La traduzione del saggio di Martin Scorsese su Fellini e lo streaming

Sta riscuotendo ammirazione ma anche scatenando dibattiti tra i cinefili di tutto il mondo un saggio dedicato a Federico Fellini scritto dal regista italoamericano Martin Scorsese sul numero di marzo 2021 della rivista statunitense Harper’s Magazine, già disponibile dal 16 febbraio sul sito della testata.

Nel testo, molto lungo e articolato, Scorsese si dedica principalmente a un apprezzamento di Federico Fellini (1920-1993), probabilmente il regista italiano più noto al mondo e in generale uno dei più grandi maestri nella storia della Settima Arte. Si intitola proprio “Il Maestro” il saggio di Scorsese, e al suo interno il regista di Taxi Driver, The Departed, Quei bravi ragazzi e Toro scatenato si toglie anche numerosi sassolini dalle scarpe, attaccando l’idea di Cinema come banale “contenuto” assimilabile a una serie tv o “a un video di gattini”, e suggerendo alle grande piattaforme di streaming di trattare con maggiore rispetto l’arte cinematografica.

Non sono mancate le polemiche su questa parte dell’articolo, visto che proprio Scorsese è riuscito a finanziare il suo ultimo film, The Irishman (2019) solo grazie a Netflix, e che già in passato il regista si era dimostrato poco amante del cinema contemporaneo quando aveva sminuito i film di supereroi (all’epoca avevamo analizzato il suo punto di vista attraverso i dati in questo articolo).

Leggendo il saggio su Harper’s Magazine chiunque può farsi una propria idea sul punto di vista di Scorsese, e apprezzare in ogni caso l’enorme dose di amore e analisi attenta che riserva al suo mentore e amico italiano.

Di seguito, la traduzione in italiano del testo integrale del saggio:


Il Maestro – Federico Fellini e la magia perduta del cinema

di Martin Scorsese

EST. OTTAVA STRADA — TARDO POMERIGGIO (CA. 1959).

La MACCHINA DA PRESA IN CONTINUO MOVIMENTO è sulla spalla di un giovane, poco meno che ventenne, che cammina concentrato verso ovest su una trafficata arteria del Greenwich Village.

Sotto un braccio porta dei libri. Nell’altra mano, una copia del Village Voice.

Cammina veloce, davanti a uomini in cappotto e cappello, donne con scialli sulla testa che spingono carrelli della spesa pieghevoli, coppie che si tengono per mano, e poeti e prostitute e musicisti e ubriaconi, davanti a negozi di alimentari, negozi di alcolici, gastronomie, condominii.

Ma il giovane è concentrato su una cosa sola: il foyer dell’Art Theatre, che dà Ombre di John Cassavetes e I cugini di Claude Chabrol.

Prende un appunto mentale e poi attraversa la Quinta Avenue e continua a camminare verso ovest, oltre librerie e negozi di dischi e studi di registrazione e negozi di scarpe, finché non arriva all’8th Street Playhouse: ci sono Quando volano le cicogne e Hiroshima mon amour, e Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard sarà PROSSIMAMENTE SU QUESTI SCHERMI!

Restiamo su di lui mentre gira a sinistra sulla Sesta Avenue e si fa strada tra fast food e altri negozi di liquori e edicole e un negozio di sigari e attraversa la strada per dare una bella occhiata al foyer del Waverly: Cenere e diamanti.

Taglia verso est sulla Quarta Ovest dopo Kettle of Fish e la Judson Memorial Church su Washington Square South, dove un uomo con un abito da sera logoro distribuisce volantini: Anita Ekberg in pelliccia, e per La dolce vita è prevista una première in un vero e proprio teatro a Broadway, con posti riservati in vendita al prezzo dei biglietti di Broadway!

Cammina lungo LaGuardia Place fino a Bleecker, oltre il Village Gate e il Bitter End fino al Bleecker Street Cinema, che dà Come in uno specchio, Tirate sul pianista, e L’amore a vent’anni – e La notte è stato prolungato per il terzo mese consecutivo!

