Consigli per tutti e anche qualche film decisamente sconsigliato, così da evitare rischi.
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Di seguito le recensioni di: Stop Making Sense, Lo specchio, Rolling Thunder, Carter, A letto con Madonna.
Via al volume 36! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
Stop Making Sense
Jonathan Demme, 1984

I film-concerto, soprattutto quelli in cui non ci sono interruzioni con dialoghi e backstage, ma in cui una band si esibisce su un palco dall’inizio alla fine, sono di solito una chicca per fan, ma spesso non trovano il favore di chi non conosca particolarmente bene i musicisti coinvolti.
Ci sono delle eccezioni, però, e Stop Making Sense da questo punto di vista è l’Eccezione, visto che si configura come un’opera d’arte cinematografica a sé stante, pur non mostrando altro che un’ora e mezzo di concerto dei Talking Heads al Pantages Theater di Hollywood nel 1983.
Il gruppo aveva esordito nel 1977 sull’onda della New Wave newyorchese, e si era pian piano guadagnato consensi più consistenti ampliando anche le proprie sonorità, fino a coinvolgere ben nove musicisti sul palco rispetto ai quattro membri fondatori.
Jonathan Demme (futuro blasonato regista de Il silenzio degli innocenti, Philadelphia e Qualcosa di travolgente) all’epoca non aveva ancora alcun successo di botteghino dalla sua, ma impresse tutta la sua visione registica nel filmare il concerto come fosse un’installazione artistica, con un’eleganza e un rigore che non lasciano spazio a nessuna autocelebrazione da cliché del rock, ma semmai alla celebrazione vitale della musica che viene suonata.
Il film comincia con il solo frontman della band David Byrne sul palco, progressivamente raggiunto dagli altri otto compari canzone dopo canzone (pressoché impossibile non innamorarsi delle coriste Lynn Mabry e Edna Holt), e ogni pezzo sembra avere un suo stile personale nell’illuminazione, nelle inquadrature e nei movimenti di macchina.
Il resto è David Byrne, molto più di un semplice cantante: che sia vestito con un’iconica giacca dieci taglie più grande, che usi una lampada come compagna di ballo, che suoni una formidabile Psycho Killer acustica o risorga come un Lazzaro occhialuto su un’esaltante Once In a Lifetime, ogni suo gesto è il gesto di un artista.
Bonus: si può fare il giochino nello scegliere la propria versione preferita di This Must Be the Place tra questa e quella dell’omonimo film di Sorrentino.
Lo specchio (Зеркало)
Andrej Tarkovskij, 1975

Tarkovskij: croce e delizia di ogni cineforum, simbolo massimo di un cinema osannato e al tempo stesso temutissimo, un nome spesso glorificato che però anche a chi non ha familiarità col cinema d’autore evoca misticismi incomprensibili e sonni profondi.
Per quanto mi riguarda, mi sono avvicinato alle sue opere sempre a piccole dosi spalmate nel corso degli anni, come a sperare che la volta successiva avvenisse il miracolo, ma mi sono sempre fermato su una curiosità e un’ammirazione intellettuale che non sono mai diventate amore sincero, probabilmente a causa della sua visione rigorosa che non fa nulla per spruzzare minime dosi di intrattenimento tra un’epifania spirituale e l’altra.
Nonostante questo, Lo specchio è un film che in quanto a epifanie spirituali, momenti di altissima poesia, scene visivamente spettacolari (al nostro piace bruciare edifici in piano sequenza) e visioni oniriche perturbanti non si tira affatto indietro, e quando il film è tutto questo, è difficile lamentarsene e non rimanere a bocca aperta.
Il problema sorge quando l’asticella si alza e ogni forma narrativa si perde in dialoghi letterari e spesso tediosi, in cui le angosce famigliari dell’autore vengono ritenute abbastanza interessanti da fungere da trama, senza quelle concessioni al vile intreccio che in altri maestri del surreale e dell’autoanalisi come Fellini, Bergman, Lynch e Kieślowski si possono ritrovare.
La trama è un flusso di coscienza di un uomo probabilmente vicino alla morte, ed è come se sullo schermo vedessimo episodi della sua vita senza filtri organizzativi, mischiando bianco e nero e colore (a volte con effetti sublimi), ricordi personali e filmati di avvenimenti storici, madri, mogli, figli, voci narranti che recitano poesie splendide (del padre dell’autore), sogni, visioni ed episodi insignificanti.
L’effetto complessivo è quello, raro, di trovarsi davanti all’opera di un genio, di voler divorare ogni parola sia stata scritta per interpretarla, e un film che ha questo effetto avrà sempre il mio plauso, ma sulla linea sottile tra l’ipnotizzante e lo sterilmente ermetico, il confine viene varcato un po’ troppo spesso. Da rivedere.
Influenza piuttosto netta su ogni cosa abbiano fatto David Lynch e Terrence Malick, nonché sul Cielo sopra Berlino (1986) di Wenders, che infatti inseriva l’allora recentemente defunto Tarkovskij tra gli “angeli” a cui era dedicato il film.
Rolling Thunder
John Flynn, 1977

