reagan si evidenziano quindi in ordine sparso: il trasformismo (da democratico a repubblicano, da sindacalista a primo nemico dei sindacati), il conservatorismo puro a livello di diritti civili e attitudine generale (il figlio dichiara divertito: “Erano impauriti dai Beatles, rendiamoci conto!”), la passione per la deregulation, le strizzatine d’occhio agli stati razzisti del Sud (con l’accortezza però di non essere mai esplicitamente razzista), le spese folli per il settore militare, l’indifferenza prolungata rispetto all’emergenza AIDS, l’alleanza con i cristiani fondamentalisti, i tagli al welfare per favorire le grandi aziende.
In realtà, però, dell’esperienza politica di Reagan come presidente c’è meno del dovuto, così come dell’influenza anche culturale che ha avuto l’era reaganiana (basti pensare ai vari Rambo e Rocky, o ai fraintendimenti di Born in the USA di Springsteen, di cui parlammo qui), e addirittura il documentario si ferma al 1988, senza citarne la morte nel 2004 e gli ultimi anni.

Quello che non manca invece, come d’altronde il titolo promette, è un’indagine psicologica della coppia Ronald-Nancy, con lei in fondo vera protagonista nascosta, spesso ritratta come una Lady Macbeth in grado di manipolare il marito troppo ingenuo e di arrivare a far sostituire consiglieri politici a lei poco graditi o di organizzargli l’agenda sulla base delle previsioni astrologiche.
Reagan ne esce come un uomo dai valori fin troppo semplici, non in grado di far quadrare i suoi ideali con la concretezza e la spietatezza della realtà statunitense, costantemente perso nell’illusione di fabbricare un’immagine fittizia di sé e del suo Paese; sua moglie invece è lo yang calcolatore e accorto, pronta a tenersi in secondo piano per doveri d’apparenza ma capace di uccidere con lo sguardo senza mai perdere il sorriso d’ordinanza.
Un episodio in più non avrebbe affatto guastato per andare più a fondo rispetto alle questioni politiche degli anni Ottanta, così come sarebbe stata benvenuta qualche voce di commento in più, ma per chi abbia voglia fare un corso accelerato di storia recente prima di scendere nei particolari, e capire dove siano nate moltissime delle strategie politiche di oggi, The Reagans è un ottimo punto di partenza.

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