Si mette in fila per il film di Truffaut e apre la sua copia del Voice alla pagina dei film e una cornucopia di tesori esce fuori dalle pagine e comincia a vorticare intorno a lui: Luci d’inverno . . . Diario di un ladro . . . L’Oeil du malin . . . La mano en la trampa . . . film di Andy Warhol . . . Porci, geishe e marinai . . . Kenneth Anger e Stan Brakhage agli Anthology Film Archives . . . Lo spione. . . e in mezzo a tutto questo, con un risalto maggiore rispetto al resto: Joseph E. Levine presenta 8½ di Federico Fellini!

Mentre scruta le pagine, la MACCHINA DA PRESA SI ALZA SOPRA DI LUI e sul pubblico in attesa, come sull’onda della loro eccitazione.


Avanti veloce fino ai giorni nostri, quando l’arte del cinema viene sistematicamente svalutata, messa da parte, sminuita e ridotta al suo minimo comune denominatore, il “contenuto”.

Non più di quindici anni fa, il termine “contenuto” si sentiva solo quando le persone discutevano seriamente di cinema, e veniva citato di pari passo e confrontato con “forma”. Poi, gradualmente, è stato sempre più utilizzato da coloro i quali hanno preso il controllo delle piattaforme mediatiche, la maggior parte dei quali non sapeva nulla della storia di questa forma d’arte, e in alcuni casi nemmeno si preoccupava del fatto che forse avrebbe dovuto. “Contenuto” è diventato un termine usato nel business per tutte le immagini in movimento: un film di David Lean, un video di gattini, una pubblicità del Super Bowl, un sequel di supereroi, l’episodio di una serie. È diventato legato, ovviamente, non all’esperienza in sala ma alla visione in casa, sulle piattaforme di streaming che sono arrivate a sconfiggere l’esperienza dell’andare al cinema, proprio come Amazon ha sconfitto i negozi fisici. Da un lato, questo è stato positivo per i registi, me compreso. Dall’altro lato, ha creato una situazione in cui tutto viene presentato allo spettatore in condizioni di parità, il che suona democratico ma non lo è. Se ulteriori visioni vengono “suggerite” da algoritmi basati su ciò che si è già visto, e i suggerimenti si basano solo sul tema o sul genere, quali sono gli effetti sull’arte del cinema?

Avere dei curatori non è antidemocratico o “elitario”, un termine che ora viene usato così spesso da essere diventato privo di significato. È un atto di generosità: si condivide ciò che si ama e ciò che è stato di ispirazione. (Le migliori piattaforme di streaming, come il Criterion Channel, MUBI e canali tradizionali come TCM, si basano sulla cura, ovvero ci sono dei curatori che le gestiscono). Gli algoritmi, per definizione, si basano su calcoli che trattano lo spettatore come un consumatore e nient’altro.

Le scelte fatte da distributori quali Amos Vogel della Grove Press negli anni Sessanta non furono solo atti di generosità ma, molto spesso, di coraggio. Dan Talbot, che era insieme esercente e programmista, avviò la New Yorker Films per poter distribuire un film che amava, Prima della rivoluzione di Bertolucci: non esattamente una scommessa sicura. I film che sono arrivati a questi lidi grazie all’impegno di questi e altri distributori, curatori ed esercenti, hanno reso quel momento straordinario. Le circostanze di quel momento sono scomparse per sempre, dal primato dell’esperienza in sala all’eccitazione condivisa per le possibilità del cinema. Ecco perché ripenso spesso a quegli anni. Mi sento fortunato ad essere stato giovane, vivo e aperto a tutto ciò mentre stava accadendo. Il cinema è sempre stato molto più che un contenuto, e lo sarà sempre, e gli anni in cui quei film uscivano, provenienti da tutto il mondo, dialogando tra loro e ridefinendo ogni settimana questa forma d’arte, ne sono la prova.

In sostanza, questi artisti erano costantemente alle prese con la domanda “Che cos’è il cinema?”, per poi rilanciare la risposta al prossimo film. Nessuno operava in una camera iperbarica, e tutti sembravano dialogare e alimentarsi di tutti gli altri. Godard e Bertolucci e Antonioni e Bergman e Imamura e Ray e Cassavetes e Kubrick e Varda e Warhol stavano reinventando il cinema a ogni nuovo movimento di macchina da presa e a ogni nuovo taglio di montaggio, e registi più affermati come Welles e Bresson e Huston e Visconti furono rinvigoriti dall’impennata di creatività intorno a loro.