È questo il grande problema di Quentin Tarantino: ha convinto milioni di persone che certi pessimi B-movie fossero il massimo del cinema mondiale, ed è pieno di gente che non appena nomina un qualche filmaccio misconosciuto è pronta a recuperarlo per vedere cosa ci ha visto di buono il Maestro.
Nello specifico, uno di questi sono io, che ho riesumato questo film dopo averlo sentito citato da Quentin come uno dei suoi preferiti, anche se non posso certo dire di aver condiviso il suo entusiasmo.
Il fatto è che non si tratta né di un “vero” capolavoro d’autore né di uno di quei film di kung-fu o di horror amatoriale in cui tutto è talmente fuori di testa che si finisce per esserne conquistati: qui la trama ha una sua serietà, e il co-sceneggiatore è nientemeno che Paul Schrader (Taxi Driver e Toro scatenato, per dirne due), ma il risultato è involontariamente trash.
La storia è quella di un militare che negli anni Settanta torna dal Vietnam dopo anni di prigionia e torture, giusto in tempo per rendersi conto che soffre di disturbo post-traumatico, che sua moglie si è trovata un altro uomo e che suo figlio nemmeno lo riconosce. Questa prima parte è terribilmente realistica nel descrivere una situazione probabilmente comunissima a migliaia di famiglie, ma che non viene mai affrontata con tanta dovizia di particolari in altri film.
Poi, l’evento-chiave: una banda di balordi gli entra in casa per rapinarlo, e per sapere dov’è il malloppo lo torturano con tanto di mano maciullata nel tritarifiuti del lavandino (Mr. Blonde ha imparato qualcosa da qui, e idem l’Haneke di Funny Games…), e poi fanno anche di peggio.
Schrader in questo periodo, tra Taxi Driver e Hardcore, era in pieno trip da vendicatori urbani, e così anche questo ex marine, vero e proprio Rambo prima di Rambo, parte con un uncino al posto della mano per cercare i malviventi e accopparli.
Il modo in cui però la vendetta si delinea è veramente da serie B: lento, ridicolo e con pessimi dialoghi, e si capisce perché anche con una storia simile, con lo stesso sceneggiatore e con temi ricorrenti (gli incontri tra uomini ossessionati e incapaci di amare con bionde fanciulle angeliche), Taxi Driver rimane Taxi Driver, mentre Rolling Thunder è pressoché sconosciuto.
Carter (Get Carter)
Mike Hodges, 1971