Al centro di tutto c’era un regista che tutti conoscevano, un artista il cui nome era sinonimo di cinema e delle sue possibilità. Era un nome che evocava immediatamente un certo stile, un certo atteggiamento nei confronti del mondo. Tanto che è diventato un aggettivo. Supponiamo che tu volessi descrivere l’atmosfera surreale di una cena di gala, di un matrimonio, di un funerale, di un congresso politico o, volendo, la pazzia dell’intero pianeta: tutto ciò che dovevi fare era usare la parola “felliniano”, e la gente avrebbe capito perfettamente cosa intendevi.

Negli anni Sessanta, Federico Fellini diventò più di un regista. Come Chaplin, Picasso e i Beatles, era molto di più della sua stessa arte. A un certo punto, non era più una questione di questo o quel film, ma di tutti i film combinati come fossero un unico gesto maestoso scritto nella galassia. Andare a vedere un film di Fellini era come ascoltare la Callas cantare o Olivier recitare o Nureyev ballare. I suoi film cominciarono addirittura a incorporare il suo nome: Fellini Satyricon, Il Casanova di Federico Fellini. L’unico esempio comparabile in ambito cinematografico era Hitchcock, ma lì si trattava di qualcos’altro: un marchio, un genere a sé stante. Fellini era il virtuoso del cinema.

Ormai sono quasi trent’anni che non c’è più. Il momento in cui la sua influenza sembrava permeare tutta la cultura è passato da tempo. Ecco perché il cofanetto della Criterion, Essential Fellini, uscito lo scorso anno in occasione del centenario della sua nascita, è davvero apprezzabile.

L’assoluta maestria visiva di Fellini iniziò nel 1963 con , in cui la macchina da presa si libra, fluttua e plana tra realtà interiori ed esteriori, sintonizzata sugli umori mutevoli e sui pensieri segreti dell’alter ego di Fellini, Guido, interpretato da Marcello Mastroianni. Guardo alcuni passaggi di quel film, che ho rivisto più volte di quante ne riesca a contare, e ancora mi ritrovo a chiedermi: come c’è riuscito? Com’è che ogni movimento, gesto e folata di vento sembra essere sempre al posto giusto? Com’è possibile che tutto sembri inquietante e inevitabile, come in un sogno? Come può ogni momento essere così ricco di una nostalgia inesplicabile?

Il suono giocava un ruolo importante in quest’atmosfera. Fellini era creativo con il sonoro quanto lo era con le immagini. Il cinema italiano ha una lunga tradizione di sonoro non sincronizzato iniziata sotto Mussolini, il quale decretò che tutti i film importati da altri paesi dovessero essere doppiati. In molti film italiani, anche tra i più belli, la sensazione di un suono disincarnato dagli attori può disorientare. Fellini sapeva usare quel disorientamento come strumento espressivo. I suoni e le immagini nei suoi film giocano tra loro e si potenziano a vicenda in modo che l’intera esperienza cinematografica si muova come musica, o come una grande pergamena che si srotola. Al giorno d’oggi, la gente rimane abbagliata dai più recenti strumenti tecnologici e da ciò che riescono a fare. Ma le macchine da presa digitali più leggere e le tecniche di postproduzione come lo stitching e il morphing digitali non fanno il film al posto tuo: il risultato dipende delle scelte che fai nella creazione dell’intero film. Per i più grandi artisti come Fellini, nessun elemento è troppo piccolo, tutto conta. Sono sicuro che sarebbe stato entusiasta delle macchine da presa digitali leggere, ma non avrebbero cambiato il rigore e la precisione delle sue scelte estetiche.

È importante ricordare che Fellini cominciò con il neorealismo, il che è interessante perché per molti versi è arrivato a rappresentarne l’esatto opposto. In realtà fu uno degli inventori del neorealismo, in collaborazione col suo mentore Roberto Rossellini. Quel momento mi sbalordisce ancora. È stato d’ispirazione per così tanto nella storia del cinema, e dubito che tutta la creatività e le esplorazioni degli anni Cinquanta e Sessanta avrebbero avuto luogo senza il neorealismo su cui basarsi. Non era tanto un movimento quanto un gruppo di artisti del cinema che rispondeva a un momento inimmaginabile nella vita della loro nazione. Dopo vent’anni di fascismo, dopo tanta crudeltà, terrore e distruzione, come si faceva ad andare avanti, come individui e come paese? I film di Rossellini e De Sica e Visconti e Zavattini e Fellini e altri, film in cui estetica e moralità e spiritualità erano così strettamente intrecciate da non poter essere districate, hanno giocato un ruolo fondamentale nella redenzione dell’Italia agli occhi del mondo.

Fellini ha co-sceneggiato Roma città aperta e Paisà (pare che lui stesso abbia diretto alcune scene dell’episodio fiorentino per sostituire Rossellini malato), e ha co-sceneggiato e recitato nel Miracolo di Rossellini. Il suo percorso di artista ovviamente si discostò da quello di Rossellini in breve tempo, ma mantennero un grande affetto e rispetto reciproci. E Fellini una volta disse qualcosa di piuttosto acuto: che ciò che la gente descriveva come neorealismo in realtà esisteva solo nei film di Rossellini e da nessun’altra parte. Ladri di biciclette, Umberto D. e La terra trema a parte, credo che Fellini volesse dire che Rossellini fosse l’unico con una fiducia così profonda e duratura nella semplicità e nell’umanità, l’unico che si sforzò di permettere alla vita stessa di avvicinarsi il più possibile a raccontare la propria storia. Fellini, al contrario, era uno stilista e un favolista, un mago e un narratore di storie, ma il fondamento nell’esperienza vissuta e nell’etica che aveva ricevuto da Rossellini rimase cruciale per lo spirito dei suoi film.

Sono diventato adulto mentre Fellini cresceva e sbocciava come artista, e moltissimi dei suoi film sono diventati preziosi per me. Vidi La strada, la storia di una povera giovane donna venduta a un viaggiatore che si esibisce come forzuto, quando avevo circa tredici anni, e mi colpì in modo particolare. Era un film ambientato nell’Italia del dopoguerra ma che si dispiegava come una ballata medievale, o qualcosa di ancora più lontano, un’emanazione del mondo antico. Lo stesso si potrebbe dire de La dolce vita, credo, ma in quel caso si trattava di un panorama largo, uno spettacolo di vita moderna e di distacco spirituale. La strada, uscito nel 1954 (e due anni dopo negli Stati Uniti), era una tela più piccola, una favola costruita sugli elementi: terra, cielo, innocenza, crudeltà, affetto, distruzione.

Per me aveva una dimensione ulteriore. Lo vidi per la prima volta con la mia famiglia in televisione, e la storia risuonava anche per i miei nonni come riflesso delle difficoltà che si erano lasciati alle spalle nel paese d’origine. La strada non fu ben accolto in Italia. Per alcuni fu un tradimento del neorealismo (molti film italiani all’epoca venivano giudicati in base a questo standard), e suppongo che ambientare una storia così dura nella cornice di una favola fosse semplicemente troppo strano per molti spettatori italiani. In tutto il resto del mondo, fu un enorme successo, il film che fece la fortuna di Fellini. Fu il film per cui Fellini sembrò aver lavorato più a lungo e sofferto di più: la sua sceneggiatura era così dettagliata che arrivava a seicento pagine, e verso la fine della produzione, estremamente difficoltosa, ebbe un esaurimento nervoso e dovette impegnarsi con quella che fu la prima (credo) di molte psicoanalisi prima di riuscire a finire di girare. Fu anche il film che, per il resto della vita, gli rimase più caro.