Quanto possono fare a volte cinque anni nella vita di un uomo! Sembrava ieri che, nel 1966, avevamo lasciato il buon Michael Caine nella parte di Alfie, giovane e spensierato dongiovanni della Swingin’ London, ed ecco che nel 1971 lo ritroviamo che sembra già il padre di se stesso e fa la parte di un ferocissimo killer in cappotto lungo e doppietta.
In realtà il signor Jack Carter del titolo qualche motivo per essere arrabbiato ce l’avrebbe, visto che la sua tranquilla vita da gangster per la mala londinese viene scossa dalla morte improvvisa del fratello, residente in una lugubre e grigissima città industriale del nord.
Carter non crede alla versione ufficiale dei fatti, e si reca quindi sul posto per indagare a modo suo sui piccoli e grandi criminali del posto, risultando rapidamente sgradito e dichiarando una guerra privata che a fine film sconvolgerà i ritmi di lavoro delle onoranze funebri locali.
Superato un certo ridicolo iniziale in cui non ci si sente pronti a vedere Caine in un ruolo così amorale e spietato, il film dopo un inizio equilibrato diventa uno show per capire fino a dove si spingerà, tra scene in cui esce nudo in cortile con un fucile in mano, sesso telefonico, pugnalate a sangue freddo, donne uccise senza rimorso e sadismi vari decisamente anomali per il costume dell’epoca.
La trama è di quelle per me incomprensibili in cui si citano di continuo intrighi tra ignoti Jack, Cliff, Bob, e non si capisce chi sia alla fine il colpevole, ma ci si può comunque godere il mix tra i paesaggi di un’Inghilterra neorealista alla Ken Loach, un montaggio spezzato che ammicca a Senza un attimo di tregua (1967) e un eroe sadico che ricorda l’ispettore Callaghan di Clint Eastwood, per il quale finiamo per sentirci costretti a parteggiare.
Esordio del regista, che poi purtroppo si è perso tra film non eccelsi.
A letto con Madonna (Madonna: Truth or Dare)
Alek Keshishian, 1991

Madonna: che dire (ancora) di lei, dopo quasi quarant’anni di carriera, milioni di dischi venduti, decine di cambi di stile e una popolarità che non conosce confini? Be’, per esempio, guardando questo documentario girato durante il Blond Ambition Tour del 1990, si può avere conferma di quanto, nel bene e più che altro nel male, la sua figura sia stata incredibilmente influente per intere generazioni di star e starlette future.
Certo, la musica pop non è nata con lei e le grandi dive non erano una novità nemmeno negli anni Ottanta, ma quel mix di musica (tendenzialmente) bruttina e ballabile, coreografie estremamente curate e sensualità più che mai esibita è stata la ricetta per tutte le Britney o Lady Gaga successive degne di essere adorate da milioni di tredicenni.
A letto con Madonna in originale si chiama Truth or Dare, “obbligo o verità”, e come nell’omonimo gioco adolescenziale la signora Ciccone sembra decisa, e anzi narcisisticamente lieta, di rivelarsi senza filtri al suo pubblico. Eccola quindi sul palco a colori (nelle sequenze in fondo meno significative del film), e poi in un bianco e nero laccato da copertina di Vogue (no pun intended) intenta a passare le giornate tra hotel, camerini, party e soundcheck.
Il film è un po’ l’esatto opposto di Stop Making Sense dei Talking Heads: qui i musicisti non si vedono mai, la voce sembra perfino in playback, e la musica è quasi un in più, mentre il fuoco è sul personaggio e sulla sua “corte”, che tratta con paternalismo amorevole ma un po’ falso, proprio come fosse una regnante settecentesca.
I suoi cocchi di mamma sono ballerini e truccatori, quasi tutti gay, spesso appartenenti a minoranze etniche e provenienti da storie difficili, che qui si ritrovano come teenager a consolare e farsi consolare dall’ape regina che amoreggia con Warren Beatty, probabilmente già sogno erotico di sua madre, come a conquistare ogni vetta della celebrità.
Tra feste con Almodovar e innamoramenti non ricambiati per Banderas, tra divertenti insulti dietro le spalle di Kevin Costner e fellatio praticate su una bottiglia, Madonna ne esce sicuramente come una donna intelligente, in fondo simpatica e dotata di una volontà d’acciaio, che però è difficile prendere sul serio visto l’atteggiamento costante da adolescente circondata dalle amiche alla sua festa dei 18 anni.
Come sempre, ogni stroncatura di capolavori immortali o apprezzamento di schifezze immonde è pubblicata in piena facoltà di intendere e di volere e non è sottoponibile ad azione penale da parte di cinefili offesi nell’animo.
Alla prossima puntata! (qui l’archivio con tutti gli altri volumi, e qui tutti i film in ordine alfabetico)
“Una guerra privata che a fine film sconvolgerà i ritmi di lavoro delle onoranze funebri locali” ahah
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Ahaha grande letteratura 😂
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