Le notti di Cabiria, una serie di fantastici episodi nella vita di una prostituta romana (d’ispirazione per il musical di Broadway e per il film di Bob Fosse Sweet Charity), consolidò la sua reputazione. Come tutti gli altri, lo trovai emotivamente devastante. Ma la successiva grande rivelazione fu La dolce vita. Fu un’esperienza indimenticabile vedere quel film come parte di una sala gremita quando era ancora nuovo di zecca. La dolce vita qui fu distribuito nel 1961 dalla Astor Pictures, e presentato come evento speciale in un vero e proprio teatro di Broadway, con posti riservati per corrispondenza e biglietti costosi, il tipo di occasione che associavamo a epiche bibliche come Ben-Hur. Ci sedemmo, le luci si abbassarono, guardammo un maestoso e terrificante affresco cinematografico dispiegarsi sullo schermo, e tutti facemmo esperienza dello choc del rispecchiamento. Qui c’era un artista che era riuscito a esprimere l’ansia dell’era nucleare, la sensazione che nulla avesse davvero più importanza perché tutto e tutti potevano essere annientati da un momento all’altro. Provammo questo choc, ma provammo anche l’euforia dell’amore di Fellini per l’arte del cinema e, di conseguenza, per la vita stessa. Qualcosa di simile stava per accadere nel rock and roll, nei primi album elettrici di Dylan e poi nel White Album e in Let It Bleed: parlavano di ansia e disperazione, ma erano esperienze entusiasmanti e sublimi.

Quando una decina di anni fa abbiamo presentato a Roma il restauro de La dolce vita, Bertolucci ha voluto partecipare a tutti i costi. In quel momento era difficile per lui muoversi perché era su una sedia a rotelle e soffriva costantemente, ma disse che doveva esserci. E dopo il film mi confessò che La dolce vita era stato la prima ragione che lo aveva portato verso il cinema. Rimasi sinceramente sorpreso, perché non glielo avevo mai sentito dire. Ma dopo tutto non fu così sorprendente. Quel film è stato un’esperienza galvanizzante, come un’onda d’urto che ha attraversato l’intera cultura.


I due film di Fellini che mi hanno toccato di più, quelli che mi hanno veramente segnato, sono stati I vitelloni e . I vitelloni perché ha catturato qualcosa di fortemente vero e prezioso che si collegava direttamente alla mia esperienza personale. E perché ha ridefinito la mia idea di cosa fosse il cinema, cosa potesse fare e dove potesse portarti.

I vitelloni, uscito in Italia nel 1953 e tre anni dopo negli Stati Uniti, è stato il terzo film di Fellini e il suo primo vero grande film. È stato anche uno tra i più personali. La storia è una serie di scene nella vita di cinque amici ventenni a Rimini, dov’è cresciuto Fellini: Alberto, interpretato dal grande Alberto Sordi; Leopoldo, interpretato da Leopoldo Trieste; Moraldo, l’alter ego di Fellini, interpretato da Franco Interlenghi; Riccardo, interpretato dal fratello di Fellini; e Fausto, interpretato da Franco Fabrizi. Passano le giornate a giocare a biliardo, a rincorrere le ragazze e a passeggiare prendendo in giro la gente. Hanno grandi sogni e progetti. Si comportano come bambini e i loro genitori li trattano come tali. E la vita va avanti.

Mi sembrava come di conoscere questi ragazzi nella mia vita, nel mio quartiere. Riconoscevo perfino un po’ dello stesso linguaggio del corpo, lo stesso senso dell’umorismo. Per la verità, a un certo punto della mia vita, sono stato uno di questi ragazzi. Ho capito cosa stava vivendo Moraldo, la sua voglia disperata di andarsene. Fellini ha catturato tutto perfettamente: l’immaturità, la vanità, la noia, la tristezza, la ricerca della prossima distrazione, la prossima ondata di euforia. Ci dà il calore, il cameratismo, le battute, la tristezza e la disperazione interiori, tutto in una volta. I vitelloni è un film dolorosamente lirico e agrodolce, ed è stato un’ispirazione fondamentale per Mean Streets. È un grande film su una città natale. La città natale di chiunque.

Per quanto riguarda : tutti quelli che conoscevo a quei tempi che cercassero di fare cinema hanno avuto una svolta, una personale pietra miliare. La mia fu, ed è ancora, .

Cosa fai dopo aver realizzato un film come La dolce vita che ha sconvolto il mondo? Tutti pendono dalle tue labbra, aspettando di vedere cosa farai dopo. È quello che è successo a Dylan a metà degli anni Sessanta dopo Blonde on Blonde. Per Fellini e Dylan la situazione era la stessa: avevano toccato legioni di persone, tutti sentivano di conoscerli, di capirli, e, spesso, di possederli. Quindi, pressione. Pressione da parte del pubblico, dei fan, della critica e dei nemici (e i fan e i nemici spesso sembrano un’unica cosa). Pressione a tirare fuori qualcosa di più. Pressione ad andare oltre. Pressione da te stesso, su te stesso.

Per Dylan e Fellini, la risposta fu avventurarsi all’interno. Dylan cercò la semplicità nel senso spirituale definito da Thomas Merton, e la trovò dopo il suo incidente in moto a Woodstock, dove registrò i Basement Tapes e scrisse le canzoni per John Wesley Harding.

Fellini partì dalla sua situazione personale problematica all’inizio degli anni Sessanta e girò un film sul suo esaurimento artistico. In tal modo, intraprese una spedizione rischiosa in territorio inesplorato: il suo mondo interiore. Il suo alter ego, Guido, è un famoso regista che soffre dell’equivalente cinematografico del blocco dello scrittore, e cerca rifugio, pace e guida, come artista e come essere umano. Si reca in un lussuoso centro benessere per una “cura”, dove la sua amante, sua moglie, il suo ansioso produttore, i suoi potenziali attori, la sua troupe e una variopinta processione di fan, tirapiedi e frequentatori delle terme gli si parano davanti in rapida successione – tra loro c’è un critico, il quale proclama che la sua nuova sceneggiatura “manca di un conflitto centrale o di una premessa filosofica” e ammonta a “una serie di episodi gratuiti”. La pressione si intensifica, i suoi ricordi d’infanzia, le nostalgie e le fantasie si manifestano inaspettatamente lungo i suoi giorni e le sue notti, e lui aspetta la sua musa – che va e viene, fugace, nei panni di Claudia Cardinale – per “creare ordine”.

è un arazzo tessuto con i sogni di Fellini. Come in un sogno, tutto sembra solido e ben definito da un lato e fluttuante ed effimero dall’altro; il tono continua a cambiare, a volte violentemente. L’autore è riuscito a creare un flusso di coscienza visivo che mantiene lo spettatore in uno stato di sorpresa e allerta, e una forma che si ridefinisce costantemente man mano che va avanti. In pratica stai guardando Fellini che realizza il film davanti ai tuoi occhi, perché la struttura è il processo creativo. Molti registi hanno provato a fare qualcosa su questa falsariga, ma non credo che nessun altro abbia mai raggiunto il livello di ciò che Fellini ha fatto qui. Ha avuto l’audacia e la fiducia in se stesso per giocare con ogni strumento creativo, tendere la qualità plastica dell’immagine fino al punto in cui tutto sembra esistere a livello inconscio. Anche i fotogrammi apparentemente più neutri, quando li guardi da molto vicino, hanno qualche elemento nell’illuminazione o nella composizione che ti sbalordisce, che è in qualche modo intriso della coscienza di Guido. Dopo un po’, smetti di cercare di capire dove ti trovi, se sei in un sogno, in un flashback o semplicemente nella realtà. Vuoi rimanere sperduto e vagare con Fellini, arrendendoti all’autorità del suo stile.

Il film raggiunge l’apice in una scena in cui Guido incontra il cardinale alle terme, un viaggio negli inferi alla ricerca di un oracolo e un ritorno all’argilla da cui tutti abbiamo origine. Come in tutto il film, la macchina da presa è in movimento: irrequieta, ipnotica, fluttuante, sempre orientata verso qualcosa di inevitabile, qualcosa di rivelatore. Mentre Guido scende, vediamo dal suo punto di vista un susseguirsi di persone che si avvicinano a lui, alcune consigliandolo su come ingraziarsi il cardinale e altre supplicando favori. Entra in un’anticamera piena di vapore e si dirige verso il cardinale, i cui attendenti tengono davanti a lui un sudario di mussolina mentre si spoglia: lo vediamo solo come un’ombra. Guido dice al cardinale che non è felice, e il cardinale risponde in modo semplice e indimenticabile: “Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?”. Ogni inquadratura di questa scena, ogni pezzo di messa in scena e coreografia tra la macchina da presa e gli attori, è straordinariamente complesso. Non riesco a immaginare quanto sia stato difficile da realizzare. Sullo schermo, si svolge in modo così elegante che sembra la cosa più semplice del mondo. Per me, l’udienza con il cardinale incarna una verità degna di nota su : Fellini ha fatto un film sul cinema che potrebbe esistere solo come film e nient’altro – non un brano musicale, non un romanzo, non una poesia, non una danza, solo come opera cinematografica.

Quando uscì, la gente ne discusse all’infinito: l’effetto fu così drammatico. Ognuno di noi aveva la propria interpretazione e restavamo seduti fino alle ore piccole a parlare del film, di ogni scena, di ogni secondo. Naturalmente non ci siamo mai accordati su un’interpretazione definitiva: l’unico modo per spiegare un sogno è con la logica di un sogno. Il film non ha una risoluzione, il che ha infastidito molte persone. Gore Vidal una volta mi ha rivelato di aver detto a Fellini: “Fred, la prossima volta meno sogni, devi raccontare una storia”. Ma in , la mancanza di risoluzione è più che giusta, perché nemmeno il processo artistico ha una risoluzione: devi solo andare avanti. Quando hai finito, ti senti costretto a farlo di nuovo, proprio come Sisifo. E, come scoprì Sisifo, spingere il masso su per la collina ancora e ancora diventa lo scopo della tua vita.

Il film ha avuto un enorme effetto sui registi: ha ispirato Il mondo di Alex di Paul Mazursky, in cui Fellini appare nei panni di se stesso; Stardust Memories di Woody Allen; e All That Jazz di Fosse, per non parlare del musical di Broadway Nine. Come ho detto, non riesco a contare il numero di volte che ho visto , e non saprei da dove cominciare a parlare dei molti modi in cui mi ha toccato. Fellini ha mostrato a tutti noi cosa significhi essere un artista, il bisogno soverchiante di creare arte. è la più pura espressione d’amore per il cinema che io conosca.

Dare un seguito a La dolce vita? Difficile. Dare un seguito a ? Non riesco a nemmeno a pensarci. Con Toby Dammit, un mediometraggio ispirato a un racconto di Edgar Allan Poe (è l’ultimo terzo di un film a episodi intitolato Tre passi nel delirio), Fellini ha portato il suo immaginario allucinatorio a un livello acutissimo. Il film è una viscerale discesa agli inferi. In Fellini Satyricon, ha creato qualcosa che non aveva precedenti: un affresco del mondo antico che era “fantascienza del passato”, come lo chiamava lui. Amarcord, il suo film semi-autobiografico ambientato a Rimini durante il periodo fascista, è oggi uno dei suoi film più amati (è uno dei preferiti di Hou Hsiao-hsien, per esempio), anche se è molto meno audace dei film precedenti. Comunque, è un lavoro pieno di visioni straordinarie (sono rimasto affascinato dalla particolare ammirazione di Italo Calvino per il film come ritratto della vita nell’Italia di Mussolini, cosa che non avevo notato davvero). Dopo Amarcord, ogni film aveva frammenti di brillantezza, soprattutto Il Casanova di Federico Fellini. È un film gelido, più freddo del cerchio più profondo dell’inferno di Dante, ed è un’esperienza notevole e audacemente stilizzata, ma anche davvero ostile. Sembrò un punto di svolta per Fellini. E in verità, la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta sono sembrati un punto di svolta per molti registi di tutto il mondo, me compreso. Il senso di cameratismo che tutti noi avevamo provato, reale o immaginario, sembrava andare in frantumi, e ognuno sembrava diventare l’isola di se stesso, tutti impegnati a lottare per realizzare il film successivo.


Conoscevo Federico, abbastanza per dire che fosse mio amico. Ci conoscemmo per la prima volta nel 1970, quando andai in Italia con un gruppo di cortometraggi che avevo selezionato per una presentazione a un festival cinematografico. Contattai l’ufficio di Fellini e mi fu concessa circa mezz’ora del suo tempo. Fu così caloroso, così cordiale. Gli dissi che per il mio primo viaggio a Roma avevo tenuto lui e la Cappella Sistina per l’ultimo giorno. Rise. “Vedi, Federico”, disse la sua assistente, “sei diventato un noioso monumento!”. Gli assicurai che noioso era l’unica cosa che non sarebbe mai stato. Ricordo che gli chiesi anche dove avrei potuto trovare delle buone lasagne e mi consigliò un ristorante meraviglioso: Fellini conosceva tutti i migliori ristoranti, ovunque.

Diversi anni dopo mi trasferii a Roma per un periodo e cominciai a vedere Fellini abbastanza spesso. Ci imbattevamo l’uno nell’altro e ci ritrovavamo per mangiare. Era sempre uno showman, e lo spettacolo non si fermava mai. Vederlo dirigere un film è stata un’esperienza straordinaria. Era come se stesse dirigendo una dozzina di orchestre contemporaneamente. Portai i miei genitori sul set de La città delle donne, e lui correva dappertutto, lusingando, supplicando, imprecando, scolpendo e aggiustando ogni elemento del film fino all’ultimo dettaglio, realizzando la sua visione in un turbinio di continuo movimento.

Quando ce ne andammo, mio padre disse: “Pensavo che ci saremmo fatti una foto con Fellini”. E io: “L’abbiamo fatta!” Era successo tutto così in fretta che non si erano nemmeno resi conto che fosse successo.

Negli ultimi anni della sua vita, cercai di aiutarlo a far distribuire negli Stati Uniti il suo film La voce della luna. Aveva passato un periodo difficile con i suoi produttori su quel progetto: volevano una grandiosa stravaganza felliniana e lui gli aveva dato qualcosa di molto più meditabondo e cupo. Nessun distributore voleva averci a che fare, e rimasi davvero scioccato dal fatto che nessuno, compresi i principali cinema indipendenti di New York, volesse proiettarlo. I vecchi film, sì, ma non quello nuovo, che poi si rivelò essere l’ultimo. Qualche tempo dopo, aiutai Fellini a ottenere un finanziamento per un progetto di documentario che aveva pianificato, una serie di ritratti dei ruoli del cinema: l’attore, il direttore della fotografia, il produttore, il location manager (ricordo che nella bozza di quell’episodio, il narratore spiegava che la cosa più importante era organizzare le spedizioni in modo che le location fossero vicine a un ottimo ristorante). Purtroppo, morì prima di poter iniziare il progetto. Ricordo l’ultima volta che gli ho parlato al telefono. La sua voce era molto debole, e mi rendevo conto che la sua vita si stava affievolendo. Era triste vedere quell’incredibile forza vitale svanire.

Tutto è cambiato: il cinema e l’importanza che esso riveste nella nostra cultura. Ovviamente, non sorprende che artisti come Godard, Bergman, Kubrick e Fellini, che un tempo regnavano sulla nostra grande forma d’arte come dei, alla fine siano rientrati nell’ombra con il passare del tempo. Ma a questo punto non possiamo dare nulla per scontato. Non possiamo dipendere dall’industria cinematografica, così com’è, per prenderci cura del cinema. Nel settore del cinema, che ora è il business dell’intrattenimento visivo di massa, l’enfasi è sempre sulla parola “business” e il valore è sempre determinato dalla quantità di denaro da ricavare da una data proprietà: in questo senso, qualsiasi cosa da Aurora a La strada a 2001 è di fatto privo di interesse e pronto per la sezione “Film d’autore” su una piattaforma di streaming. Chi di noi conosce il cinema e la sua storia deve condividere il proprio amore e le proprie conoscenze con quante più persone possibile. E dobbiamo far presente con grande chiarezza agli attuali proprietari di questi film che sono molto, molto di più che semplici proprietà da sfruttare e poi mettere in cassaforte. Sono tra i più grandi tesori della nostra cultura, e devono essere trattati di conseguenza.

Suppongo che dobbiamo anche affinare le nostre nozioni su cosa sia il cinema e cosa non sia. Federico Fellini è un buon punto di partenza. Si possono dire tante cose sui film di Fellini, ma questa è una cosa incontestabile: sono cinema. L’opera di Fellini vale più di mille parole per definire questa forma d’arte.


Traduzione di Guglielmo Latini

 ©Harper’s Magazine 2021, tutti i diritti riservati ai detentori

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